un tale, una tale – tra oralità e scritture n.11: Cosa voglio fare quando scrivo poesia?

 

di Marina Corona

A volte mi è capitato di pensare: “Ma che cosa in fondo voglio fare quando scrivo poesia?” E la risposta era: “Voglio scrivere il silenzio”. Mi sembra infatti, quando mi raccolgo in me stessa per farmi il più prossima possibile a quell’atmosfera interiore da cui sgorga la poesia, di approssimarmi a una ‘zona’ profonda dove le parole non nascono da concatenazioni logiche o da impressioni ma, avvolte dal silenzio come da una nebbia, nascono da un intrattenersi dell’anima presso il mondo. Il mondo, benché nella sua totalità comprenda il parlare degli uomini, in se stesso non ha voce umana anche se ha una sua intensissima sonorità. Mi hanno raccontato che un viaggiatore che s’inoltri nei ghiacci dell’Antartide si trova in un paesaggio rumorosissimo per gli scricchiolii continui del ghiaccio che si assesta, il fragore dei grandi blocchi che si distaccano dalla superficie compatta, il rumore delle onde prossime o sottostanti, i ruggiti lontani degli orsi, l’abbaiare delle foche, lo stridio degli uccelli, il sibilo del vento che taglia il ghiaccio e così via. Ecco quindi che nella dimensione di somma solitudine  il mondo si rivela anche sotto forma di suoni. “ ma non volevi scrivere il silenzio?” osserverà giustamente il lettore. Sì, ma io appartengo alla comunità umana e quando dico: ‘ scrivere il silenzio ’ intendo: ‘ scrivere l’assenza di parola’. E’ dunque un silenzio fragoroso quello in cui m’inoltro quando mi approssimo alla mia interiorità più intima. Già: intima, perché io,tanto più mi distacco dalla comunicazione con i miei simili, tanto più mi scopro in un rapporto sensibile, assorto, empatico con il mondo. E’ in questa relazione che abolisce il tempo, perché precede la strutturazione mentale del tempo ed è quindi da un lato primordiale dall’altro lato vertiginosamente futura, come se io fossi da una parte un aborigeno dall’altra un marziano,che sgorga per me la poesia. Cos’è dunque la poesia? E’ l’interpretazione o la traduzione di quel sentire panico in parole il più possibile precise, il più prossime possibile quindi all’indicibile o, se si vuole, al silenzio. Queste parole esigono di essere molto vicine ai suoni e anche alle ombre, alle luci, alle forme e alle parvenze che appaiono nel mondo, ecco allora il loro ordinarsi in modo, per così dire, musicale. Per entrare in consonanza con i variegati modi in cui il mondo si dà e per tradurli in forma scritta, occorre che la parola abbia una sonorità, un ritmo, sia situata nel testo in modo da avere potenza evocativa, risuoni nella rima suggerendo un’eco. Se alle origini della poesia i poeti cantavano accompagnati da strumenti era perché ripetevano l’incanto del mondo che è ritmico, cadenzato. “ Ma quindi”, si potrà chiedere, “Tu in poesia non fai altro che adeguarti al linguaggio ‘naturale’ e ciò che fa parte dell’umana avventura ti è sconosciuto?” “Certo che no” è la risposta. Infatti da quel nucleo primario di sentire poetico, che è il contatto tra il più profondo sé e il mondo, si dipana, in una sequenza melodica sgorgata da quella primitiva consonanza, la vicenda della vita fatta di considerazioni, emozioni, amori, accadimenti sociali, artistici, tutto quello insomma che costituisce la trama delle nostre giornate, ma che si svolge al ritmo di quel tamburo primordiale che è il pulsare della zona più antica dell’anima, la quale ‘sente’ il mondo parlarle  e funziona da cassa di risonanza  per ogni vicenda che venga poeticamente narrata. Per iscritto? Sì, per iscritto. Noi non siamo più alla prese con l’oralità dei primordi e la nostra traccia poetica si esegue sulla carta ma con quegli strumenti stilistici, più o meno moderni, che si levano da quella sonorità armonica che noi abbiamo creduto nascere dalla spontaneità della voce umana, ma che si leva in realtà da quell’assonanza tra voce del mondo e anima dell’uomo in cui riposano silenziosi gli dei.


Marina Corona è nata a Milano nel 1949, dal 1970 al 1994 ha vissuto a Roma. Nel 1990 ha vinto il Premio Internazionale Eugenio Montale per la sezione inediti e di conseguenza la sua silloge è stata pubblicata nell’antologia di Vanni Scheiwiller all’insegna del pesce d’oro. Nel 1993 ha pubblicato il libro di poesie Le case della parola (I quaderni del Battello ebbro). Nel 1998, L’ora chiara (Jaca Book, Premio Internazionale Eugenio Montale per la sezione editi, Premio Guido Gozzano, Premio Alghero – donna, Premio Circeo – Sabaudia,Premio Letterario Internazionale “Maestrale”- san Marco). Nel 2006 esce I raccoglitori di luce (Jaca Book, finalista al premio Lorenzo Montano). Ha tradotto per la casa editrice Egea il libro Dialogo con Heidegger di J. Beaufret e, per la casa editrice Jaca Book, la prefazione al volume fotografico Mariana Yampolski. Ha partecipato alla stesura del Dizionario filosofico per la casa editrice Garzanti e alla stesura del Dizionario del comico per la casa editrice Jaca Book . Ha curato cicli di presentazione di poeti e letterati contemporanei e letture di poesia presso il Circolo della stampa, Archivi del 900 e La casa della cultura di Milano. Il romanzo La storia di Mario è di prossima pubblicazione presso la casa editrice Antigone.

Ida Travi
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