Claustrofonia [stratagemmi stereofonici nel melologo ‘Musa a me stessa’ di Rosaria Lo Russo]

 

di Marco Simonelli

Dramma visionario e fiabesco, monologo in versi, happening che mixa e mima le gesta interiori di una protagonista-poetessa, Dimenticamiti[1] è il testo che apre la riflessione politico-psicoanalitica di Rosaria Lo Russo ne Lo dittatore Amore, raccolta di “melologhi”, ovvero arie operestiche per voce recitante e strumenti vari. Il “melologo”, così come Lo Russo lo concepisce, non è che la dimensione fonetizzata del corpus testuale nel sistema della riproduzione mediatica. Scegliere un supporto come il compact disc (oltre alla carta) per tramandare la propria voce ad una posterità non è puro atto di narcisismo, per un poeta: è consegnare, attraverso l’interpretazione personale (la rendition dell’autore) un sé-diretto, originalmente parlato, in qualche modo più autentico e vivo, non filtrato dal rapporto occhio-pagina che lega un lettore ad un autore. In quest’ottica, da anni Rosaria Lo Russo pratica una forma di poesia orale, di totale “spettacolo poetico” del sé e con il sé, dando vita ad un continuo e frenetico morality play lirico. La rappresentazione – interpretazione del sé, che in un libro come Comedia[2] poneva l’accento sulla propria biografia personale, in Lo dittatore Amore e in particolare in questo Musa a me stessa si fa riflessione e protesta, attiva messa in scena che denuncia il ruolo di mortificazione sessuale in cui il Padre-Poeta-Maschio ha relegato, in secoli di poesia italiana, la Donna. E’ così fatto a pezzi lo stereotipo che vede le figure femminili letterarie ricoprire il ruolo di incorporee ispiratrici, angeli asessuati che guidano il maschio-poeta attraverso labirinti di parole, Madonne-Madri inequivocabilmente vergini, non deflagrate, in qualche modo non ammesse dal maschio ad una materialità dell’Eros e quindi condannate ad una morte per soffocamento da eccesso di Thanatos.

In Musa a me stessa, lo spazio precede la parola. La dimensione del testo non è più empirica, soggetta a ricognizioni sommarie da parte dei fruitori: al contrario essa ha un corpo, uno spazio preciso, un luogo fisico in cui avviene, in cui si manifesta. Da un punto di vista strettamente tecnico, il cutting e il mixage della performance registrata su disco non costituiscono un mero accompagnamento formale alla voce della protagonista-autrice, hanno invece valore di modulo testuale in forma di citazione paraletteraria: sebbene Lo Russo definisca questi pattern fonici come “citazioni testuali”, essi vengono assorbiti nel testo scritto duettando con la voce monologante. Forse risiede qui, in questa commistione eroicomica di spunti formali, la genesi dell’enunciato sfacciatamente pop di Lo Russo: un flusso, un nastro che si srotola nella mente del fruitore durante l’affabulazione, capace di assimilare e decontestualizzare le stornellate di Riccardo Marasco (bardo fiorentino dedito ad un recupero della tradizione giullaresca), un brano trash-vintage di Cochi e Renato e la “commedia eroica in cinque atti in versi” di Edmond Rostand Cyrano de Bergerac.

La poetrice protagonista, chiamata dalla sua “vocazione di voce” a rendere foneticamente esatto il flusso del testo, è qui anche regista di sé stessa, nonché sceneggiatrice: si ha comunque l’impressione che l’opera definitiva non sia quella della versione a stampa (corpo oralmente defunto e testimonianza postuma del discorso) bensì la sua fonetizzazione adeguatamente mixata e postprodotta; come per l’esecuzione musicale nell’epoca della riproducibilità multimediale, l’attenzione del fruitore si sposta dalla composizione all’esecuzione, intravedendo in quest’ultima il fine e la fine del lungo processo psichico che porta l’artista a modellare la sua creazione.

Musa è un testo che nella sua denunciatoria messa in scena possiede una non troppo segreta

ambizione di rivalsa da parte della poetrice intenta in una “rifondazione donnità-femminità” su una lunga stirpe di poeti maschi che hanno concentrato il proprio sguardo sulla donna ghettizzandola e raggelandola in un ruolo di ispiratrice materna e incorporea. Uno sguardo mutilante e avvilente su un corpo femminile che richiama l’attenzione di un pubblico sulla sua segregazione.

In Prologo con bando, antefatto del poema in forma di nota di regia e descrizione scenica, troviamo già evidenziati non solo i toni di questa profana rappresentazione, ma anche i temi: la protagonista (la stessa scrittrice) “a cavalcioni di una sedia come l’Angelo Azzurro” siede “nel mezzo di una cella-teca” fra “tende rosse, vulvari”. Una dimensione, quindi, non solo spaziale ma fisica, corporale e allo stesso tempo letteraria, archetipica. Il luogo della femminilità massima non è lo stilnovistico e abusato “cuore” ma la non meno poetica vagina, libera da qualsiasi rimozione semantica operata dal Poeta-Maschio durante i secoli. La donna in questione è rinchiusa in un tabernacolo: Lo Russo ha capito che per abbattere lo stereotipo che vuole la donna “santa/puttana”, è necessario in primis immergervisi dentro. Ecco quindi l’autrice-personaggio “in teca di Madonna”, sadomaso “Angelo Azzurro” con frustino, non sappiamo se più angelica o luciferina. Questa dicotomia centrale viene espressa anche ad un livello fonico, nel testo orale: la voce, per effetto stereo, sembra provenire da due lati dello spazio, un effetto dolby di cui Lo Russo si avvale per circondare il fruitore del suo testo e costringerlo quindi ad una forzata identificazione col suo personaggio quasi murato vivo nella teca. Sottolineando l’estro sadomasochistico dell’azione verbale (Musa a me stessa, come altri melologhi di Lo Russo, è, più che poesia per teatro, un happening vocale che si avvale del corpo fonico per compiere l’azione), lo schiocco feroce di una frusta alla fine del brano suggella il clima di dolore e tortura del testo: gesto-suono che pone l’accento sul danno subìto dalla protagonista e sul suo desiderio di una catarsi che ristabilisca l’ordine. Ma non di semplice femminismo si tratta: il personaggio, nelle sue maschere (strega, santa, puttana etc.) è soprattutto una dominatrix che non anela ad un equilibrio paritario ma si spinge oltre. Il suo barocco tentativo di supremazia punta ad una denuncia ed è cifra anche sonora di frustrazione.

Il poema si apre col primo movimento, Parodiando, che contiene già nel titolo evidentemente crastico l’accezione di “parodia” e non disdegna associazioni foniche con l’odio, tramutandosi, appunto attraverso una sfacciata e funzionale parodia dell’Infinito leopardiano, in un’invettiva denunciatoria della Musa. Il tema della castrazione e dell’invidia del pene emerge qui per la prima volta (“ove io mi fingo un fallo fra le cosce”), e più oltre si definirà “travestito […] per lui”: impossibilitata a veder riconosciuta la propria identità poetante femminile, l’autrice si sente costretta a farsi ibrido, operando un’inautentica presa di possesso del fallo-logos. Anche il discorso, come la dizione scenica e la protagonista stessa intrappolata nel proprio tabernacolo, si presenta chiuso in sé stesso, asfissiante; il tentativo di ribaltamento della voce del “poeta dall’obtorto collo” è cosparso da “fiati in fuga “ di “silvie morte lune” (le consorelle muse morte, vittime della strage operata dal Poeta-Maschio: all’ascolto sono questi “fiati” a emergere, respiri da soffocamento e sibili di banshees insoddisfatte, che costeggiano la quasi asettica dizione del testo. Stratagemma di remix di suoni da non considerarsi come orpello ma strettamente funzionale alla resa drammatica della parola.

Il secondo movimento, Deuteragonia, si avvale della tecnica di esposizione doppia, di duetto fra il fuori e il dentro, fra musica e verso, fra storia e sua esegesi. La deuteragonista è lo stereotipo immutabilmente fisso non solo dello “stilnobbismo” trecentesco ma anche di quello novecentesco che fredda la femmina Clizia nei “ghiaccioli” montaliani. Il “mito platonico della scrittura” è amore platonico che esclude il corpo e si concentra sulla contemplazione dell’oggetto. A farne le spese sono le “donne di” che Lo Russo elenca in questo brano, insistendo sul genitivo riferito ad un maschio d’appartenenza ed escludendone il nome proprio, come a negar loro un’identità e quindi una legalità all’esistere in quanto essere umano. “Tutte tenute sott’occhio”, dice Lo Russo. E all’interno di quest’occhio di vetro (che esclude la Musa dal gioco) vediamo “Biancaneve in teca bara o superotto con Teda Bara”, una tomba dove la femmina giace morta o una vecchia pellicola su cui è impressa una diva del muto; da notare come l’assenza di voce cui la Musa è stata condannata per secoli sia da collegarsi alla morte della stessa. Conclude il movimento una variazione fonicoparodica di uno spot: Lo Russo fonetizza il suo verso emulando la voce di Reinhold Messner che reclamizza un’acqua minerale. La “Sponsa con sponsor a passeggio lungo l’Arno” altro non sono che la poetrice-musa-madonna con San Francesco d’Assisi: il loro non-incontro, la mancata unione, si risolve in una “copula emulatio”, brutta copia dell’amore carnale.

Ma l’azione si risolve in un’implosione scenica resa acusticamente con un sottofondo sonoro di rantoli demoniaci: la poetrice chiede di essere lapidata con “gingilli e monetine”. Catastrofetta (strofa della catastrofe) è dedicato alle poetesse-poetrici “Consorelle Materassi” a sottolineare l’intento po-etico di Lo Russo verso una “rifondazione di donnità”: la prosopopea della poetessaatrice- santa-pazza-musa-madonna votiva che s’immola assume quindi il valore di “sacrificio politico devozionale”. Non possiamo (per ora) sapere se questo sacrificio sia stato utile o meno alla letteratura e, certamente, se di sacrificio possiamo parlare, Musa a me stessa non si propone come alternativa o proposta di superamento (Lo Russo affronterà quest’aspetto della sua ricerca letteraria nei testi melologici de Lo Dittatore Amore, la cui composizione è successiva), bensì come affresco storico della condizione femminile nella letteratura occidentale (e non solo). L’operato del “poetricio” (termine crastico, pun di matrice rosselliana che fonde la pratica della poesia con quella del meretricio) ha come punto d’arrivo il superamento di un complesso di Elettra attraverso l’appagamento incestuoso coi Padri Letterari: i tentativi di portare a termine questa psicoanalisi storico-letteraria prevedono per Lo Russo una semantizzazione dei luoghi del linguaggio infantile, in questo melologo particolarmente accentuati. Dalla filastrocca della rificolona fino alla fiaba della Baba Jaga, in Musa a me stessa gli accenti cantilenanti della dizione orale abbondano, quasi in un tentativo di dialogo con il sé infante, mitopoiesi della bambina Elettra da aggiungersi al già nutrito stuolo di personificazioni della poetrice.

Il melologo trova la sua chiusura testuale (non fonetizzata dall’autrice nella registrazione) con il Post Factum, sorta di provvisoria conclusione al duello fonico con successivo martirio della scrivente-poetante. Laddove in Sequenza Orante Lo Russo concludeva con un timbro concitato e orgasmico, in Musa abbiamo una sincera dichiarazione di disfatta, ne sono testimoni i prestiti verbali e figurativi impiegati: “ “È morta! È morta!” Bela malcerto […] Bambi”, “Ci siamo fatti fuori, carissimo Pinocchio”. Anche il riferimento al “Santo Uffizio”, alludendo alla rosselliana Libellula, con cui questo melologo condivide l’ossessione per i “Santi Padri”, è teso a rilevare un forte senso di clausura e devozione e, in definitiva, di sottomissione al Padre-Dittatore, sia egli tiranno letterario o maschio stilnobbista. Non a caso il volume in cui confluirà il melologo, concluderà il “romanzo allegorico in versi sfacciatamente autobiografico” (iniziato con Comedia cinque anni prima) con una lapidaria dichiarazione di sosta, di interruzione e vanificazione dell’atto poetico, azione autoerotica appagante: “Smetto di masturbarmi allo specchio del Padre” definita dall’autrice in nota come “ (de) -fungente petizione finale a una rifondabile donnità-femminilità”.



[1] Questo il titolo originale del testo che compare in apertura di ROSARIA LO RUSSO, Lo Dittatore Amore- Melologhi (Milano, Effigie Edizioni, 2004) Cfr. ROSARIA LO RUSSO, Dimenticamiti musa a me stessa, Poema con prologo, bando e post factum – con sedici disegni di Renato Ranaldi. Edizione originale impressa su carta Magnani in 35 esemplari numerati da 1/35 35/35 e 35 in numeri romani numerati da I/XXXV a XXXV/XXXV più una prova d’artista, Prato, Edizioni Canopo, 1999.

[2] ROSARIA LO RUSSO, Comedia (Milano, Bombiani, 1998)

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