La poesia di Dante Maffia

 

di Giuseppe Pedota

Seguo la poesia di Dante Maffìa a cominciare dal suo esordio, nel 1974, anno in cui uscì la sua prima raccolta di versi: Il leone non mangia l’erba. Ricordo che il titolo m’incuriosì e poi la sorpresa fu grande perché sentii immediatamente molte affinità con il poeta, una sintonia di temi e di sensibilità che mi catturò. Credo che badai appena alla prefazione di Aldo Palazzeschi, che era comunque un evento, e poco badai all’avallo di Mario Scotti, ordinario alla Sapienza di Roma, e a quello di Elena Bono (unica poetessa che aveva scritto e edito con Garzanti poesie ispirate alla Resistenza). Maffìa mi catturò per l’eleganza espressiva, per la freschezza degli accenti, per il modo tutto personale di porre le immagini e accenderle di un fuoco a quell’epoca, pressoché inedito. Non si dimentichi che da poco più di un decennio si era cominciato a scrivere badando soltanto ai significanti, insomma, alla filologia, e trovare un giovane che ricusava di salire sul carro della moda, nonostante che ne avesse la possibilità, mi sembrò una scelta coraggiosa, consapevole anche di essere avversato, di non essere preso in considerazione dalla critica ufficiale.

Questo primo libro di Dante Maffìa rivelava senza mezzi termini la storia di un poeta che partito da un borgo calabrese, dove cultura e poesia erano termini sconosciuti, era approdato nella capitale giocandosi le carte senza furbizia, senza calcoli, convinto che bastasse il valore per ottenere riscontri, per trovare accoglienza.

Non era così e non è così e tuttavia il libro fu notato e premiato in varie occasioni: qualche lettore delle Istituzioni non si sentì di trascurare quell’esordio così perentorio, frutto di lungo tirocinio, di lavoro meditato e pesato in tutte le sue sfaccettature.

Ricordo che alla Libreria Croce di Roma durante la presentazione del volume c’era la sala gremita e al tavolo erano seduti Aldo Palazzeschi, Walter Mauro, Milena Milani, Dario Bellezza. Tra il pubblico Giorgio Caproni, Elio Filippo Accocca, Mario Lunetta, Melo Freni, Luciano Luisi, Elena Clementelli, Giovanna Bemporad, Attilio Bertolucci, Leonida Repaci. Un avvenimento che riempì la cronaca dei giornali. Come aveva fatto questo ragazzo venuto dal nulla, da un paesino sperduto della Calabria, a far confluire il gota della letteratura romana alla presentazione del suo libro?

Mistero, come mistero è stato il «furto», come chiamarlo altrimenti, del Premio Viareggio Opera Prima assegnato a Il leone non mangia l’erba (1974) – (dichiarazioni di Remo Croce che racconta di avere ricevuto una telefonata di Carlo Salinari dicendogli: «Oh, questo ragazzo è proprio geniale e denso come un frutto di bosco. Gli abbiamo dato il Viareggio»).

Poi il premio, con una manovra repentina, fu tolto a Maffìa e assegnato a un politico, uno dei tanti che scrivono banalità prive di qualsiasi decoro. Il libro di Maffìa ha una sua pienezza che trascina, una sua voce distinta e antica e mostra che egli sa usare la parole come un antico saggio.
Questo pensiero mi è tornato in seguito più volte: Maffìa è un serbatoio di ricchezza culturale, una cultura che sa macerarsi e confrontarsi e scendere a patti con qualsiasi linguaggio, con qualsiasi argomento. Tanto è vero che nel suo secondo libro, Le favole impudiche, edito da Laterza tre anni dopo con un saggio introduttivo di Donato Valli, rettore dell’Università di Lecce, il poeta affronta anche la «poesia civile», su cui quasi tutti i poeti, anche scaltri e di alta statura, cadono. Il nostro invece riesce a dimostrare che si può entrare nel cuore vivo della cronaca e della politica soltanto se si ha la mano leggera e si sa organizzare la struttura fuori da ragioni personali, individuali. Il poemetto che dà il titolo al volume opera in questo senso e realizza momenti indimenticabili di una poesia che visita il dolore delle perdite quotidiane, il fluire stentato del morire dentro la notizia.

Poi Maffìa ha cominciato una danza irrefrenabile, anzi una batteria di fuochi d’artificio che lo hanno portato a far fibrillare la saggistica, la narrativa, il dialetto, i commenti ai classici Un lavoro senza soste, e infatti sembra quasi incredibile che una sola persona possa sapersi districare in tante direzioni e produrre opere che hanno sempre qualità e sanno determinare un vasto interesse.

Ma io adesso voglio parlare soltanto della poesia di Maffìa senza neppure affacciarmi negli altri campi da lui frequentati. Il terzo libro fu un altro editore pugliese a pubblicarlo, Capone di Cavallino di Lecce. Che credette nel poeta o lo difese a spada tratta. La prefazione di Enzo Mandruzzato, il famoso biografo di Ugo Foscolo e l’eccellente traduttore di Orazio e di Holderlin, per fare soltanto due nomi, e la postfazione di Dario Bellezza, sancirono la presenza di Maffìa nel panorama poetico. Bellezza tra l’altro scrisse che Maffìa è «il più felice poeta dell’Italia moderna».

Parole forti, pesanti, che probabilmente irritarono molti uomini di potere al punto che ci si misero di buzzo buono per farla pagare al giovane che sembrava non conoscere barriere e traguardi.

Passeggiate Romane (1980) è un’opera inquieta, un crogiuolo di sensazioni, di idee, di momenti drammatici offerti con la solita freschezza, non c’è mai una «cartolina» (e il tema si prestava facilmente al bozzetto), non c’è mai una slabbratura, una caduta. Tutto è essenziale, robusto, armonico e Roma vi appare nella sua grandezza e in una disperata apertura di cielo antico. Il poeta si muove nella città dei papi come un’anima in pena che vuole cogliere l’essenza, la profondità umana delle pietre e si  incontra e si scontra con la diversità, con l’imponderabile, con l’irrisolvibile in un andirivieni che lo porta alla Stazione Termini a guardare partire i treni per la Calabria si può solo immaginare con quanto strazio.

Era quasi naturale che piacesse agli americani e infatti il libro fu subito tradotto da una università statunitense e vinse il Premio Trastevere. L’altro vincitore del premio fu Aldo Fabrizi per la sezione dialettale. Non mancarono le attenzioni per esempio, di Giovanni Raboni su «La Stampa».

Ma forse non è il caso di ripercorrere puntualmente le tappe delle uscite dei libri di poesie di Maffìa. La sua genialità ne perderebbe perché “costretto” dal succedersi degli eventi. La sua genialità ha qualcosa di favoloso, di coinvolgente. Egli è stato ed è lettore accanito, direi esagerato, e non smette mai di confrontarsi, di mettersi in discussione ad ogni svolta. In questo modo cerca di emendare i testi da quello che lui chiama «il torbido alitare esornativo» puntando a una essenzialità rigorosa ma sempre doviziosa. Perché non bisogna confondere l’essenzialità con la stitichezza di alcuni poeti che rimestano il medesimo brodino vegetale da sempre imitandosi e negandosi, amandosi visceralmente e uccidendosi ad ogni attimo nel buio più insipido. Maffìa è essenziale in modo molto particolare, perché la sua poesia è sempre densa e circolare (direi senza tempo, con piena convinzione e tuttavia legata al proprio tempo fuggendolo), illuminata da una tempra filosofica che non demorde e fa capolino spesso. Ecco il motivo per cui a volte acciuffare a volo le indicazioni seminate all’interno dei versi diventa difficile.

Per esempio, ne L’eredità infranta, opera imperniata  interamente sull’emigrazione (tema molto caro al poeta) che porta una prefazione di Mario Sansone, ci troviamo al cospetto di quella poesia oggettiva tanto sospirata dai critici e rara a incontrare. Maffìa (e la cosa piacque molto a Jean-Charles Vegliante che ne parlò nelle sue lezioni alla Sorbona e piacque a Enzo Siciliano che ne scrisse sul «Corriere della Sera») sa svincolarsi dalla malattia dell’io se tale gli appare, ma quando sente che bisogna far fermentare il discorso attraverso la propria presenza non esita a buttarsi nella mischia e a rischiare in prima persona. Insomma, egli sa dosare il cielo e la terra e conosce i meccanismi che possono realizzare la poesia come momento unico e irripetibile, ecco il motivo per cui con disinvoltura si muove tra lirismo e storia, tra affondi nella profondità della psiche e osservazioni pertinenti sulla Storia dell’uomo e sulla sua condizione umana e culturale.

L’eredità infranta, e peccato che se ne siano accori in pochi, a parte il tema sempre scottante dell’emigrazione, sperimenta un linguaggio non si sa bene se frutto del dialetto italianizzato oppure dell’italiano dialettizzato. Non è finzione e non ci sono burocratismi accademici che spingono i critici ad analisi tutte esterne al testo. Maffìa fa parlare gli emigranti (siamo in Svizzera e in Germania, quindi in un’emigrazione europea) con naturalezza. Li conosce da vicino, egli stesso ha subito le ferite della partenza dal luogo d’origine, egli stesso ha conosciuto lo strappo violento dalle radici e sa che la diversità, il nuovo, l’impatto con costumi, tradizioni, lingua diversa produce nell’uomo un terremoto difficile da coordinare al proprio essere senza radicali mutamenti dolorosi. Così il mondo della povera gente appare in tutta la sua dimensione umana e la sua poesia ci fa entrare nella realtà di momenti che restano nel lettore come stimmate.

Nel suo articolo sul «Corriere» Enzo Siciliano aveva affrettatamente posto una relazione tra la poesia di Rocco Scotellaro e quella di Maffìa non percependo, in questo modo, la portata direi rivoluzionaria del secondo, che non ha inteso assolutamente fare un ritorno al neorealismo, né tanto meno a una esperienza di tipo pasoliniano inficiata di eccessi di ideologismo. Maffìa ha inteso rappresentare un mondo nei suoi contrasti e nelle sue dilacerazioni, nella vastità di echi che hanno fatto perdere a intere generazioni il senso della propria identità facendoli trovare in luoghi non luoghi, in città sconosciute e senza misure umane. E credo che stia proprio qui la grandezza del poeta, l’aver saputo inoltrarsi in spazi mai prima praticati. Non che siano mancati i poeti che hanno scritto di emigrazione, ma è stato fatto per lo più con somma retorica, con pianti e piagnistei che non hanno illuminato la violenza del dramma nella sua orrida estensione che ha coinvolto anche le famiglie originarie. Si è parlato di partenze, di valige di cartone, di distacchi senza dare uno sguardo alla perdita delle identità. Maffìa invece calca la mano proprio su questo e gli esiti sono sotto gli occhi di tutti, una poesia potente che crea aloni e riverberi riconoscibili e fuori dalle intercettazioni di qualsiasi neorealismo.

Dopo questo lavoro Maffìa ha affinato il suo scavo, è sceso nel profondo inferno degli studi di poesia, si è immerso in battaglie feconde che lo hanno portato a setacciare le opere dei grandi di tutti i tempi. Diciamo che ha proseguito il suo cammino accelerando, entrando con maggiore adesione e con maggiore acribia critica nella storia letteraria per vedere se ciò ch’è stato codificato è veramente un risultato pieno di conoscenze. Caro Baudelaire ne è la prova lampante e non è casuale che un poeta raffinato e coltissimo come Mario Luzi l’abbia tenuto a battesimo scrivendo, tra l’altro: «L’effetto è molto bello. La mescolanza tra il tono asciutto e risentito del “primo piano” e la dilatazione armonica dei lointains e delle dissolvenze ha servito quasi sempre a dovere il poeta. Anche l’incontro tra cultura moderna, e retaggio mitico (mito che ho sentito stranamente romantico, voglio dire secondo i romantici, in Magna Grecia) ha funzionato tanto bene da designare questo componimento come testo munito di buon grado di esemplarità, assai significativo, dunque». Luzi ha avallato spesso dei poeti, specie in ambito fiorentino, ma quasi mai si è espresso con toni critici di così alta  professionalità, a dimostrazione del fatto che la poesia di Maffìa è riuscita a convincerlo veramente. Non è casuale, quindi, che il libro poi abbia avuto molta fortuna vincendo premi  importanti come il «Tarquinia-Cardarelli» e  il «Martina Franca», e scomodando perfino personaggi come Cucchi, ancora Raboni, Silvio Ramat, e tanti altri da poter dire che raramente un volume di poesia abbia avuto così tante recensioni. Comunque quando Maffìa è uscito dalla sua immersione di letture e di confronti, arrivato ai testi del Novecento ha avuto sorprese amare e cariche di delusioni. So, per esempio, che non riesce a capire come mai un non poeta (così egli chiama coloro i quali sono stati considerati nelle storie letterarie e nelle antologie senza averne nessun merito) come Clemente Rebora abbia sempre spazio e venga proposto e riproposto al punto che Raboni e la Valduga siano caduti nel tranello (o l’hanno fatto per provocare visto che non sono sciocchi) di scrivere che Rebora è uno dei grandi?

Quando Maffìa sente che la lingua gli si è usurata, che non mantiene più l’impegno di saldarsi alla “cosa” e di saperla offrire nella sua essenza,  dà alle stampe un testo in dialetto, A vìte i tutte i jùrne (La vita quotidiana) che Giacinto Spagnoletti definisce opera fondamentale della neo dialettalità (si cfr. il mio scritto sulla poesia in dialetto di Maffìa) e infatti Andrea Zanzotto ne parla a Radio Lugano con entusiasmo, accendendo l’interesse di Vanni Scheiviller che subito dopo pubblicherà due opere davvero fuori dal comune –U Ddìje poverìlle – Il Dio povero-(1990) con una dottissima prefazione di Angelo Stella e I rùspe cannarùte – Le rane golose – (1995) con un’altrettanta dottissima prefazione di Claudio Magris. Franco Loi ne scrive e ne riscrive sul «Sole 24 ore» con partecipato entusiasmo, ma poi, quando compila l’antologia per Garzanti ignora completamente il poeta, vai a sapere per quale motivo. Fortuna che l’editore Marsilio pubblica poi un’antologia dei versi in dialetto di Maffìa.

Ma a me, adesso,  preme fare il punto sulla poesia di Maffìa scritta in lingua italiana, che riprende il corso con L’educazione permanente del 1992 (illuminante il saggio di Spagnoletti che introduce il libro) e con La castità del male, del 1993 (altrettanto significativo lo scritto di Giuseppe Pontiggia). La poesia maffiana è sostanziata di vita e di morte, di letteratura fatta diventare sospiro di vita e di vita fatta  diventare pagina. C’è, nella poesia di Maffìa, un qualcosa di esoterico che però non appesantisce e non ferma lo scatto del dettato e c’è sempre quella musica sincopata che fa da sottofondo e diventa parte integrante del suo discorso. Discorso che non è mai superficiale, che grida la sua incapacità di potersi svincolare dal peso terrestre e arrivare a svelare il ritmo delle sfere celesti.

L’educazione permanente altro non è che l’affermazione perentoria della funzione della poesia, versi secchi che «spiegano» il rapporto che bisogna avere con le parole, con la loro storia, con il loro senso. Maffìa ritornerà sull’argomento qualche anno dopo con Il corpo della parola (2006) che Sergio Givone, da par suo, definisce opera fondamentale per comprendere ciò che si annida sempre dietro il lavoro serio di un poeta.

Una delle sezioni del libro s’intitola La parola e altri presagi e presumo sia facile comprendere, come egli dice, che «le parole mutano pelle», che «l’estasi apre le ciglia», e che «in linfa di buio» si può arrivare a decifrare gli enigmi che la vita offre ad ogni passo e che noi trascuriamo presi da qualcosa di irresponsabilmente vacuo.

Scrive Giuseppe Pontiggia per La castità del male: «La poesia di Maffìa ha sempre rivelato, sotto una ingannevole trasparenza, un fitto tessuto di trame sotterranee che la negavano, rendendola più complessa e più ricca». Pontiggia fotografa appieno il lavoro  del poeta e ne dà una definizione precisa. Ciò significa che sotto la freschezza, la chiarezza e la verità che Maffìa offre, bisogna scoprire anche la verità nascosta, quel lievito che è fatto di abbagli, di stilettate, di lampi, di intravisti mondi ai quali si può approdare soltanto per percezioni. E Maffìa sa cogliere e rendere queste percezioni con una padronanza che a volte meraviglia tanto è lucida e carica di sfumature, tanto è ricca di risvolti impensati. È come se il poeta fosse capace di rubare al mistero, alle ombre, la loro esistenza, almeno una parte, e convogliarla nel mondo dei vivi mettendone in luce non le divagazioni e le suggestioni, ma le coordinate del senso nuovo, raggiungendo così quella felicità di armonia che congiunge all’eterno.

Ricordo una definizione di poesia data da Dante Maffìa: «Un acconto d’eternità». E sono certo che  egli opera in questa direzione per cercare di districare la matassa ingarbugliata proveniente dal lontano emisfero della musica. A Maffìa non interessa annotare le minuzie del vivere e farne un elenco (lascia questo compito ai minimalisti e alla loro visione ragionieristica che non aggiunge e non toglie significato alla vita e alla morte, non scomoda la coscienza estetica né quella etica e non mette in circolo proprio nulla), anche se parte sempre dal dato minimo e dagli accadimenti a cui assiste; a lui preme portare questi accadimenti nell’ambito di una metafisica che tramuta l’oggetto e l’avvenimento in simboli e in allegorie di tipo assolutamente nuovo. Dunque non le allegorie tradizionali di dantesca fattura, ma allegorie che sono frutto di questa nostra civiltà di avviliti profeti della numerologia guasta, di questo nostro errare di porta in porta in cerca di certezze. Le uniche certezze, ci dice il poeta, sono i furti al futuro, il poter arrivare a comprendere una parte di se stessi senza essere proiettati fuori da se stessi.

Credo che questo modo di fare e di scrivere gli venga oltre che dalla lezione di Dante Alighieri, di Tommaso Campanella (al quale ha dedicato un romanzo e di cui ha curato l’edizione delle poesie) e di Torquato Tasso, anche da quella di Umberto Saba. Quest’ultimo rivela, proprio come Maffìa,«sotto una ingannevole trasparenza un fitto tessuto di trame sotterranee», per dirla con Pontiggia.

Con tutte queste premesse, che poi tanto premesse non sono accertati gli esiti di poesie esemplari, Maffìa arriva a scrivere due capolavori (a parere unanime di Mario Specchio, Giuliano Gramigna, Alberto Bevilacqua e di Giuliano Manacorda)  («Con questi testi Maffìa dimostra davvero di essere uno dei maggiori poeti italiani del secondo Novecento») sono dei veri e propri: Lo specchio della mente (Crocetti, Milano, 2000) e La biblioteca d’Alessandria (Lepisma, Roma, 2006). Completamente sparito l’io tanto detestato dai critici (ma Maffìa non progetta a freddo ciò che scrive e quindi non si preoccupa di piacere o non piacere alla cronaca – ripete spesso una frase di Luis Ferdinand Céline: «a voi la cronaca, a me la storia»), sia nel primo libro che nel secondo ci porta dentro la ruota magica della durata della poesia, della perennità della scrittura che per reggere all’usura del tempo ha bisogno di centrare la carne viva del vivere, ancora una volta, e del morire.

Lo specchio della mente è una sorta di spoon river di vivi che però sono dentro manicomi e raccontano la «caduta» nel baratro. La prefazione di Nelo Risi, poeta lontanissimo dalla sensibilità di Maffìa, non esita – nonostante la distanza e la diversità del fare – a riconoscere nel poeta calabrese una realizzazione rarissima nel panorama odierno creando figure indimenticabili di esseri umani che sono condannati all’inferno e tuttavia anelano a uno spiraglio di tenerezza. Questo libro è violento e passionale, aspro e tenero, disumano e umanissimo e non è per caso che viene ritenuto ormai quasi un classico. L’argomento trattato è quello scottante della pazzia, ma non ci sono compiacimenti drammatici, tragici o patetici; il dettato è scabro, essenziale, simile a un referto, a un documento scientifico che però è retto da una «vivenzia», direbbero gli spagnoli, che travalica il puro dato e ci porta verso i sentieri dell’assoluto. Maffìa è entrato nelle menti e nei cuori dei trentaquattro protagonisti dei manicomi del Mezzogiorno e ne ha saputo distillare i fuochi del baratro, le escrescenze del diluviare delle passioni e delle ossessioni con una leggerezza che fa invidia, perché trova la formula, l’atteggiamento poetico giusto per fare poesia senza letteratura. Maffìa è stato sempre anch’egli ossessionato (è il caso di dirlo) dal problema della mimesis e perciò quando riesce a svincolarsi, come in questo caso, dal peso delle sterminate sue letture compie il miracolo e i testi diventano squarcio di luce che si dilata sull’Universo e lo accresce, lo rende più ricco e più luminosamente armonico..

Sentiamo che cosa dice Nelo Risi: «… Maffìa pare cogliere il nodo della questione dando spazio alle allucinazioni più che alle povere vicende personali, privilegiando appunto il linguaggio, un parlare in prima persona nel disordine delle immagini che hanno più del sogno che della sragione, un perdersi in un mare di oggettività attraverso forme che sembrano nascere dal nulla».

All’epoca in cui il «Corriere della Sera» offriva ai lettori una poesia al giorno, molti di questi testi sono apparsi suscitando largo interesse.

Per La Biblioteca d’Alessandria si sono scomodati in molti. Critici di acclarata probità (adopero di proposito un linguaggio antico burocratico) hanno confermato il giudizio di Mario Specchio, prefatore della prima edizione, e quello di Giuliano Manacorda, prefatore della seconda edizione accompagnata anche dalle traduzioni in inglese e in latino, un raffinato e prezioso lavoro di Orazio Bologna.

Maffìa è uno che ha vissuto e vive la poesia come una missione, come una religione, una fede profonda e quasi cieca al punto che da qualche parte ha dichiarato:

Per me la poesia è stata ed è madre, sposa, figlia, amante, verità conquistata e negata, inferno e paradiso, approdo nei luoghi sconosciuti, visitazione del mistero, viaggio per il passato, il presente e il futuro, dannazione e salvezza, ombra e luce di imponderabili occasioni che accadono nell’infinito, immersione nel torbido e nella chiarezza, dannazione e catarsi, muro ampio e altissimo contro la mediocrità, contro il sopruso e la banalità, rivoluzione e resa alla bellezza, ostia che mi ha dato l’ebbrezza e la morte con certezza di resuscitare. È anche pane dolcissimo e vino, finestra aperta su una distesa di belle di notte con la loro orchestrazione di colori, occhi ammalianti di creature che sanno dare voce a chi non può averla. Ed è mille e mille altre cose, cioè la vita in tutte le sue sfumature, ovviamente non la quotidianità che scorre nei solchi del grigio, ma nelle abiure continue, negli stupori nascosti dove meno ci si aspetta. Ma è innanzi tutto crescita umana, alitare dello spirito divino per il perdurare di un incanto che dà senso al mangiare, al bere, alla politica, alla storia, a perpetuarsi dell’umanità fuori dagli schemi e dalle consuetudini.

Come non dare ragione a questa parole? Come non amare poi la poesia di Maffìa che fa toccare con mano simili affermazioni? Mi viene da dire che egli è il Re Mida della letteratura (al di là di ogni valutazione di merito): ciò che scrive diventa pagliuzza d’oro, sempre, come se ormai egli producesse la meraviglia e sapesse distillarla per condividerla con gli altri. Frequentarlo è un privilegio: sentirlo parlare, sempre infuocato e acceso dal demone del mistero, è come abbeverarsi a una fonte d’acqua fresca. Lo so, il lettore crederà che esagero, ma Maffìa affronta gli argomenti (anche quelli inerenti alle arti figurative) con una adesione compatta e non è mai gratuito, scontato. Nelle sue affermazioni c’è sempre il guizzo geniale di chi sa andare oltre la siepe e trarne beneficio per sé e per tutti.

Anche il suo viaggiare per il mondo ha saputo renderlo materia di poesia. Due soli esempi: Diario Andaluso e Viaggio a Francoforte. Due libri che soltanto chi ha una forte tempra poetica può realizzare senza cadere nell’oleografico, nella cartolina. Infatti piazze, strade, monumenti, cioè riferimenti geografici, architettonici e paesaggistici sono frutto di una macerazione interiore che rinnova la visualità e rende i fotogrammi materia assolutamente nuova.

Evidente che la tematica del viaggiare è una di quelle che il poeta ha sempre vissuto profondamente o in maniera diretta o in maniera indiretta. Nel 1984, per fare un esempio, uscì un poemetto intitolato Il ritorno di Omero, piccolo libro che avrebbe dovuto aprire gli occhi a molti critici ciechi per la sua visionarietà: Omero, che nel tempo si è trasformato nei mille e mille poeti di ogni epoca, ritorna a navigare, al posto di Ulisse, per verificare che cosa è diventata la poesia. Non è più cieco e prosegue il suo andare con incontri che hanno una bellezza straordinaria. Lo scritto introduttivo di Giulio Ferroni,  non sa entrare nel merito della poesia di Maffìa, tanto è vero che nell’ultimo volume della ponderosa Storia Letteraria viene citato soltanto come poeta in dialetto, probabilmente una reductio voluta per poter esaltare una scrittura insignificante come quella di Edoardo Cacciatore oppure timore di testimoniare su un poeta che non ha la simpatia del Palazzo e che Ferroni, da ortodosso uomo di sinistra, corteggia sfacciatamente. O che altro, altrimenti?

Eppure Maffìa aveva dato prove di saper trattare il verso e di renderlo lievitato e denso di autentici percorsi già con Caro Baudelaire.

Ci sarebbe da fare una lunga e motivata polemica con chi si arroga il diritto di gestire la poesia italiana senza avere le qualità per giudicare. Fortuna che Maffìa è andato avanti indifferente alla sordità dei gestori (dei gestori, sì!) delle grandi collane di poesia ricavandosi un suo spazio sempre più ampio e sempre più attento, anche all’estero (Argentina, Belgio, Spagna, Bulgaria, Slovenia, Germania, Svezia, Slovacchia, Russia, Stati Uniti, Ungheria, Brasile, Serbia, dove molti suoi testi sono stati tradotti e non nel circuito dei dilettanti, ma da illustri personaggi come Ciril Zlobec o come Verscinin o Aliberti).

Adesso la sua fioritura è in pieno sviluppo e ogni libro è un appuntamento direi necessario e solenne. Libri come Il corpo della parola (2006), di cui Sergio Givone sottolinea lo spessore e la densità, sono scavi profondi, veritieri e illuminanti per comprendere dove la poesia sta andando, così come è illuminante e coinvolgente, avvolgente addirittura Al macero dell’invisibile (Passigli, Firenze, 2006). La prefazione è di Remo Bodei, filosofo mai compiacente, rigoroso, attento a ciò che accade e si sviluppa intorno a sé in tutte le direzioni. Ebbene, Bodei ha per il poeta parole encomiastiche. Evidente che crede nella poesia di questo grande isolato. Leggiamo un passo dello scritto di Bodei:

Rilke ha definito i poeti ‘api dell’invisibile’, perché mostrano dei mondi sconosciuti che ci fanno tuttavia conoscere meglio quello in cui effettivamente siamo, così come l’immagine virtuale dello specchio ci colloca nel mondo reale. Ma per converso, anche perché trasportano da un altro universo, appena intravisto, un polline da cui scaturiscono fioriture di parole e di immagini del nostro.

In Dante Maffìa l’invisibile è andato al macero. La vita quotidiana nel suo ordinato e tranquillizzante svolgersi… nasconde abissi angosciosi…..

Egli sa che siamo semplici ospiti della vita che – al pari degli altri animali piccoli e grandi che popolano la sua poesia… noi non sappiamo perché  viviamo o agiamo. Ne abbiamo solo un’oscura intuizione che la poesia cerca di focalizzare meglio per aiutare a capirsi.

Credo che non ci sia bisogno di nessun commento. Lo so, nature così esuberanti mettono soggezione, tolgono il respiro e a volte ci fanno sentire piccini, ma se in altri tempi si fosse avuto un simile atteggiamento forse non avremmo potuto godere di pagine sublimi. Maffìa comunque non ci fa caso; va avanti con la sua solita marcia, scrive, ottiene consensi veri, arrivati da versanti che non chiedono nulla in cambio (anche perché egli non potrebbe dare nulla se non la sua poesia), dalla sparuta cerchia degli uomini liberi rimasti a salvaguardia della verità. Sono certo che se un giorno, sgombri da invidie, da spartizioni, da raggiri, da clientele e d’altro genere, i versi di Maffìa saranno letti serenamente, riceveranno l’entusiasmo anche dei nemici (Maffìa ne ha tanti per la sua franchezza e per la sua scontrosità critica).

In un libro del 2000, Possibili errori, trovo, a conferma del mio giudizio sul poeta, delle pagine di Dacia Maraini, e ancora, di Mario Luzi. Sentite i titoli: La prodigiosa natura di Maffìa, firmato dalla Maraini che a un certo punto scrive: «L’ansia di vita è così forte che l’autore vuole eterno e imperituro il volo di Icaro»; Una nuova, affrancata stagione stilistica di Maffìa, firmato da Luzi che esordisce: «Ho visto crescere negli anni le ambizioni ideative e l’impegno compositivo di Dante Maffìa, di prova in prova, fino a quando si è sottratto, per così dire, alla mia giurisdizione…. Siamo all’interno di una nuova, affrancata stagione stilistica che si va profilando? Siamo di fronte alla nascita di un nuovo ‘modo’?».

L’ansia di novità e gli approdi in questo senso non sono sfuggiti a Mario Luzi che ha saputo intravedere nel poeta la distanza presa dal suo primo fare; ne ha sentito i fremiti, le vibrazioni, ne ha avvertito il ronzare del dissesto che si fa progetto di un mutamento irreversibile nella pienezza espressiva sempre coadiuvata da maree di  immagini, di sentimenti e di idee che si scontrano e si sviluppano nelle direzioni più impensate. Maffìa è fedele alla grande tradizione purché sia ravvivata da ingerenze inedite, da apporti che scompigliano il senso e lo deragliano verso orizzonti in fuga. Nel Canto dell’usignolo e della rana, testo del 2005, ci sono tutti gli elementi stilistici del futuro percorso di Maffìa, in direzione del rinnovamento linguistico. Di qui lo stile pulviscolare della stagione in atto. Sono le scommesse – a volte pericolose – del poeta che non si arrende mai a ciò che ha raggiunto. C’è sempre un dopo, un territorio ignoto e lui lo intravede.

Ho avuto modo di leggere migliaia (!!!) di lettere che il poeta ha ricevuto da centinaia di poeti, critici e narratori degli ultimi cinquanta anni. Non mancano i nomi di Leonardo Sciascia, di Italo Calvino, di Montale, di Borges, di Brodskij, di Vargas Llosa, di Starobinskij, di Bobbio, di Pasolini, Moravia, Bassani, Gordimer, Eco, Magris, Zecchi, Bevilacqua, Sereni, Raboni, De Libero, Penna, Bellezza, Rosselli, Raimondi, Sanvitale, Serena Vitale, Gina Lagorio, eccetera…. Pubblicare questo epistolario sarebbe davvero un evento. Ma egli non vuole che l’interesse sulla sua poesia sia frutto di suggestioni che potrebbero arrivare dagli avalli. Vuole che la sua poesia sia riconosciuta dopo la lettura dei testi, insomma, sul campo, come si dice. Avverrà? Ha poca importanza, il cammino di Maffìa è tracciato, i riconoscimenti gli arrivano e gli arriveranno sempre più fitti dall’estero e dalle università che da tempo hanno cominciato ad assegnare tesi di laurea sulla sua produzione. In questo modo i giovani si stanno appropriando dei testi di Maffìa, a volte riconoscendocisi, altre volte scontrandocisi. I due atteggiamenti sono segno evidente di vitalità, della attualità (sul temine bisogna ovviamente meditare sul concetto di durata)  di una poesia che sa parlare alle nuove generazioni

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