Se serve un perché
Abbiamo deciso di fare questo tentativo di fissazione per dare continuità
ad un progetto che fin dall’inizio ci è sembrato avesse scoperto uno spazio di vuoto e, al contempo, un certo entusiasmo.
La volontà è quella di raccogliere e diffondere testi, autori e contributi che vengono da un punto di vista spostato; da fuori, dunque, o in una parola – forse usata già troppo spesso – dal dispatrio.
Nel fare questo, ci convince la capacità di registrare questa condizione
a partire dal basso e dalle circostanze della vita di tutti i giorni. Ci muoveremo, almeno sembra, in queste due direzioni cercando di trovare, di volta in volta, un nuovo accordo.
Una sensazione confusa e fortissima, dopotutto
Noi siamo quelli a metà. Quelli a cavallo di un tempo decisamente ancora
confuso e titubante tra un prima a cui apparterremo sempre, ma ormai irrimediabilmente lontano, e un dopo a cui non apparterremo mai, eppure già tutto intorno. Abitiamo in mezzo a un cambio che non riusciamo ancora a capire e di cui, anche se la sentiamo distintamente, non possiamo ancora intravedere la conclusione. Così, noi siamo quelli con le mani in mano.
Ma proprio per questo noi siamo anche quelli che, in mezzo all’articolazione anonima tra post e pre, possono sentire – ancora in modo confuso, ma fortissima – la sensazione della vita intorno senza altra retorica. Quelli che, avvertendola, si accorgono della necessità di un linguaggio che la racconti e «sia il più possibile concreto e il più possibile preciso», come già si augurava Italo Calvino più di quaranta anni fa. Una scrittura poetica che eviti espressioni astratte e generiche e una lingua che senta «la soddisfazione di stringere la realtà in modo che non scappi» e ristabilisca con le cose una relazione accessibile e umana.
Questo forse perché sentiamo confusamente che la poesia è più necessaria
ora, molto più necessaria di quello che si può credere, soprattutto – e ne siamo sicuri – quando riesce a scrollarsi dalle culle inevitabilmente borghesi dei suoi giri autoreferenziali per superarsi, almeno di tanto in tanto, ed arrivare a quelli che ascoltano, spesso in silenzio, come gli spostati, gli sprovveduti, o gli adolescenti – che sono speranza.
Infatti, noi siamo anche quelli che oscillano, in quella articolazione,
sempre anche tra un dentro e un fuori. Quelli che si ostinano a voler raccontare il paradosso geografico ed esistenziale di chi sta fuori, o comunque da un altra parte, da un altro punto di vista. Al di là
dell’isolamento e di ogni frontiera, gli sbandati, i dispatriati, i fuggiti, possiamo alla fine eclamare forse una certa confusa autorevolezza da sprovincializzati, una posizione indipendente, anche dalla madre
patria – o quasi
da editoriali introduttivi pagg. 2 e 3 del numero 0 | anno 2001
di A. Mistrorigo e R. Minardi
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