Leggere Alfredo De Palchi

 

di Roberto Bertoldo

La prima impressione che si prova leggendo le poesie di De Palchi è quella di trovarsi di fronte a dei testi nei quali l’emotività non è intellettuale anche se lo è spesso il messaggio. Intendo dire che se lo stile della poesia di De Palchi è rabbioso, anche collerico, è perché davvero, come dice lo stesso poeta, “la collera … / è l’essenza entro me…” (C.A.[1], p.43). Ciò significa che il giudizio di De Palchi sul mondo non è un giudizio ermeneutico ma sensuale ed è condizionato dallo scontro del poeta con se stesso, con la propria nevrosi. Se dunque c’è una presa di posizione intellettuale, essa è sempre mediata da una ricchezza emotiva, e quindi da un linguaggio, che non stravolge la visione ma la amplifica nei suoi connotati affettivi. E questo avviene sia quando l’autore si chiama in causa in prima persona, sia quando è il mondo in visione diretta.

Ci sono allora due letture plausibili della poesia di De Palchi, come della poesia di tutti i veri poeti: una intellettuale, che si posiziona su entrambi i piani del discorso, letterale e allegorico, affrontando direttamente il messaggio, e una (anche polisemica) emotiva, più direttamente condizionata dal linguaggio che apre ad un messaggio sí intellettuale ma sempre avvolto dalla forte sensualità dell’autore. Prendiamo ad esempio la poesia di C.A., p.34:

L’insettivoro incendio allo zero
compila un miasma – afrore di cadute
nel pugno visibile mette insetti
– io
l’incendio che brulica la specie
spermatozoi
come la mantide predatrice
che progenita divorando.

“Insettivoro”, parola chiave perché si ripete, in C.A. e in genere nell’intera produzione poetica, sia sotto l’aspetto lessicale (insetti, insettivoro, ecc.) sia sinonimico (polvere, costellazione, ecc.), può essere simbolo o semplice metafora: come simbolo, indica con richiamo analogico anche lo spruzzo di festuchi proprio degli incendi, e ciò trova senso nel “brulicare” “la specie / spermatozoi” e nel “progenitare”, in quanto “l’incendio” sono “io”; come metafora, indica lo stato miasmatico dell’umanità.

Certamente la seconda interpretazione, arricchita e suffragata dalla propensione all’avvilimento presente in C.A.[2] e non solo, non è, intellettualmente, disgiunta dalla prima, ma è quella che, attraverso la forte impronta emotiva del linguaggio, colpisce il lettore in prima istanza; ciò, altresì, spiega il fascino che la poesia di De Palchi ha su lettori di ogni “gradino semantico” (Greimas).

Dunque: lo stile rabbioso e nello stesso tempo ludico di De Palchi, che costruisce la protesta con continui giochi retorici tra prosopopee e metonimie (es., C.A., p.21: “la sinistra indulgenza che mi scabbia / la pelle e pesta un pudore”) e forzando metaforicamente aggettivi e verbi (“scabbiare”, “pestare”,…), rende ragione del suo messaggio, che in C.A. è la coscienza del fallimento, dell’anonimato, in fondo voluto (“nessuno mi ha crocifisso / se non io stesso”, p.23), quasi sacrificio da inetto. Il poeta è testimone del proprio, ma emblematico, fallimento, che è quasi una vittoria (“nessuno / è libero, ognuno soccombe a qualcuno / o qualcosa ed io / stufo d’una vita squattrinata mi concedo / una ricchezza ben diversa: / chi mi suppone / in ginocchio alla fioritura pulsante vede / pure che le mangio la vita”, p.19). Egli “congiura” contro se stesso (p.20) e la sua violenza verbale è forza lirica, perché si nutre del riverbero, ed è lirica civile, nella quale la vicenda biografica (soprattutto in S.D.) ed erotica (soprattutto in A.A.) fa da pulsione freudiana (S.A.).

Il poeta, “costellazione anonima” più di “polvere” (C.A., p.35) e di festuchi-“insetti” (C.A., p.34) che di astri; il poeta, che potrebbe anche “guarire” (C.A., p.32) come un novello Zeno ma preferisce l’inettitudine (come il cane, “intelligente” al punto di capire ma non “scaltro” da vincere; C.A., pp.47 e 50); il poeta, nichilista (p.25), “albero dilaniato” (p.51), “incendio” (p.34), “bastardo” (pp.21 e 23), “shock di due estremi” (p.59), aderisce alla malattia, renitente come il passero con le “zampe aggrappate al filtro / del buco”.

Ma il disgusto di De Palchi non è misantropia, non è odio, perché De Palchi aderisce all’umanità, anche all’animalità (“in unisono con gli animali”, C.A., p.28), e il suo moralismo è esortativo. Non c’è né “prete” né “soldato” a difenderci (p.48), l’intelligente ingegnere sa e, con l’ingegnere, il poeta sa e “si contorce / risentito di essere / uomo” (p.51), per questa umanità che si ferisce da sé (“bocche di pesci / aguzze su altri pesci”, p.22).

L’esordio ungarettiano della poesia di De Palchi, del primo Ungaretti, ossia l’esordio monosemantico di S.D., deve farci riflettere proprio sull’emotività non intellettuale ma piuttosto sensuale di De Palchi. Una sensualità visiva che percepisce la decomposizione per esserci appartenuto. È come se De Palchi avesse vissuto sempre “a metà vita” (C.A., p.24) nella selva oscura ed è da questa amputazione che deriva il rinnovarsi del trauma – anche sul linguaggio, anche sulla conoscenza – e della nostalgia, ma una nostalgia vuota di appigli, come se l’infanzia e l’adolescenza fossero evanescenti. Se leggo la Testimonianza[3] del poeta, leggo un’autobiografia mitologica e letteraria dell’adolescenza, non un’autobiografia emotiva, mentre sono emotivi i versi che di questa adolescenza rappresentano, dalla parte del trauma, l’assenza.

Nell’inferno del carcere, là dove la libertà dell’adolescenza è assente, De Palchi dice “mi piego in pena” (S.D., p.74), lui che ha “piedi sudici di terra” (S.D., p.118). Penso, a parte le evidenti corrispondenze tonali e lessicali, ad Ungaretti che ricordava con nostalgia il canto dei Tuareg nel deserto e vedo De Palchi immerso nell’alone del suo passato ormai violentato dal presente. De Palchi non sa raccontare, non può. Vorrebbe piuttosto “urlare” (“il fallimento della mia divisione d’uomo” A.A., p.46) e riposarsi nella donna. L’ossessione sessuale da “topo” giustifica l’inferno, la “fogna”, il “bidone” e tutti “gli oggetti animati o inanimati” (Ibidem) più abietti in cui e coi quali De Palchi si ritrova. È il correlativo oggettivo che ha tuttavia una predisposizione più emotiva che intellettuale. Ed è questo che rende De Palchi ancora più vicino di tanti poeti-filosofi alla verità vitale e la sua poesia, un po’ nutrendosi dell’ambivalenza del suo essere violato, si fa emblema stilistico della sofferenza e della rivolta, con l’atteggiamento critico e allo stesso tempo esortativo che richiama Leopardi, ma un Leopardi più carnale, come più carnale è la sofferenza. De Palchi si getta nella mischia – oggi, a differenza di ieri, con dissonanza semantica (cfr. per esempio, “i fiori catarrali di sputi” e gli “stupendi roghi di benzina” C.A., p.57) –, e la sua battaglia, abbellita dal desiderio e profanata dall’orgasmo, è erotica, ma questa volta senza stacco allegorico, solo rimando tonale. Prendiamo per esempio la poesia a p.94 di A.A. e seguiamo il particolare  tenore del lessico (in corsivo [cors.mio]):

Ritrovarti-rivederti per i sentieri
di questa stanza che ha mente propria e oggetti
qua e là felinamente sparsi
tra cose che tu sola conosci;
non nego che manchi nel nascondiglio in cui
lentissimo ustiono con il fuoco,
su e giù in mozione
per la scala a chiocciola,
a cerchio trivello il pozzo sbattendo
intensamente l’ovale propaggine
della nebula che vertigina.

L’esigenza assopita che mi martella la tempia
si ridesta adesso nell’afa,
aria serrata nella cella che vola;
stretto tra panca e parete e capace
di soffocarmi il muso ferino dentro la rosa
circonferenza della nebula
mi adeguo al movente, al poderoso barocchismo
delle coscie-estremità culminanti
di felina nera.

Non è un caso. L’atmosfera poetica di De Palchi è sempre stata – e qui il nesso col primo Ungaretti – di natura lessicale, con tutt’al più qualche puntata nell’ossimorico. Un lessico rude, che De Palchi non tradisce mai anche se col tempo la sua poesia è diventata più meditativa ma sempre a sprazzi, a incisi. Gli oggetti, gli aggettivi, i verbi appartengono in genere alla disperazione che soltanto nell’erotismo trova riscatto. Si veda ad esempio la mutazione lessicale dell’incipit di p.13 (A.A.): “accoglimi nella bocca materna / soffice, nutriente di liquidi…”. Ma è un fatto isolato. La poesia di De Palchi va letta così, lessicalmente. C’è in essa una disperata resistenza che solo nell’amore fisico trova momentaneo compimento: “Amore, mi soffoco mi costringo a gettare potenza / quando mi spranghi fuori dal tuo corpo riducibile” (A.A., p.52); “…e ho nostalgia di me / dentro il tuo corpo / sinagoga” (p.62).

A.A. è un libro senza pace. Il cinquanta per cento delle parole indica violenza, dolore, abiezione. Il resto è, direbbe Croce, struttura. È in quella violenza, in quel dolore, in quella abiezione la poesia di De Palchi, che non è quindi erotica ma è piuttosto nostalgia dell’erotico. Il “corpo sinagoga”, il “corpo: altare tabernacolo messa del mio cibo” è, come luogo dell’eros, religione, è “altare” sul quale “da francescano prego”, io che sono “il mondo / impiegato del mio corpo di schiavo” (A.A., p.82). Ecco, è il mondo – ossia De Palchi fuori dalla donna – la poesia, “scodella di cancro / e ciste” (Ibidem). Il mondo è la poesia, il corpo della donna la religione. L’evasione, o la salvezza, non è quindi nella poesia, che è invece il luogo della speranza, dell’attesa, del dolore, ma nella donna, nel suo corpo. La poesia di De Palchi non è dunque una poesia lontana dalla realtà, anche se è realtà, spesso emblematica, dell’io.

L’adesione e l’impegno fenomenici della poesia di De Palchi sono quindi anch’essi non meramente intellettuali. De Palchi è costretto a questa adesione, a questo impegno. Non abbraccia il mondo fenomenico per scelta etica o civile, ma per obbligo. È piuttosto la sua umiltà a determinare la sua partecipazione civile, la sua resistenza. E anche il suo moralismo non è mai ideologico, ma nasce dalla frequentazione sofferta col male e con la stoltezza degli uomini. Così, quando scrive, De Palchi non è che un uomo schiacciato dalla propria esperienza e i suoi giudizi, le sue rappresentazioni, sono primariamente sussulti della carne.



[1] Userò queste sigle: S.D. = The Scorpion’s Dark Dance (La buia danza di scorpione), Xenos Books, Riverside, CA, 1993; S.A.. = Sessioni con l’analista, Mondadori, Milano 1967; Mu. = Mutazioni, Campanotto, Udine 1988; C.A.. = Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Minturno, 1998; A.A. = Addictive Aversions (Le viziose avversioni), Xenos Books, Riverside, CA, 1999.

[2] Riporto qui in nota la mia precedente lettura di C.A., pubblicata in Hebenon, IV, 3, aprile 1999, perché annuncia questo discorso.
Costellazione anonima di Alfredo De Palchi è, al di là del suo innegabile valore poetico, un libro di testimonianza, nel senso che è pregno di quel coraggio effettuale e di quella forza civile che fanno di un libro di versi, come direbbe lo stesso De Palchi, da sempre fustigatore degli pseudopoeti faccendieri, un libro di poesia. Di fronte a questi libri di poesia, la critica dovrebbe avere l’umiltà di dirsi impotente e di considerare ogni propria interpretazione, per quanto necessaria e naturale, come un abbozzo.
Si nota, in questo libro, una certa propensione all’avvilimento (“sono / l’escrescenza che si lavora in questa / epoca”, p.22; “nessuno mi ha crocifisso / se non io stesso”, p.23; “riesco a pormi al muro / e annullarmi”, p.25; ecc.) e una filosofia crepuscolare (“ognuno / è per se stesso / e sta in se stesso”, p.42; “il risultato finale era / all’inizio”, p.43), a volte anche nel tono (“non so vivere / ho perduto / lascio che tutto rotoli / giù / finché non c’è più discesa”, p.52). Perché in Costellazione anonima una stella, l’io (intensa la sua presenza), riconosce il proprio microcosmo come “simbolo / atroce di quello fuori” (p.30), cosicché il “letame umano” (p.44) la riguarda. Ma: “come si può accettare la storia, la storia / quotidiana” mentre ogni animale “lotta” per la “sopravvivenza” (p.45)? Quando, per di più, la propria “esistenza … si chiude … in unisono con gli animali che sono / la somiglianza / di quello che io / sono” (p.28)? Anche se De Palchi, in questo libro, non propone soluzioni titaniche (“Il senso di che si aspetta / o dell’inaspettato … / è inutile pretendere”, p.42, perché, come dice in questo finale stilisticamente ermetico: “ad ali stese pare spicchi / il volo ma staccarlo / è un passo annegato di sete”, p.46), le sole forse plausibili contro il nichilismo, non resta però nel chiuso vittimismo (“Perché allora rimpiangere quello che è / e non è stato”, p.43), non illusioni, non “menzogne”, e se anche, come dice nell’introduzione Alessandro Vettori, “la scaltrezza vince”, questa vittoria, alla fine fasulla, non è tuttavia la soluzione. La soluzione è, alla maniera dell’Imbonati manzoniano, “Desistere dai mezzi termini / la condanna / è di soggiogare e amare con le viscere / nutrire la vampa dell’odio / accerchiare il limite e spaziare / l’essere astratto che spinge / spinge dentro la muraglia di carne esplosioni / le intensità estranee / a cui partecipo per concepirmi / e dar loro una plausibile concretezza”.
Di fronte ad un mondo meschino, al “centrifugo tracciare la consuetudine” (p.20), alla “pecunaria esistenza” (p.23), all’incomunicabilità (p.53), ecc., con la sua (nostra) bastardaggine (riferimento a p.21), con la sua materialità (p.29), ecc., De Palchi, pur in quella desolazione che accompagna l’intero libro, non “soccombe” alla “polvere” (p.35) o alla “neve” (pp.36-37-38), ma “imbianca l’esistenza / con il lavoro / e con il soldo…”, aggredisce la contraddizione non per risolverla ma per restituirla poeticamente in versi pietrosi di notevole forza e pregnanza.

[3] Cfr. in questo quaderno.

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