Parola ai Poeti: Alfredo de Palchi

 

Qual è lo “stato di salute” della poesia in Italia? E quello dei poeti?

(Prima di rispondere spontaneamente senza arzigogolare desidero chiarire che le riflessioni o impressioni sono di un autore che vive lontano dall’Italia e che legge poesia dei sui autori con distacco e la riceve come la descrive, da semplice lettore).

In uno stato canceroso. Sessanta milioni di italiani sospetti di cancro pseudo poesia. Letta da lontano, troppa è miserabile, sentimentale, idiotamente cadaverica. Rispondo pure così: se non si muove non è poesia.
Gli autoeletti poeti la scrivono per confessare la propria vuotaggine e incapacità. Beninteso, è la massa numerica di incapaci, con l’inclusione di molte notorietà di scarsa qualità, che mi offre l’osservazione. Per fortuna,  anche nell’attuale epoca ricca di epigoni, ci sono ottimi poeti, rari, ma ci sono. Ma ti accorgerai che io parlo della massa in degrado.

Quando hai pubblicato il tuo primo libro e come hai capito che era il momento giusto? Come hai scelto con chi pubblicare? Cosa ti aspettavi? Cosa ti ha entusiasmato e cosa ti ha deluso?

Non pensavo a un momento giusto, è stato l’editore, nella persona di Vittorio Sereni, a scegliere di pubblicare il mio primo libro: Sessioni con l’analista (Mondadori, 1967). Primo libro a essere stampato, che in verità è secondo come stesura in quanto il primo scritto, La buia danza di scorpione (1947-1951), è stato secondo, bilingue (Xenos Books, 1993). Prima della pubblicazione ero preso da una eccitazione controllata e, dopo la stampa, dalla indifferenza. I pochi recensori non capirono quella mia poesia tematicamente e stilisticamente innovativa. Persino il titolo “Sessioni con l’analista” disturbava, era incomprensibile agli addetti ai lavori e a quei poetini dell’avanguardia sussurratori di psicologia ancora abituati al confessionale del prete. E così il libro è stato emarginato con l’autore. Più che una delusione è stata una esperienza malevola. Ammetto di non aver sofferto, quella fase mi ha fatto dire sin d’allora che io e la mia arte non abbiamo fretta. Infatti.

 

Se tu fossi un editore cosa manterresti e cosa cambieresti dell’editoria poetica italiana? Cosa si aspettano i poeti dagli editori?

Si aspettano troppo. Sembrano capire che gli editori devono investire denaro per pubblicare miserabili libri di versi che forse dieci persone amiche  comprano e leggono.
Le grosse e piccole editorie vorrebbero guadagnarci; se non rientrano almeno le spese la grossa editoria considera la perdita come un atto di prestigio; la piccola editoria, una totale perdita.
Ecco che ci sono autori che si lamentano quando il piccolo editore dice ti pubblico se paghi una edizione di tale quantità di copie, o acquisti un certo numero di copie. A me pare sia giusto che il piccolo editore si rifaccia delle spese. Bisogna differenziare i piccoli editori. Ci sono quelli che badano soprattutto alla quantità di autori, basti che ciascun autore paghi o compri; ci sono quelli seri che badano soprattutto alla qualità.
A questa normale discussione che tutti conosciamo, aggiungo che gli editori, grossi e piccoli, essendo famelici diventano orbi sordi e insensitivi alla poesia che quando c’è si sente ma sgarrano per profitto, per errore (perdonabile), per incompetenza, per consulenza degradata.
Io sono l’editore della picolissima non-profit editrice Chelsea Editions. Pubblico soltanto selezioni poetiche in versione con testo a fronte di autori moderni e contemporanei Italiani. Non chiedo soldi agli autori o ai traduttori, ciascun libro è sostenuto da Chelsea Editions. Questo mio lavoro di editore lo compio per amore della poesia, e per farla conoscere quanto posso in questo grande Paese di disinteressati. È un’altra storia.

 

La poesia di domani troverà sempre maggiore respiro nel web o starà in fondo all’ultimo scaffale delle grandi librerie dei centri commerciali? Qual è il maggior vantaggio di internet? E il peggior rischio?

La poesia “troverà sempre maggiore respiro” nell’internet. Dispiacerà però vedere i libri finire nei sottoscala delle librerie.
E l’evoluzione continua dell’internet sin dagli esordi, quando ancora i bibliotecari non comprendevano che l’internet avrebbe alleggerito e facilitato il loro lavoro di catalogazione.
Il vantaggio di una nazione come l’Italia è lo svantaggio che il suo popolo di sessanta milioni di “poetini” possono pubblicarsi ciascuno nel web personale e in una editoria web. Dalla quantità è possibile che ci scappi il talento, che indubbiamente prima o poi si farebbe sentire e notare––ma forse per questo poco si dovrà valutare il peggiore rischio che è già fin troppo esagerato: una pletora di poetini che si autolaureano “poeti” senza arrossire.
Mi permetto di fare una oservazione. In questo sito, dove appare questa  intervista, c’è una collana di e-books. Non critico nessun e-book perché fino adesso non sono riuscito ad aprirne uno, scaricarlo e leggerlo. Beninteso colpa mia. Ma mi sono chiesto il motivo di quella pletora di e-books, già circa un centinaio. Seriamente, che l’editor abbia l’idea di raccogliere tutto quello che ora si scrive in versi? Creare una speciale biblioteca “poetica” internet di e-books nei secoli? Se l’idea è soltanto una mia immaginazione, non vedo la necessità di illudere la vanità di  centinaia e migliaia di delusi – se questo è il caso, non ne vedo un altro peggiore – però  l’idea della biblioteca internet sarebbe importante anche per i futuri studiosi. Inoltre il vostro sito ha da aggiungere interviste, monografie, bibliografie, corrispondenza, etc.

Pensi che attorno alla poesia – e all’arte in genere – si possa costruire una comunità critica, una rete sempre più competente e attenta, in grado di giudicare di volta in volta il valore di un prodotto culturale? Quale dovrebbe essere il ruolo della critica e dei critici rispetto alla poesia ed alla comunità alla quale essa si rivolge?

Impossibile che “si possa costruire una comunità critica. . .”.  È già divisa in cricche, in quelle che si credono migliori, più serie, più costruttive, più innovative, più selettive, etc., di quelle altre che si credono altrettanto etc. etc.
Si presuppone che il critico che parla bene dell’opera di tizio sia innanzitutto migliore, e  più e più. . . di quello che non ne parla, e peggio se c’è un caio di mezzo. Sicuramente tutti i tizii d’Italia sono d’accordo su questo punto cruciale che io confermo: critici e poeti che scrivono saggi e recensioni sull’opera mia, quale tizio, sono extra migliori e più e più. . . dei poeti e critici che sbandano sull’opera di caio.
Si analizzi l’insieme della disunione. Le chiacchiere non uniranno mai la critica e meno ancora la poesia. Con l’ultima domanda  si vuole dare rispetto al vario antagonismo differenziale ed io non trovo per risposta che una brevissima frase: la comunità finge e se ne frega.

Il canone è un limite di cui bisognerebbe fare a meno o uno strumento indispensabile? Pensi che nell’attraversamento della tradizione debba prevalere il rispetto delle regole o il loro provocatorio scardinamento?

Personalmente non penso al canone, penso piuttosto ai cannoni per demolire del 98% la “poesia”  che segue pedissecuamente il canone. La chiamo cianfrusaglia, lacrimogena, di una astrazione senza un pensiero, non una immagine vitale, senza parole saltellanti sulla pagina. Ma dove vive questa gente, al cimitero? La verità è che non evoca esperienza vissuta, oppure non sa esprimere la propria verità o realtà. S’illude che scopiazzando il canone medievale petrarchesco, tuttora in auge presso i poveri creatori e critici sia un migliore Petrarca redivivo. Un giorno lontano accadrà che qualcuno, diciamo uno studioso, certosino di pidocchi, compilerà crestomazie voluminose di parolieri dei secoli 20mo e 21mo simile alle crestomazie dei rimatori. Nessuno  rimatore, ch’io sappia, è definito poeta. E nessun paroliere sarà considerato poeta.
Allo stesso tempo, grandi provocatori e rivoluzionari (francesi, cominciando da François Villon) scardinarono, per usare il tuo termine, la poesia europea eseguendo poesia in canone tradizionale e in rima. Negli Stati Uniti d’America si sa dello scardinamento tradizionale da due opposte personalità e ciascuna con opposta poeticità: poesia descrittiva l’uno, Whitman, poesia ermetica, antilettera, l’altra, Dickinson, e i poeti contemporanei in maggioranza sono epigoni di Whitman. L’Italia ha avuto alcuni grandi poeti moderni, satelliti della tradizione e di voci rivoluzionarie d’altrove. Il meraviglioso successo di Montale stesso, anche negli Stati Uniti, è dovuto dal suo stile abbastanza tradizionale trasformato in poeticità anglosassone. Non essendo un critico, qui lascio la parola agli studiosi. Dei contemporanei c’è da dire sulll’opera di quei rari che lo rifiutano con saggezza, cioè non per mostrarsi rivoluzionari, ma che lo sono da dentro––altrimenti, beh, niente, chiaramente è niente.

In un paese come il nostro che ruolo dovrebbe avere un Ministro della Cultura? Quali sono, a tuo avviso, i modi che andrebbero adottati per promuovere la buona Letteratura e, in particolare, la buona poesia?

Mi provochi, eppure non so cosa rispondere. Il Ministro della Cultura è un politico, un doppiogiochista, e da doppiogiochista accontenta tutti accontentando nessuno. Il poeta italiano vorrebbe che il Ministero della Cultura amministrasse somme per  mantenerlo mensilmente all’ozio. Fosse così facile scriverebbe peggio. Il contrario è il suo benemerito:  soffrire anche la fame per l’arte, e l’unico mezzo potente: la sofferenza fisica e psicologica, che possa estrarre arte dal suo corpo e dal suo spirito malnutriti e addolorati. Non si chieda assistenza al Ministro della Cultura. Diverrebbe ditattura letteraria peggio di quanto lo sia attualmente.
Il Ministro della Cultura dovrebbe interessarsi come rappresentare la cultura italiana all’estero. È rappresentata tuttora da somari provenienti dalla Farnesina (Ministero degli Esteri). Invece di scegliere un artista noto, che rappresenti la cultura italiana, gli inviati poveretti che avranno vinto certi esami arrivano presso gli Istituti Italiani di Cultura persino ignoranti del Paese, con l’aria del cafone borioso che si spaccia superiore. Un simile “diplomatico” della cultura è da prendere a pedate al culo, come ho fatto io qui a New York tanti anni fa, non fisicamente ma a parole. Si vedano gli Istituti di Cultura d’altre nazioni; persino nazioni del cosidetto terzo mondo mandano inviati di classe, artisti. L’artista è ambasciatore della cultura della sua nazione; le mansioni amministrative che le facciano le mezze maniche. L’Italia purtroppo manda in giro una boria di inviati che hanno superato certi esami. La buona poesia? Scherziamo?
A New York ci sono tre persone che fanno cultura italiana, non il Ministro della Cultura, non il Ministro degli Esteri, non l’Istituto Italiano di Cultura––tre persone, e nessuno ne parla in Italia. E uno dei tre, se vuole può eliminre di botto quel poco che si riesce presentare negli Stati Uniti sciovinisti. Vedi che ti ho dato la mia opinione?

Quali sono i fattori che più influiscono – positivamente e negativamente – sull’educazione poetica di una nazione? Dove credi che vi sia più bisogno di agire per una maggiore e migliore diffusione della cultura poetica? Chi dovrebbe farlo e come?

Sesseanta milioni di italiani: poetini criticini trafficoni e insegnanti (categoria professionale più seria benché numerosi della categoria riescano a soffocare la poesia in aula) hanno sessanta milioni di nozioni come “educare” la nazione alla poesia. Personalmente, uno tra i sessanta milioni, ho la mia nozione: che la poesia di ogni individuo nasca e viva e muoia senza metodica assistenza scolastica, politica e meritoria. Eliminare le cricche, che è impossibile, sarebbe la migliore diffusione. Ma suucede che a diffondere bene e male la cultura poetica ci pensano gli editori piccoli e grossi.

Il poeta è un cittadino o un apolide? Quali responsabilità ha verso il suo pubblico? Quali comportamenti potrebbero essere importanti?

Il poeta–poeta è un apolide. Io vivo all’estero ma amo l’Italia e malgrado ciò ho pochissimo rispetto per i suoi cittadini e per il suo governo, non importa quale. Non credo che il poeta debba avere responsabilità “verso il suo pubblico”. Il poeta–poeta crea e pubblica non pensando a un suo pubblico. Ma quale, i lettori sono rari, inclusi coloro che scrivono i quali desiderano che tutti però acquistino i loro libri. Se per fortuna si unisce intorno alla sua opera un pubblico non è fisicamente responsabile. Lo è la sua opera. Poi, per quanto riguardano i comportamenti, per il poeta d’Italia sono importanti i peggiori. Chi non si abbassa alle regole del mercanteggiare e del corrompere non c’è opzione. Ne parlo per conoscenza di intrallazzi offertimi invano da sessantanni.

Credi più nel valore dell’ispirazione o nella disciplina? Come aspetti che si accenda una scintilla e come la tieni accesa?

Ogni poeta segue il proprio metro che può essere seguito da tutti o da pochi. Siccome io credo nel “valore dell’ispirazione”  prima, e nella disciplina dopo, diffido della poesia costruita a freddo. Le rare volte che mi sono seduto davanti a un foglio di carta con una matita o la Mont Blank in mano non ho segnato una virgola dopo qualche ora di attesa e di pensare cosa scrivere. E allora? Chi scrive tanta “poesia”  durante una vita, scrive versi che sembrano sapere di vita ma una volta letti ci si accorge che della vita manca la fiammata. Quindi, la cosiddetta ispirazione per me viene da un pnsiero, da una immagine, da un caso che guizzando nella testa si accende di parole e si spinge  fuori per fermarsi sulla pagina. Questa, l’ispirazione, che ciascun autore che sta in attesa può spiegare in altro modo. E quando l’ispirazione è vera, vera è anche la poesia. Finita di essere dettata, l’artista la pone sotto disciplina senza fretta di mostrarla agli amici poeti.

Scrivi per comunicare un’emozione o un’idea? La poesia ha un messaggio, qualcosa da chiedere o qualcosa da dire?

NO. Per il mio proprio piacere e per chiedermi sorpreso, rileggendo miei passaggi poetici in saggi e recensioni, “li ho scritti io?”
Avrà un messaggio, ma non so quale; io non ce l’ho, forse i critici. . . ; inoltre la poesia in generale non chiede niente, e se ce n’è che chiede non è poesia; in quanto a qualcosa da dire, quel qualcosa lo dice ma non sta all’autore spiegarlo. Infatti, secondo la mia percezione, l’artista è cosciente di ciò che crea ma se si mette a spiegare la propria arte non è artista.

Cosa pensano della poesia le persone che ami?

Cosa ne pensano veramente non lo so; se mi capita di domandare le sento generose verso l’inutilità della poesia. A questo punto voglio essere chiaro: L’artista di ogni arte pratica la propria arte per colmare il vuoto man mano che estrae il concetto l’immagine e la parola. Se fa “arte”  pensando di soddisfare e sfruttare possibili potenti per ottenere possibile notorietà non è artista. Con questo non intendo dire che sono contro la notorietà o la gloria meritata.

Sei costretto a dividere il tempo che più volentieri dedicheresti alla poesia con un lavoro che con la poesia ha davvero poco a che fare? Trovi una contraddizione in chi ha la fortuna di scrivere per mestiere? Come vivi la tua condizione?

Guarda, non mi sono mai posto il problema delle tue domande. Mi dedico alla letteratura quando ne ho voglia, non per professione, leggo quando ne ho voglia, scrivo quando ne ho voglia, e pubblico quando mi si offre l’occasione di pubblicare, in quanto non mi sono mai umiliato di proporre il mio lavoro a un editore. Ripeto, non sto chino sulla pagina bianca giorno dopo giorno a rompermi le scatole. Quando l’arte arriva si fa sentire anche salendo come rigurgito, e mi detta quello che vuole esprimere. L’arte di editare comincia dopo e termina quando l’opera bene o male viene stampata.
La mia condizione la vivo con soddisfazione: mi alzo, mi faccio “bello”, se occorre vado alla posta, mi piace frequentare i supermercati, e camminare lentamente per strade dove ammirare o detestare recenti architetture; purtroppo, debolissimo di vista, non frequento più il cinema, il teatro, e l’opera wagneriana e pucciciana; la musica classica l’ascolto dalla mia collezione di CD durante il mio tempo al computer. Dunque, sebbene non ci sia da rispondere, non invidio chi si comporta  diversamente.

 Cosa speri per il tuo futuro? E per quello della poesia? Cosa manca e cosa serve alla poesia ed ai poeti oggi?

L’eternità;
l’eternità;
manca poesia, esperienza di vera vita, talento; di tanto in tanto mi capita di leggere poesia perfettamente imbalsamata perché gli autori sono perfetti imbalsamatori. Un esempio su cui riflettere è la raccolta di recente premiata dal premio indetto dalla rivista “Anterem” (organizzazione museale di mummie).  il vento, incluso nel titolo, e soggetto principale della tematica, non sbuffa non spiffera non fischia non travolge etc., tutto è fermo, non un filo d’aria attraversa le tre imbalsamature presentate nel sito penso come le migliori della raccolta, e lette il 12 gennaio, giorno in cui ho ricevuto la notizia e-mail. È una scrittura elegante di immagini, completamente precisa di versi, classica, e svitalizzata. Manca appunto il vento travolgente. Il mio punto di vista è che tali opere rappresentano epigoni di epigoni di epigoni. Infine consistono di sepolture.
Servirebbe accantonare per due-tre generazioni il petrarchismo rinventato e abbandonare i suoi epigoni  perché la poesia possa rinnovrsi. Chi ha buon orecchio nota e sente troppa smania di imitare il peggio, calcare su scritture casalinghe che si assomigliano o si copiano,  e sulla versificazione descrittiva in versione di autori americani.


Alfredo de Palchi nasce ogni mattina in provincia di Verona.
I suoi libri: Sessioni con l’analista (1967); Sessions with my analyst (bilingue,1970); The scorpion’s dark dance (bilingue, 1993); Anonymous Constellation  (bilingue,1997); Costellazione anonima (1998);  Addictive aversions (bilingue,1999); Paradigma (2001). La sua opera completa riprende il titolo di Paradigma: Tutte le poesie 1947–2005 (2006). Foemina tellus (2010).
La clessidra, n.1 2011, Semestrale di cultura letteraria, gli ha dedicato dieci saggi di vari autori a cura di Sandro Montalto.
Una vita scommessa in poesia /A Life Gambled in Poetry.
“Omaggio ad Alfredo de Palchi /Homage to Alfredo de Palchi” volume composto di saggi, note e testimonianze di vari autori a cura di Luigi Fontanella (2011).
Vive a Manhattan per ritornare in Italia ogni primavera.

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3 Comments

  • Gentile Roberto R. Corsi,

    grazie del suo intervento. Certo, sono d’acordo che i piccoli editori accettano quasi tutti, e sono d’accordo che si rifanno delle spese e ci guadagnano se il tale libro è acquistato da numerosi lettori. Lei offre un esempio di guadagni, però dubito che ci siano tanti lettori in fila per l’acquisto di libri di autori ignoti, quasi ignoti, poco noti, etc.. Soltanto se un autore ignoto etc., maschio e femmina, ha un centinaio di amicizie interessate può vantarsi del successo. La mia esperienza è più chiara: quasi ignoto e ignorato da centinaia di “nemici”, imbroglioni, falsari, poetini e criticini, le 45 copie vendute di PARADIGMA (2oo6), dopo un anno di distribuzione,le ho considerate una gloria. Temo che l’editore non sia d’accordo. . .

    Il sarcastico diminutivo “poetini”, menzionato anche qui, si riferisce a coloro di cui mi è capitato di leggere qualcosa che non potrà mai convincere nessuno. Lei, che non conosco, non è incluso neanche per scherzo. Chiederò a Fontanella di avvicinarmi al suo lavoro.

  • A parte la scivolata dove dice

    “Ecco che ci sono autori che si lamentano quando il piccolo editore dice ti pubblico se paghi una edizione di tale quantità di copie, o acquisti un certo numero di copie. A me pare sia giusto che il piccolo editore si rifaccia delle spese”.

    Ma poi si contraddice (dunque si riprende subito) quando aggiunge

    “Ci sono quelli che badano soprattutto alla quantità di autori, basti che ciascun autore paghi o compri; ci sono quelli seri che badano soprattutto alla qualità”.

    [E’ chiaro che, siccome è dimostrabile – l’ho fatto sul mio blog con un esempio – che l’editore a pagamento non solo si ripaga delle spese di stampa ma trae per ogni libro un extraprofitto che può ammontare anche al 128% dei costi; dunque un editore a pagamento sarà irresistibilmente portato verso la quantità, c’è poco da fare]

    Per il resto mi sembra un’intervista condivisibile, che denota carattere. Conosco e ammiro l’opera di De Palchi da tempo attraverso la collazione di Paradigma, consigliatomi da Luigi Fontanella.

    RRC (quasi sicuramente un “poetino”, ma cocciuto)

  • Caro Alfredo,
    ti rispondo in merito alla questione della “pletora di ebook” pubblicati su questo sito – assieme ad altre innumerevoli informazioni.
    Sì, l’idea è quella di mettere in piedi un archivio per i posteri. La pretesa non è quella di risultare strumento indispensabile per gli studiosi – il lavoro di archiviazione e filologico dovrebbe essere necessariamente più serio e più completo dell’attuale. ciò non toglie che in un futuro, quando i poeti contattati non risponderanno “scrivi il mio nome su google e prendi di lì l’informazione”, la cosa potrà essere così. Ma siccome ora la media dei feedback dei poeti è quella appena espressa, non possiamo avere pretese maggiori.
    Ci tengo anche a sottolineare che Poesia 2.0 non vuole in assoluto essere una casa editrice, ma solo una fonte di risorse ed informazioni il più ampia possibile per coloro che si interessano di poesia. Gli ebook servono solo a dare un “assaggio” delle poesie dei poeti presentati, con la speranza (o forse dovrei dire l’illusione) che questo spinga il lettore a comprare i libri. la scelta di pubblicare degli ebook piuttosto che una lista di poesie è estetica per due ragioni: la prima, non mi piace personalmente la presentazione di poesie nella pagina web che non è il foglio di carta; la seconda, proprio perché la pagina web non è il foglio di carta trovo formalmente ed esteticamente incorretto pubblicare poesie pensate per la carta sul web, distorcendo il rapporto che i loro versi instaurano con lo spazio bianco, il silenzio, le interruzioni. La pagina web va sempre oltre la cornice dello schermo; la pagina di carta possiede una soglia. Ma sono solo elucubrazioni personali.

    per il resto, rischiando di risultae retorico, dico che sono sommariamente d’accordo. “se non si muove non è poesia”: non posso che essere d’accordo, ma con una postilla: non tutti gli occhi sono atti a percepire gli stessi movimenti: anche Galilei dice la leggenda disse “eppur si muove”, ma a quanto pare nessuno gli dette credito. Dunque, pur non vedendo il movimento di molta della poesia che io stesso ho pubblicato in questo sito, l’ho pubblicata comunque: al mio giudizio antepongo il beneficio del dubbio. Ma questo solo perché ho la pretesa di compiere un servizio ad un pubblico potenziale. Ovvio che poi nella mia libreria ho solo quei libri che vedo “muoversi”!
    Grazie per la disponibilità e per i numerosi spunti di riflessione!
    Luigi B.

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