Poesia 2.0

La filosofia cerca “una” verità, mentre la poesia cerca “la” verità. — Roberto Carifi

Parola ai Poeti: Francesca Tuscano

 

Qual è lo “stato di salute” della poesia in Italia? E quello dei poeti?

La domanda è impegnativa, perché implica una conoscenza della poesia italiana contemporanea molto più ampia della mia – ogni anno si pubblicano moltissimi libri di poesia, ed è impossibile leggerli tutti. Quindi, la mia non può che essere una risposta parziale. Credo, tuttavia, di poter affermare che oggi (come, peraltro, nel passato) la poesia italiana abbia autrici e autori di notevole livello. Purtroppo, però (e qui sta la differenza con buona parte del passato), molti di loro non sono ‘visibili’, non sono veicolati dalle case editrici a più ampia diffusione, e quindi non possono essere ‘incisivi’ (le piccole case editrici, spesso assai più sensibili delle grandi, non hanno distribuzione). La politica editoriale ‘nazionale’ del passato supportava i buoni autori, e c’era più generosità all’interno del mondo letterario (anche se le ‘lobbie’ sono sempre esistite). Il punto, però, a me sembra un altro, e cioè che non sia  molto buono lo stato di salute dello scopo della poesia – ossia quello di restituirci la realtà (tanto interiore quanto politica) criticamente, attraverso un linguaggio ‘straniato’ che permette di vedere con nuovi occhi ciò che la quotidianità (anche la più terribile) rende ovvio e banale. Mi sembra che molti poeti contemporanei siano troppo presi dall’ ‘essere accettati’ come poeti (e, dunque, dal seguire le ‘mode’ che permettono di entrare nei vari ‘circoli’) che dalla motivazione della loro creazione. Ci vorrebbe più coraggio e convinzione nella ricerca del proprio linguaggio.
Spero, in ogni caso, che tutti i poeti godano di ottima salute. Temo, però, che un numero non piccolo di loro soffra del terribile morbo dell’egocentrismo – morbo antico, è vero, e da sempre diffuso tra gli artisti, ma che ultimamente sembra essersi aggravato, giungendo alla fase terminale dell’autoreferenzialità, dalla quale solo un miracolo può salvare (non esistono ancora farmaci per curarla).

 

Quando hai pubblicato il tuo primo libro e come hai capito che era il momento giusto? Come hai scelto con chi pubblicare? Cosa ti aspettavi? Cosa ti ha entusiasmato e cosa ti ha deluso?

Ho pubblicato il mio primo libro da autrice ‘singola’ nel 2007 (prima avevo pubblicato in due antologie, una curata da Grazia Furferi e una da Dante Maffia, e in un libro ‘a due’, con Damiano Frascarelli). Ho capito che era il momento giusto perché dalla strage quotidiana che faccio delle mie poesie era sopravvissuto un numero sufficiente di cose che, pur scritte in momenti diversi, avevano una storia comune. Poi, ho avuto la fortuna di conoscere Roberto Bertoldo, persona molto generosa (dote rarissima, ho poi capito, nel mondo letterario), e da lui sono stata incoraggiata a pubblicare nella collana di poesia edita da Hebenon-Mimesis.
Sinceramente, non mi aspettavo nulla. Le pochissime recensioni che ho avuto (solo da amici) mi hanno fatto molto piacere, anche perché hanno colto ciò che nel mio libro volevo dire. Ma proprio il fatto che non mi aspettassi nulla di più di questo ha fatto sì che non abbia vissuto né entusiasmi né delusioni. L’unica cosa che mi ha un po’ addolorata – ma è dolore comune – è che il libro sia circolato pochissimo. Si pubblica per essere letti, per comunicare, non per la vanità di dire – “ho pubblicato!”, cosa che non mi interessa, e che non dovrebbe interessare nessuno scrittore.


Se tu fossi un editore cosa manterresti e cosa cambieresti dell’editoria poetica italiana? Cosa si aspettano i poeti dagli editori?

Ho letto, nell’intervista che avete fatto a Roberto Bertoldo, che il suo ideale di casa editrice è la vecchia Einaudi, quella di Pavese, di Ginsburg, di Mila. Sì, anche per me quello è il modello ideale. Mi piacerebbe moltissimo avere le possibilità economiche per fondare una casa editrice e riproporre quel modello. L’editoria poetica italiana, in questo momento, è una ben strana cosa (o forse no, considerando le leggi del mercato) – da un parte ci sono le collane delle grandi case editrici (che non hanno niente più in comune con la vecchia Einaudi) che propongono solo autori del ‘circolo’ a cui appartiene il curatore (ci potranno essere eccezioni, ma molto poche); dall’altra parte ci sono le piccole case editrici, spesso, come ho già detto, molto più sensibili delle grandi, più interessate a scoprire nuovi autori e anche a creare un rapporto diretto con loro. Ma, lo ripeto, non hanno distribuzione, e di conseguenza i loro libri fanno un’enorme fatica a circolare. Dunque, ciò che dovrebbe innanzitutto cambiare, attualmente, è il sistema di distribuzione.
Poi, ci sono anche le piccole case editrici ‘furbe’, quelle che illudono, adulano e fanno spendere bei soldini solleticando l’umana vanità di molti (pagare per le copie dei propri libri è ormai prassi, per le piccole case editrici, altrimenti non sopravviverebbero – ma c’è modo e modo…).
Quindi, io direi che quello che i poeti non si aspettano, o non si dovrebbero aspettare dagli editori, è di essere trattati da ‘clienti’.

La poesia di domani troverà sempre maggiore respiro nel web o starà in fondo all’ultimo scaffale delle grandi librerie dei centri commerciali? Qual è il maggior vantaggio di internet? E il peggior rischio?

Il web è diventato un luogo abbastanza concreto, ormai. Quasi quanto gli scaffali delle librerie. Forse anche di più, soprattutto per chi è giovane. E la poesia, che è nata, come la musica, per vivere di aria (vocalmente emessa, anticamente cantata), sta bene in ogni luogo, purché sia viva. E, anche se con molte cautele, internet è spazio più vivo di una libreria (a parte qualche eccezione di libreria ‘viva’). Certo, il rischio di internet è quello di tutti i mezzi di comunicazione di massa, ossia la semplificazione, la confusione, il confronto falsato. Ma correre questo rischio potrebbe essere preferibile all’esilio in uno scaffale (se ci si riesce ad arrivare).

 

Pensi che attorno alla poesia – e all’arte in genere – si possa costruire una comunità critica, una rete sempre più competente e attenta, in grado di giudicare di volta in volta il valore di un prodotto culturale? Quale dovrebbe essere il ruolo della critica e dei critici rispetto alla poesia ed alla comunità alla quale essa si rivolge?

Sempre, attorno alla poesia, e a tutta l’arte, si dovrebbe costruire una comunità critica. L’ideale sarebbe che arte e critica nascessero insieme, l’una dall’altra – com’è successo, ad esempio, per il Formalismo russo e le Avanguardie russe. Molto giustamente, Majakovskij ha scritto “Il mio tentativo è un debole tentativo personale, ed io mi giovo dei lavori teorici dei miei compagni filologi. E’ indispensabile che i filologi dedichino la loro attività all’arte contemporanea e diano un contributo diretto al lavoro poetico da svolgere”. Questo dovrebbe essere il ruolo della critica rispetto all’arte e al ‘pubblico’.

 

Il canone è un limite di cui bisognerebbe fare a meno o uno strumento indispensabile? Pensi che nell’attraversamento della tradizione debba prevalere il rispetto delle regole o il loro provocatorio scardinamento?

Cito ancora Majakovskij: “Si chiama appunto poeta chi crea le regole poetiche”. I canoni sono importanti (non fosse altro che per distruggerli). Ogni scrittore, ogni poeta, ogni artista il proprio canone se lo crea. Anche l’arte apparentemente più libera segue delle regole. L’attraversamento della tradizione, quindi, ha senso in quanto consapevolezza dei canoni (il proprio e l’altrui), coscienti che il primo canone da superare, però, deve essere sempre il proprio, altrimenti non si riesce più a comunicare nulla.
Lo scardinamento delle regole, così come il loro rispetto, sono fasi ‘naturali’ della creazione, quando questa è un processo consapevole, ‘autocritico’.

 

In un paese come il nostro che ruolo dovrebbe avere un Ministro della Cultura? Quali sono, a tuo avviso, i modi che andrebbero adottati per promuovere la buona Letteratura e, in particolare, la buona poesia?

Da quando ho una coscienza politica (cioè da diversi decenni) sogno un mondo dove i ministeri non esistano. Quindi, spontaneamente, direi che il Ministro della Cultura non dovrebbe avere alcun ruolo. Ma poi mi sforzo di essere cinica, e perciò dico che il Ministero della Cultura dovrebbe finanziare chi la cultura la fa davvero, dimostrando concretamente la sua attività (come accade in altri paesi, soprattutto nell’Europa del nord e nella Mitteleuropa).
Per promuovere la buona letteratura e la buona poesia ci vorrebbe innanzitutto una buona scuola (cioè una scuola libera e creativa) e l’abolizione dei programmi televisivi dedicati ai libri (che servono a far pubblicità ai libri come prodotto di mercato) perché consolidano con efficacia la mentalità consumistica anche nel campo della lettura. E si dovrebbero creare spazi più ‘diffusi’ per la lettura ‘pubblica’ (librerie, scuole, ma anche piazze..)

 

Quali sono i fattori che più influiscono – positivamente e negativamente – sull’educazione poetica di una nazione? Dove credi che vi sia più bisogno di agire per una maggiore e migliore diffusione della cultura poetica? Chi dovrebbe farlo e come?

L’educazione poetica di una nazione dipende dal valore che quella nazione ha dato, storicamente, alla poesia e all’arte in generale (alla cultura). Il nostro paese, ad esempio, ha considerato da molto (troppo) tempo l’arte e la bellezza delle cose inutili e idiote. Il fascismo disprezzava gli intellettuali. I ‘nuovi italiani’ del boom economico hanno seguito entusiasticamente questa strada, poi rafforzatasi con gli anni Ottanta, fino ad arrivare al ‘berlusconismo’ – ma anche all’enfasi data all’efficienza dei tecnici (tecnocrati), per i quali, naturalmente, arte e bellezza sono un’inutile, improduttiva zavorra.
Esempi di nazioni che hanno scelto tutt’altra strada se ne possono fare, soprattutto a Nord e ad Est, in Europa. Cambiare una mentalità come quella che si è radicata in Italia non è semplice, ma è il primo passo per ridare dignità alla poesia (e, di conseguenza, per diffonderla positivamente). Cosa che devono fare i poeti, e gli intellettuali nel loro insieme, ridando, prima di tutto, dignità a loro stessi, non compromettendosi con il mercato e con la mentalità dell’ ‘Italietta’.


Il poeta è un cittadino o un apolide? Quali responsabilità ha verso il suo pubblico? Quali comportamenti potrebbero essere importanti?

Il poeta (come tutti) dovrebbe essere un cittadino apolide, cioè un individuo che possieda una coscienza civile, e che consideri il mondo come unica polis –  ciò, ai nostri tempi, lo può fare solo un a-polide.
Proprio per questo, però, il poeta ha enormi responsabilità di fronte al suo pubblico (se gli si permette di averlo…). C’è un poeta russo contemporaneo, Kirill Medvedev, che ha smesso di scrivere, pur essendo famoso, proprio per mettere a nudo la responsabilità del poeta. Se al poeta viene impedito di avere un ruolo politico (nel senso di cui sopra, cioè della partecipazione alla polis) non ha senso che scriva. Dunque, i comportamenti importanti per un poeta (per un artista) sono i comportamenti ‘politici’ – l’essere retti (non seri), l’essere liberi, l’essere coerenti tra scrittura e vita (sociale). In conclusione, come ha scritto Leo Ferré, non dimenticare che “l’ingombrante nella Morale, è che si tratta sempre della Morale degli Altri”.

 

Credi più nel valore dell’ispirazione o nella disciplina? Come aspetti che si accenda una scintilla e come la tieni accesa?

Ho cominciato a scrivere poesia da quando ho imparato a scrivere, e da subito ho sentito che la voglia, il bisogno di scrivere (l’ispirazione) non bastavano a dire quello che volevo. Erano solo la molla iniziale. La disciplina è importante, innanzitutto la disciplina che ti insegna la lettura, lo studio, e che ti porta a distruggere e non a collezionare; che ti addestra all’umiltà. L’originalità la si acquista solo nel continuo confronto con le scritture degli altri. La poesia è un’arte (nella contemporaneità che si è liberata dalle forme canoniche e dalla metrica) apparentemente facile. In fondo, si usa la parola, un codice che si acquisisce ‘spontaneamente’, da bambini. La musica, le arti figurative implicano lo studio di codici non ‘normali’. In realtà, la poesia non è affatto dissimile dalla musica, e neanche dalla pittura. Un suono non vale un altro, un colore non vale un altro. Una parola non vale un’altra. Un ritmo non vale un altro. Cose che si imparano, con disciplina.
La scintilla nasce casualmente; per tenerla accesa, l’ascolto.

 

Scrivi per comunicare un’emozione o un’idea? La poesia ha un messaggio, qualcosa da chiedere o qualcosa da dire?

Ho sempre scritto in conseguenza di una sensazione – un’immagine, un odore, un suono. Poi, all’interno di quella sensazione sentivo che c’era un’emozione e, poi, un’idea. Certo, la poesia ha sempre un messaggio, perché è comunicazione, ma, proprio come nella comunicazione ‘diretta’, il messaggio ‘si fa’ nel modo in cui lo si trasmette, e il messaggio della poesia, quindi, non sta prima della scrittura, ma dentro la sua scrittura. In questo, ancora una volta come nella comunicazione ‘diretta’, la poesia ha sempre, contemporaneamente, qualcosa da chiedere e qualcosa da dire – il suo messaggio, insomma.


Cosa pensano della poesia le persone che ami?

Per mia fortuna, le persone che amo (familiari e amici) amano la poesia come me, e, dunque, ne pensano un gran bene…

 

Sei costretto a dividere il tempo che più volentieri dedicheresti alla poesia con un lavoro che con la poesia ha davvero poco a che fare? Trovi una contraddizione in chi ha la fortuna di scrivere per mestiere? Come vivi la tua condizione?

Il mio precariato (ormai, credo, a vita), da una parte mi occupa molto tempo (se non si ha un lavoro stabile si deve lavorare di più), dall’altra, però, mi rende anche più libera mentalmente. Inoltre, i lavori che faccio (insegnamento, traduzione) hanno sempre a che fare con la letteratura e la poesia, e, dunque, vivo piuttosto bene la mia condizione. Non trovo una contraddizione nel poter vivere della propria scrittura, anzi. Ci sono paesi nei quali si possono vincere borse di studio proprio per poter vivere della propria scrittura senza doversi asservire al mercato. In un mondo ideale, cioè libero, gli artisti dovrebbero poter vivere tutti della loro arte. Così come dovrebbero sentirsi liberi di non farlo. Perché ci sono lavori – come l’insegnamento, o la traduzione – che fanno molto bene alla creatività.

 

Cosa speri per il tuo futuro? E per quello della poesia? Cosa manca e cosa serve alla poesia ed ai poeti oggi?

In futuro spero di continuare il mio lavoro, senza grandi cambiamenti rispetto al presente. Mi piacerebbe però avere (creare) qualche possibilità in più per far conoscere la poesia, la letteratura e l’arte nella quale credo (a partire da quella degli altri).
Per il futuro della poesia, spero esattamente ciò che spero in generale per la nostra società – che si liberi dalla schiavitù del mercato. Ci sono, è vero, molti poeti che non si sono asserviti, ma, come ho già detto, sono invisibili, e, quindi, ‘inutili’ in una società fondata sulla visibilità mediatica.
Quanto ai poeti di oggi (e, di conseguenza, alla loro poesia) – credo che a molti di loro manchi l’umiltà, e di conseguenza la libertà, creativa e di pensiero. Un poeta (come ogni artista) dovrebbe desiderare la diffusione della sua opera, non della sua persona. L’arrivismo e il narcisismo uccidono la libertà, l’originalità dell’espressione, sono il tarlo della creatività. Ciò che servirebbe è una maggiore generosità – ascoltare gli altri poeti, confrontarsi, capire la necessità della diversità. Concludo con Majakovskij – “Persino l’abito del poeta, la sua stessa conversazione domestica con la moglie devono essere diversi, debbono scaturire da tutta la sua produzione poetica”.


Francesca Tuscano è nata il 7 settembre 1964. Ha lavorato come burattinaia,  insegnante (di russo e di italiano), archivista e traduttrice. Ha scritto di storia della musica russa e italiana, di teatro russo del Novecento, di traduzione dal russo (in Italia), di rapporti tra cultura italiana e cultura russa, e di letteratura italiana contemporanea (in particolare, di Alvaro e Pasolini). Ha scritto i libretti delle opere – Incontro (tratta da Occhi sulla Graticola di Tiziano Scarpa, musica di Fausto Tuscano), La canzone del re (musica di Fausto Tuscano) e parole-morte (ispirata all’opera di Lovercraft, musica di Juan Garcia Rodriguez). Ha pubblicato la raccolta di poesie M.Y.T.O, scritta con Damiano Frascarelli (Edizioni EraNuova 2003), il pezzo per teatro Come si usano gli articoli in I diritti dei bambini, scritto con Daniela Margheriti (Rubbettino 2005) e La notte di Margot (Hebenon-Mimesis, 2007). Sue poesie sono state pubblicate in Terra e scrittura. Voci dalla cultura calabrese (Paideia 2003) e Oro in tavola. Conversazioni e ricette sull’olio, di Grazia Furferi (Paideia 2003). Ha tradotto e curato La fine del cinema? di Roman Jakobson (Book Time Milano 2009). 

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  1. Apprezzo, e naturalmente condivido, queste riflessioni sulla poesia, soprattutto i punti in cui si mettono a fuoco gli aspetti meno dichiarati del c.d. “mondo della poesia”, come il fatto,ad esempio, che “molti poeti contemporanei siano troppo presi dall’ ‘essere accettati’ come poeti (e, dunque, dal seguire le ‘mode’ che permettono di entrare nei vari ‘circoli’) che dalla motivazione della loro creazione. Ci vorrebbe più coraggio e convinzione nella ricerca del proprio linguaggio”. E, complementarmente, la denuncia del circolo chiuso instaurato dalle “collane delle grandi case editrici (che non hanno niente più in comune con la vecchia Einaudi) che propongono solo autori del ‘circolo’ a cui appartiene il curatore (ci potranno essere eccezioni, ma molto poche)”.
    Un piccolo dissenso invece riguarda il riferimento a un mondo ideale in cui l’arte non sarebbe più asservita al mercato e alle sue leggi. In attesa di questo (un vero miracolo, che nulla nella situazione attuale lascia presagire), l’artista deve fare i conti con il mercato, e misurarsi con esso. Del resto, qui il vecchio Baudelaire docet.

  2. Ringrazio Says per le sue parole. E concordo anche sul fatto che solo un miracolo(umano, spero…) potrà liberarci dalla schiavitù del mercato. Ma, nel frattempo, non rinuncio all’utopica speranza che ciò avvenga, e altrettanto utopicamente cerco di essere un’artista che non fa i conti con il mercato, anche se si misura con esso, suo malgrado (impossibile fare diversamente, nel nostro mondo), e con la sua ideologia. Questa utopia mi renderà sempre più ‘invisibile’?…non importa, sono in buona compagnia…e poi Baudelaire (uno dei miei Maestri, che mi ha accompagna nella ‘disciplina’ dell’arte da quando avevo diciotto anni) mi ha insegnato ad amare la libertà più di ogni altra cosa, a partire da quella dell’arte…

  3. Volevo chiarire a Roberto (di cui non conosco il cognome…) che non volevo prenderlo in giro chiamandolo Says…è che quel Roberto Says che appare sembra davvero un bel nome e cognome – antico, da romanzo…

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