Marco Vitale su ‘Aprile degli anni’ di Francesco Dalessandro

 

di Marco Vitale

Questo semplice e elaboratissimo canzoniere di Francesco Dalessandro, dove il disegno della passione si sposa con un’officina poetica fra le più avvertite, poggia su un reticolo che si organizza variamente su due diverse tradizioni di poesia: da un lato quella ispanica che dalla generazione del ’27 risale ai sonetti di Garcilaso, ma il passaggio non è senza tributo alle tinte smorzate di un Gustavo Adolfo Bécquer, poeta romantico fuori tempo e magniloquenza; dall’altro quella angloamericana, che dai versi di Edward Cummings può rimontare alla sperimentazione metafisica degli elisabettiani.

Francesco Dalessandro è traduttore di lunga e raffinata esperienza e insieme autore di una poesia di pensiero di ammirevole nitore formale. Entrambe le coordinate interferiscono nell’elaborazione di Aprile degli anni, libro di imitazioni, o meglio anche di imitazioni, nella accezione bertolucciana del termine.

Francesco Dalessandro si muove infatti tra La voce a te dovuta, il capolavoro di Pedro Salinas che precede gli anni dell’esilio, e le raccolte di Cummings come un esperto capomastro della Roma del Medioevo, che da un paesaggio di rovine e di silenzi sappia con occhio certo scegliere i marmi e i travertini che riutilizzerà in una nuova costruzione, magari avvalendosi di lacerti murari ancora validi, di capitelli, trabeazioni e persino di antichi fregi, perché nei lunghi secoli detti incautamente bui la memoria del mondo classico non si è mai spenta.

Accanto all’imitazione, alla versione d’autore che ammette persino il “miglioramento” (“Perché una traduzione non potrebbe far fiorire lo scritto che sollecita, rimasto talvolta in boccio? Senza tradirla più di quanto un rosaio trapiantato da un suolo a un altro non sia tradito dalle sue rose un po’ più belle?” scrive Yves Bonnefoy), accanto, in altri termini, alla libertà interpretativa e di restauro abbiamo, come Dalessandro stesso dichiara, l’appropriazione e il riutilizzo. Che può essere parziale e altrimenti semantizzato.

Non resta che addentrarci nello specifico, visto che è lo stesso Dalessandro a sollecitarci, indicandoci alcune chiavi d’accesso nella nota in calce alla raccolta.

Prendiamo ad esempio la poesia numero VII del canzoniere di Salinas, nella traduzione filologica di Emma Scoles e confrontiamola con il testo di Francesco Dalessandro, a livello di semplice parafrasi.

La prima cosa intanto che colpisce è la distanza dal settenario di partenza, mantenuto nella prima traduzione filologica e il verso lungo, diversamente articolato, dell’imitazione.

Poniamo uno accanto all’altro gli incipit:

“Maňana”. La palabra / iba suelta, vacante, / ingrávida, en el aire, / tan sin alma y sin cuerpo, / tan sin color ni beso, / que la dejé pasar / por mi lado, en mi hoy. / Pero de pronto tú / dijiste: “Yo, maňana…”

che fedelmente, perfino nella punteggiatura, nella versione einaudiana di Emma Scoles diviene: “Domani”. La parola / libera, vacante, senza peso, / si muove nell’aria, / così senz’anima e corpo, / senza colore né bacio, / che l’ho lasciata passare / al mio fianco, nel mio oggi. / Ma all’improvviso tu / hai detto: “Io, domani…”.

Il testo approntato da Francesco inizia invece così:

Domani è la parola. Libera senza peso / vaga nell’aria: è il tuo fiato, io lo respiro. / Quando dici “domani” si risvegliano / le promesse e vestite di niente, d’invisibile / niente, fuggono svelte dalle tue / mani…

La prima cosa che colpisce nella seconda versione è che la fedeltà iniziale diviene subito interpretazione per poi dileguare rapidamente, e fin dal terzo verso lo sviluppo diviene autonomo. Ma c’è di più: è lo svolgimento del tema ad essere capovolto. Nella poesia di Salinas la parola domani “vacante senza peso” assume d’improvviso una felice concretezza all’apparire dell’amata che si annuncia dicendo Io. “E tutto si è animato  / di carne e di bandiere.” continua il testo secondo un crescendo di colori e di suoni che viene a concludersi proprio con la parola Io.

Opposto è l’esito del disegno di Dalessandro, che su quell’Io non si sofferma, ma si lascia incantare dalla leggerezza volatile della parola domani, un parola nuvola che maltollera di essere costretta a un qui ed ora ed è affine alle promesse. E naturalmente alle speranza, su cui l’autore interroga ricorrendo a un’immagine di forte suggestione, “Ah perché poi pentita le vorresti / catturare e infilzare con gli spilli racchiudere / nella triste bacheca dell’attesa?”.

Così, se “incarnazione” deve essere, sarà solo in un “vibrare d’ali” ineffabile, come la parola stessa che aveva aperto e ora chiude il testo: domani.

Ecco questo semplice esempio può spiegare la natura di queste appropriazioni, di questi “furti”, secondo la nota definizione eliotiana che Dalessandro ricorda: “I poeti immaturi imitano, i poeti maturi rubano”. E in questo caso il furto sembra essere come di un tema musicale, che avrà uno sviluppo di scrittura autonomo e imprevedibile, qualcosa che può far pensare a un procedere strawinskiano neoclassico.

Ma a ben vedere non di furti letterari solamente si tratta, tutti denunciati per avvicinare allo spessore del testo, come altrettante chiavi di lettura. Furti sono anche di immagini, come a pagina 28 dove  troviamo questo incipit: “I tuoi piccoli favi di bionde / api offrivano miele alla mia / poesia. Al tuo seno di sogni / colmo la pioggia recitava il breve / poema del possesso”. E qui, possiamo anche ingannarci, il riferimento sembra alla Venere e amore con il favo di miele di Lucas Cranach il Vecchio, capolavoro della collezione permanente del Museo Borghese, seppure l’explicit vira improvviso in direzione di un’immagine che fa pensare alla Pop Art (“i blue-jeans inzuppati”), e che se da un lato raffredda la bruciante sensualità del finale, dall’altro stabilisce un contrasto cromatico forte all’interno dello stesso campo visivo.

Sono appena due esempi, diversi e solo per dare l’idea della complessità e della ricchezza di una raccolta che si presenta invece con una veste di apparente semplicità, nella sua misura sempre calibrata, nel lessico d’amore scelto e raffinato senza mai essere inutilmente prezioso, ugualmente distante da ermetismi, neo sperimentalismi come da colloquialità trasandate. La voce insomma, che non è affatto dovuta, di un poeta con un timbro che vale la pena di ascoltare.

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