Sebastiano Aglieco: ‘Dolore della casa” – Il ponte del sale, 2006

 

Dolore della casaSebastiano Aglieco

2006, 104 p.

Il Ponte del Sale (collana La Porta delle Lingue)

 

di Gianfranco Fabbri, in L’indice dei libri maggio 2007

L’uomo che si accinga ad attraversare uno dei dolori più grandi della propria esistenza – la morte della madre – è uomo predisposto alla costruzione di una cattedrale, che nel deserto apparirà, grazie a una curiosa metamorfosi, come un’acutissima vox clamantis. Infatti, il sito cui allude Sebastiano Aglieco nel suo ultimo libro è lo spazio elettivo nel quale l’uomo può soppesare l’enormità della sua distruzione dinastica. Si legge nelle pagine di questa raccolta di versi un senso di tragedia greca, il quale, secondo la dinamica della sottrazione, giunge a eliminare i colori in eccesso, rendendo perciò la location livellata su toni grigi e foschi, quasi che la città narrata debba essere la polis dei morti. La vivezza del pentagramma è molto spesso selvatica, antipoetica nello stile dimesso, seppure raffinato. L’autore non si preoccupa di mettere in vetrina perizie estetiche ma è tutto inteso alla rappresentazione del ricordo di ciò che è stato. La madre, mai nominata direttamente, sfonda la barriera dei sensi grazie ai quadri geografici di una Sicilia occulta, dolorosa come poteva esserlo per Verga, nonostante i paesaggi industriali degli stabilimenti chimici della costa sudorientale. Una Gea che, così dipinta, appare con maggiore evidenza nella propria, fisica natura. Essa viene investita dalle anime dei morti, le quali, interagendo con le intenzioni dei vivi, creano un pathos particolarmente efficace. Il poeta dice: “Dobbiamo sottrarre le linee / e giungere all’inizio; quando / il progetto era solo un’idea…”, a indicare il desiderio di una rigenerazione delle radici stesse. Piace, al di là di ogni conclusione, immaginare Aglieco nell’atto di uscire dalla casa materna (fatta di latte, carne e sangue) con addosso gli indumenti della serenità olimpica; quasi dovesse condividere il futuro con gli spettri antenati di una Pantalica senza tempo.

di Cristina Babino, in Stilos

Il Dolore della casa si sente stretti tra le pareti domestiche come in lontananza, a distanza di chilometri. Nell’ultima raccolta di poesie di Sebastiano Aglieco il racconto del lutto si svolge su un doppio binario, mai parallelo: il lutto per la perdita della madre e il lutto per la perdita della terra madre. Termini, la madre e la terra, di valenza reciproca e ancestrale, principi generativi strettamente complementari che vivono e prolificano nell’interiorità dell’uomo e del poeta, raccogliendosi in grumi dolenti e gravidi di senso. Nodi da scavare, penetrare, e da cui estrarre infine stille di forza e consapevolezza rinnovate, soprattutto attraverso un inesausto esercizio poetico: “Alla parola ho chiesto tutto / la strada del ritorno e / la formula per sedare il vento(…)”.

Il poeta vive e restituisce in versi, dunque, un duplice abbandono: quello dovuto alla morte della madre, assenza che però si fa nuova, rafforzata presenza non soltanto nel ricordo vivo e lancinante, ma nell’evidenza stessa dei segni lasciati nella dipartita (”La casa è aperta, ogni cosa sottratta / alla sua condanna: le tue medicine / i vestiti pregiati / i macchinari che sostengono il corpo”) – e quello dovuto alla lontananza dalla terra natia, una Sicilia reale e mitica (Aglieco è nato nel 1961 a Sortino e vive a Monza) guardata da lungi e sempre portata dentro come un marchio non solo d’origine, ma distintivo, di un’appartenenza sentita, vissuta e proclamata con orgoglio dolente e commosso: “la mia terra è il mare / e il mare ha sponde tenebrose / anfratti in cui si perde l’ora e il tempo non consola.” Un canto rivolto alle proprie radici che assume i contorni di una trascrizione biografica del classico tema dell’esilio, scelto e forzato al tempo stesso, di una partenza che non è solo percorrenza di distanze fisiche, ma cammino intrapreso come ricerca nell’esistenza e nella parola: “Nei flussi e nei riflussi della marea / il mare mi ha condotto dove la parola è cava / assenza di uomini, dolore ricucito nei confini” e ancora “Si deve partire con onore o / legarsi a una strada, un frutto.” La sezione che dà il nome all’opera è incentrata del resto sul paradigma dell’esule per eccellenza, quell’Ulisse mitologico, e qui rivissuto in prima persona, che dialoga idealmente con figure comprimarie d’eco altrettanto mitica: Calipso, Elena, Telemaco, sullo sfondo di un Olimpo che è simbolo di un Nume tutelare sempre presente, compagno di strada e benigno guardiano.

L’architettura dell’opera è non a caso scandita in sette capitoli: un numero fatidico e fatale, carico di una molteplice portata simbolica, qui legata a una religiosità fortemente sentita dal poeta, e in più tratti evocata con insistenza, tanto da far apparire l’intera raccolta come una struggente, sconfinata preghiera: “Padre che dagli inverni ci abbandoni / oscuro messaggero della mia carne / lasciami rovinare nel mondo / rotolare col respiro di tutte le cose (…)”. Un sentimento di fede profonda e commossa, che Aglieco trasfigura infine nell’immagine ricorrente di bambini, con la loro purezza d’animo, la loro urgenza di dedizione e di cura, ritratti come in un girotondo gioioso che accompagna la vita stessa del poeta, maestro in una scuola elementare, e quindi ogni giorno in contatto, se non in simbiosi, con i piccoli allievi la cui presenza è sollievo, sorgente di energia, inconsapevole e potente lenimento: “(…) Ti accoglieranno i bambini come / hanno fatto oggi: ‘Ben tornato, maestro (…)’ I bambini si mangiano la morte”.

 
 

Il nulla più grande

di Stefano Lecchini, in La gazzetta di Parma 22 novembre 2006

Come «Tema dell’addio» di Milo De Angelis, anche l’ultima raccolta di Sebastiano Aglieco («Dolore della casa», Il Ponte del Sale) nasce dall’esperienza-limite della scomparsa di una persona amata: «Più grande il tuo corpo/-tu, piccola, assente/madre bambina/tornata nel tuo ventre». La perdita, qui come sempre, porta al diapason la presenza-assenza di chi ci ha lasciati. L’enormità del corpo, corpo amoroso della madre che non c’è più, ne è una spia inequivocabile. Ma tutto è enorme: cioè, alla lettera, di là da ogni norma. E noi possiamo solo attendere, fermarci: giacché solo fermandoci potremo illuderci di fermare per sempre, accanto a noi, il ritorno della persona che ci ha detto addio. Eppure, non sempre dobbiamo aspettarci la «grazia» di questi ritorni: «Ho sognato/gli altri questa notte/ma tu non sei venuta/hai portato la tempesta stamattina/il grigiore del tempo come a volte fanno/i morti, per mettersi/in contatto con i vivi». Aglieco non ignora che il tempo feroce della perdita è il tempo del «silenzio abissale delle bocche». Ma non vi si arrende: e intuisce che l’unica via per arginare l’enormità della perdita è ricondurre il suo sconfinato dolore entro una misura e una proporzione. Soltanto nel piccolo – fra le mura circoscritte della nostra casa, nel «mondo piccolo delle piccole voci», nello «stare quieto e nella/misura» -, forse riusciremo a ritrovarla. Dovremo tornare rasoterra, all’altezza delle cose, come da bambini. Così, al culmine del lutto, ci sarà dato risalire al tempo largo e luminoso della festa: «E’ domenica, i fiori sono al balcone/in alto saliremo, ci baceremo sulle; bocche, in alto riconoscerò il tuo/viso, uno fra tanti, quietamente, lentamente». «Dolore della casa» segna la piena maturità di Aglieco. (Sortino, 1961)

 
 

di Maurizio CasagrandeDaemon

Le sette “stanze” in cui si articola l’architettura di Dolore della casa, le sette porzioni del libro che ricordano fin da tale scelta nella scansione delle parti l’iconografia dell’addolorata, sono attraversate da un’unica ossessione e, forse, vorrebbero porsi quale lenitivo e superamento di un trauma, quello – dolorosissimo per il poeta – di una duplice perdita: la casa appunto, quindi le radici e il radicamento a una terra, e la madre che costituisce senz’ombra di dubbio il fulcro dell’opera. Un libro sul dolore, quindi, che viene a confermare approfondendola in direzione etica la visione della vita e della poesia che distingue il poeta siciliano coerentemente con le raccolte precedenti, da Minime (Lalli 1985) a Giornata (La Vita Felice 2003). Ma con un’avvertenza che il lettore farà bene a non trascurare: la “casa” rappresenta metaforicamente anche la poesia, come il suo strumento d’espressione – la lingua e la parola, ma una parola “muta” o cannibale: “Mi mangiano le parole nelle bocche / di tutti” (pp. 29 e 30) – e pertanto il libro va letto sempre su due piani paralleli e distinti, quello esistenziale-biografico e quello metalinguistico nel quale non è meno doloroso il rapporto fra il poeta e la parola: “Alla parola ho chiesto tutto / la strada del ritorno e / la formula per sedare il vento; / ma c’è una frattura nel mare / il segno di una separazione / in cui, a volte, un dio c’intrattiene” (Alla parola ho chiesto tutto, p. 75). Una conferma diretta alla tesi appena esposta viene dalla rivisitazione compiuta da Aglieco sul mito di Orfeo ed Euridice, nella felicissima sezione Dialogo col noce come nella precedente Muore chi deve morire: “Aspetta e tutto ti sarà restituito: il veleno a fiotti, l’alba senza le / parole di una volta / […] / Aspetta e tutto ti sarà negato nelle parole. / Credi ancora in questo: credi alla morte / di Euridice, e per sempre” (Crocevia, II, p. 41). Coerentemente alla simbologia di Orfeo, ma senza alcuna deriva orfica, il poeta viene delineato nelle fattezze dello spossessato di se stesso ad opera di un dio e il suo compito è quello di custodire la parola, una parola però alla quale egli impone precisi requisiti etici: “Parole aperte alla chiarezza e respirate / finalmente segnate nella tregua di un confine!” (Bassa marea a Saint Aubin, p. 79). Proprio il serrato confronto con il mito costituisce, nel libro, uno dei guadagni più sicuri da parte di Aglieco. Si tratta, da una parte, dell’approfondimento del tema dell’esule e di quello della perdita sulla scorta dell’Odissea omerica, dall’altra della costruzione di una mitologia familiare e privata che trova i propri punti di forza nella terra e nel mare di Sicilia (ma anche nella luce) come in alcune figure cardinali del vissuto quali la madre, il padre o il nonno Vincenzo Cannata: “… ancora lì, bambino sospeso sulla balaustra, dove m’innalzavi al vuoto, alla luce dei tetti. Perdevo il respiro, e ancora quella luce, quel vuoto, non mi lasciano respirare” (Fondazione, p. 70). La lezione dei classici, dunque, ma coniugata alla maniera dei moderni, di Rilke e Rimbaud, citati non a caso negli eserghi di un paio di sezioni (e non solo: si veda la lirica di p. 43, Una sera ho preso la bellezza), ma anche di Pasolini, quello delle Ceneri di Gramsci e delle poesie alla madre: “Ecco la durezza: essere con te in una / forma della bellezza che redime / le parole, parole mai dette nel / timore. Questa la condanna / dei vivi: tradire i tuoi secondi” (Non ricordo, non mendico, p. 14). O, ancora, alla maniera dura e cruda di un altro grande friulano recentemente scomparso, l’Amedeo Giacomini di Libera nos a malo (Si veda Amedeo Giacomini, Antologia privata. Poesie in friulano 1977-1997, Mobydick, Faenza 1997, p. 27): “Dio che ci fai spezzare il pane / e bere il vino, ogni giorno lo / spezzi insieme a noi, ogni giorno / per tutto quello che non capiamo” (Dio che ci fai spezzare il pane, p. 16), dove la modalità stilistica della preghiera ricorrente anche in altri luoghi del libro attribuisce al medesimo quasi la funzione di una celebrazione liturgica, la liturgia del distacco e della perdita che è anche elaborazione di un lutto e suo superamento: “Casa segnata da un muro divelto / casa di risonanza sottratta alle parole dure / casa da custodire e riparare dalle insidie dei monti! / […] / Questo te lo concedo / questo te lo chiedo con voce forte: / esponimi al silenzio di tutte le stelle” (Casa che si chiama mente, p. 47). Da segnalare, inoltre, come il materiale del mito si sposi con naturalezza ad uno stile nervoso e secco sempre sul limitare del tragico, ma una tragedia che – come in Pasolini, Leopardi o Rimbaud, piuttosto che De Angelis – conosce punte altissime di lirismo, come di lucidità nella disperazione: “vieni, spalancami con le tue chiglie / riempimi di un vino amaro. / […] / Ma la mia terra è il mare / e il mare ha sponde tenebrose / anfratti in cui si perde l’ora / e il tempo non consola” (Esilio, p. 74). Altro nodo di fondo del volume è da riconoscere senz’altro nella tematica della morte: al cospetto del mistero della morte, sembra suggerire Aglieco, gli unici linguaggi dotati di senso sono quelli del silenzio o dei bambini, in una sorta di regresso all’infanzia che restituisce al poeta la madre perduta: “Più grande il tuo corpo / – tu piccola, assente / madre bambina / tornata nel tuo ventre” (Più grande il tuo corpo, p. 11). A fronte di tale scacco, però, il poeta non rinuncia alla parola: egli piuttosto la coniuga nell’unica maniera possibile, la stessa sperimentata a suo tempo da Marco Munaro – chiamato a misurarsi con le medesime urgenze – nella silloge Vaso blu con narcisi (I quaderni del circolo degli artisti, Faenza 2001), vero e proprio libro votivo. E l’itinerario in questa selva tutta interiore conduce ad un “risveglio” (Pietra miliare, III, p. 97) che deve qualcosa, forse, alla saggezza del Libro tibetano dei morti: “non sarai per sempre guardiano delle / parole, puoi solo ritagliare uno sguardo per / gli alberi nuovi, sospenderli nell’acqua / vessilli, da una distanza controllata. / Saranno ancora / le tue innocenti offerte ai vivi. // Ognuno è predetto, battezzato” (Ancora da una prospettiva, p. 87); e ancora: “Nessuno riderà di noi / saremo calmi e sereni / sottraendoci a uno scopo” (Verso l’Isola, II, p. 89).

 
 

di Stefano Guglielmin – L’Attenzione, novembre 2006, poi in Poesia e finitezza, La vita felice 2010.

Ci sono autori, e Aglieco è fra questi, la cui opera fonda il proprio centro poematico sin dapprincipio, mettendo sempre più a fuoco – di libro in libro – le ossessioni che la abitano: il sogno di un abbraccio fraterno delle genti, la Storia quale luogo dell’inautenticità, la lontananza dall’origine, il senso d’inadeguatezza personale, e, prima fra tutte, gli affetti familiari, che, con la casa e il paesaggio, costituiscono il nucleo di un presepe che ha nella madre (e, come vedremo, nel padre) il suo fulcro. ‹‹Mater nostra, mater / dolorosa›› recita la seconda poesia del Dolore, invitandoci idealmente a fondere biografia e mito nell’incontro della ‹‹madre bambina / tornata nel suo ventre›› con la grandezza pietosa della Vergine, entrambi portatrici di una salvezza o di una condanna che non rinnega la radice contadina, dal sapore pagano, di Aglieco: ‹‹La mamma ha portato l’acqua, un dono / per le campagne››, e altrove, invece: ‹‹Hai portato la tempesta stamattina / il grigiore del tempo come a volte fanno / i morti, per mettersi in contatto con i vivi››.

Sotto questo profilo, il sacro s’avvia dai bisogni materiali degli uomini – ‹‹razza atroce›› scrive altrove – per poi risplendere nella comunione dei vivi con i morti, di quei ‹‹Dormienti›› che ‹‹in un tempo più buono della resa / … chiederanno un nome / un bacio››. Lo spostamento d’accento è chiaro, tale che l’uomo, in quanto essere storico e malvagio viene dal poeta assolto nel suo essere mortale e dialogico, aperto all’interrogare perpetuo e stupito della propria caducità, passeggero in una terra rischiosa, gelida, riscaldata soltanto dagli affetti e da quella ‹‹casa›› nella quale trovare orientamento e protezione: casa ‹‹custodiscimi dunque / nascondimi … / […] / esponimi al silenzio di tutte le stelle››.

Casa è anche la ‹‹mente››, lo spazio aperto al bene della razionalità ‹‹in cui arginare lo spavento››, anche in grazia di una scrittura che si vorrebbe capace di testimonianza e di comunicabilità senza residui, di contro ad uno stile sempre vissuto da Aglieco come artificio perché, afferma, ‹‹il male è nelle parole che / vogliono dire il mondo e lo confondono››. Lo stesso tema lo troviamo anche in Giornata, suo libro precedente, correlato al mito di Orfeo, che qui, ancora più esplicitamente, diventa l’amato-odiato antagonista, ‹‹luce scomposta nelle vene / maglio dolcissimo nel cuore, per violenza››, al quale chiedere perdono ‹‹per la resa”. All’Orfeo-Padre, che deve convincersi della ‹‹morte / di Euridice››, il figlio toglie il canto, scegliendosi poeta in sua vece per poi macerare, di contrappasso, un senso di colpa che traspare vivissimo nella sezione Muore chi deve morire, dove tanto il desiderio di espiazione e di stacco dal ceppo originario, quanto il rancore filiale e la lucida visione sono spine posate a freddo sul metro affinché Orfeo stesso comprenda il messaggio senza equivoci. Proprio in questa necessità di chiarezza sta anche l’identificazione fra Orfeo e scrittura, cui Aglieco, come detto, vorrebbe sottrarre il dominio, la scelta dei modi, dei tempi, quella scelta che, per tradizione, aspetta ai padri, ai capi clan: ‹‹Ora finalmente ti devo lasciare / devo imparare a dire / da questo distacco della / terra – il sole è giallo››. Sembra un lucido addio del figliol prodigo ed invece, senza volerlo, ecco che, nella simbologia del sole, il padre torna sovrano, come se l’autore, inconsciamente, non volesse assassinarlo alla maniera dell’orda tribale (cfr. Freud in Totem e Tabù), bensì convincere se stesso ad accettarne l’autorità, il suo splendore (il giallo oro del sole), la sua inevitabile capacità di additare la via. Da quanto detto finora, appare evidente che Dolore della casa si costruisce sul doppio binario madre / padre, la cui complessità estrema si compie nella sezione omonima, nella quale l’alter-ego del poeta diventa Ulisse, padre mai dimenticato (‹‹Tu, Telemaco, nei miei / sonni, sei ancora in questo bambino che / risale il mare, cercando le orme di un padre››), un Ulisse preda del mare, mito materno dalle ‹‹sponde tenebrose››, dagli ‹‹anfratti in cui si perde l’ora / e il tempo non consola››. Come se non bastasse, questo mare che governa Ulisse, questo mare-madre che ‹‹lo ha condotto dove la parola è cava››, è a propria volta governato da un ‹‹dio›› maschio, che ‹‹intrattiene›› anche parola ed eroe, padre supremo che ‹‹non conosce i passaggi della mente››, la casa-rifugio che la mente è, e non fa esperienza dell’invecchiare, dei paesaggi in rovina, delle ‹‹fratture della terra››. Un dio dunque che non può aiutare i mortali, ‹‹profughi›› e fratelli, condannati a spartirsi, con dolore e violenza, la terra, costretti, dalla loro stessa natura, a non estinguere la penuria. Si tratta di uno stato esistenziale immedicabile, che tuttavia, come ha scritto recentemente il poeta, non bisogna ‹‹averne spavento ma accettarlo come una presenza familiare, serenamente››, così ‹‹da fondare un’arte che sia contemporanea e presente, senza nostalgia di quel che è stato e che ci ha reso felici. Senza “a rebour”, ideologie, infanzia; un’arte che non ci consoli, … che sappia trattenere la disperazione di tutti››.

 
 

di Giancarlo Fabbri, in Fuoricasa novembre 2006

Il nuovo libro di Sebastiano Aglieco pone all’attenzione la matrice meridionale della nostra scrittura poetica –sempre così icastica, quando parla dei temi interni al proprio ambiente-. Questo “Dolore della casa”, appunto, entra in quello che potrebbe essere il ganglio di più forte connotazione mediterranea, ossia il trattare dolore e morte come parti di un dramma greco. La carnalità con cui l’autore affronta la perdita della madre (intesa come simbolo traslato della famiglia e della Storia) è una carnalità assoluta.. La raccolta inizia allitterando atmosfere livide, come per avvertire della presenza di un declino stagionale (non solo fisiologico) che condurrà, in un secondo tempo, alla conclusione di un intero ciclo-romanzo. Uno dei passi più incisivi di questa parte iniziale del libro si trova a pagina 15, là dove Sebastiano afferma : “… // hai portato la tempesta stamattina // il grigiore del tempo come a volte fanno // i morti, per mettersi in contatto con i vivi // …” e dove si annunciano le note della pagina successiva, tutte dedicate all’amore per l’Ente Superiore: “Dio che ci fai spezzare il pane // e bere il vino, ogni giorno lo // spezzi insieme a noi …//” nelle quali il Dio, più che isolato e assoluto nel proprio Sé, risulta essere il compagno di strada dei poveri mortali. In parallelo, la figura della madre appare come Gea, ampia e convergente in un altro senso di amore divino. Ella è pure il contenitore naturale di tutta una società in dissolvenza. In un siffatto, doppio registro, costituito dall’elemento minimale-contingente e da quello universale, riesce di molto effetto il frammento espunto dal testo di pagina 17, che intona così: “Gli angeli, dice la predica // ti accoglieranno a flotte come bambini // ti toccheranno le mani, ti condurranno // intorno a vedere come tutto è trasformato // …”. La tensione interna ai testi obbliga il lettore a tornare indietro per rileggere le poesie, delle quali non è forse riuscito a cogliere tutto in prima battuta. Una tale, possibile difficoltà dipende dalla polivalenza del soggetto; rimane, infatti, sul palato un non so che di poco risolto. Probabilmente sfugge la consistenza dello stesso soggetto; forse, la casa e la madre non subito si apparentano e fanno sì che la reticenza porti fuori strada. Una simile caratteristica potrebbe essere, assieme all’ambiguità letteraria, la cifra di maggior rilievo di questo nuovo lavoro di Aglieco. Ma il termine della prima sezione ( “Fermarti”) vede trionfare un pezzo splendido, oscillante fra la tragedia del pre e del post lutto, e indirizzato verso la condizione intollerabile, di cui soltanto i bambini sanno far buona gestione: “Il mastice sutura la tua bocca // in questo silenzio abissale delle bocche // ma io rimango un po’ distante // nessuno osa toccarti la faccia // … // I bambini si mangiano la morte. //.

Con la seconda parte (“Forma”) ci si avvicina ad una condizione psichica, propria del dialogo e della riconciliazione con l’istinto, di cui si registrano parecchie riflessioni che si insinuano in nuovi splendori / nelle nuove concezioni vitali. E’ come se assistessimo a un salto antropologico della razza umana. “Ora salata, conservata come un abito per gli anni futuri, dimessa // …” . Gli slittamenti sintattici conducono ad un allargamento del campo espressivo; la mutazione morfologica del defunto è al massimo della propria esposizione all’evidenza. ( “E’ la forma dei tuoi occhi // nuovi, nuove parole custodite. // Ne ho bisogno, è necessario pulire le cose, mettere fiori al tuo balcone …” ).

Altri frammenti notevoli si possono gustare in questa parte del libro: a pagina 34 vi sono i seguenti versi : “Siate sereni e docili alla morte, // tutto questo è per gli umiliati che non sanno // di un confine : essere nell’assenza dei bambini // come in una consolazione, // …”; a pagina 35, invece, fa da péndant l’ottimo complementare passo: “Ma era per te questo addio, la festa // della sera; era per la madre terra // che reclamava la tua ombra. // Ti ho veduta ancora. Attendevi // …” . In entrambe le campionature svetta il senso della sottrazione –elemento di forte riconoscibilità in tutta la poesia di Aglieco-.La terza sezione (“Muore chi deve morire”) è forse un raccordo essenziale, ma non altrettanto rimarchevole, delle due parti confinanti. Da qui si giunge a “Dialogo col noce”, la “zona” in cui l’autore adotta, sin dalla pagina 47, una felice forma di preghiera che poi si protrae in avanti, nei testi. In questo canto, il poeta chiede all’Ente Superiore di custodirlo/nasconderlo/esporlo al silenzio/disperderlo, insieme agli oggetti dell’esistenza. Da qui in avanti, le allitterazioni si faranno più fitte (a pagina 48 è insistente la reiterazione della “T”), e forniranno al ritmo un velo vagamente onomatopeico del concetto. Il verso è ora più impuro e ricco di meteoriti sillabiche che sembrano viaggiare ad alta velocità nel pentagramma, talvolta aspro, del dettato. Fa spicco, a pagina 51, la frase “Tu, condannato a questa razza atroce”, in cui la presa di coscienza espurga dal pensiero con un esito da straordinaria maledizione. L’urgenza del dire supera quella dell’inutile sorveglianza stilistica in surplus: Sebastiano prende sempre di più le distanze dalla pagina imbellettata e giunge così ad una possibilità di antipoesia. Di conseguenza, il registro riflessivo, qui, più che doloroso, appare pessimistico.“Purgatorio” è dotato di un “cappello” di P. Levi, questo che segue : “Sfilarono, cantando // davanti al nostro campo // diretto alla stazione // partivano per la patria // per la casa …” ; un frammento che vorrebbe fornirci una chiave interpretativa sull’ “oltre”. Nelle pagine che scorrono all’occhio del lettore viene colta l’oscurità di un discorso che spesso pare “negarsi” per realizzare una soddisfacente reticenza. Una tale scelta di procedimento lavorativo autorizza forse a interpretazioni opzionali. Proliferano, a pag. 57, un “Tu” e un “Io” di difficile sistemazione. Si parla sempre di terra siciliana (quella, in particolare, delle zone industriali del sud-est, dove le immagini sanno di gas e dove i profili geografici paiono avere per signore un Dio di trascurabile profilo). Fittissima è la teoria delle allitterazioni; le particelle fonico-sillabiche si rincorrono senza più freni. A pagina 58 il gioco verbale sfrutta i significanti per confondere il significato vero delle parole. La politica che qui emerge sembrerebbe quella del rimescolamento delle carte, favorendo in tal modo le già accennate reticenze e ambiguità. (“Mettersi gli occhiali, guardarsi bene // per non sprecare le parole. // Ma il male è nelle parole che // vogliono dire il mondo e lo confondono // nelle parole che colmano una voce // sottratta per forza alla sua calma …”.

Nella sezione successiva, quella che dà il titolo a tutto il libro, Aglieco pare aver esaurito la spinta del “discorso-empito”, che in precedenza aveva invece preferito utilizzare. Ora prova a “cementare” i mattoni della casa. Esaurito l’afflato dinamico, egli inizia a guardarsi vivere da spettatore. Il dolore visto in passività. Forse emblematico riesce il seguente frammento: “Poi si arriva a una luce dove // il mare sembra finire e invece // è solo un riflesso, nell’ombra. // Un ricordo ci spinge verso l’altro … //”.

Nell’attraversare la parte del “Dominio dell’acqua”, il poeta sintetizza una congruo scialo di condizioni ormai cristallizzate. Il viaggio sembrerebbe volgere alla fine (“Ognuno è predetto, battezzato // verrai da questa fessura della // mano sul porto. // I cani ti annusano, salutano//” (pagina 87) ; “Vedremo questo negli occhi // un limite; // … // Nessuno riderà di noi // saremo calmi e sereni …// (pagina 88) ; “Dobbiamo sottrarre le linee // e giungere all’inizio; quando // il progetto era solo un’idea …// “ (pagina 89) ). Il progetto casa/storia/umanità è dichiarato ed è finalmente ricongiunto alla parola “mamma”, in precedenza pochissimo evocata. Qui Aglieco pare dotarsi di un efficace risveglio; adesso viaggia sul treno del ritorno, là dove trova la forza di liquidare tutta una partita contabile in sospeso, la quale accoglie, tra le voci da evadere, l’istituzione madre-focolare-nascita-luogo natale, per saldarla in modo irreversibile alla realtà inarrestabile. Il valico è superato: la vita riprende il percorso verso le nuove locazioni. Piace, comunque, al di là di ogni non/lieto fine, immaginare il poeta nell’atto di uscire, assieme ai suoi morti, dalle grotte arcaiche di Pantalica per la purificazione del lutto e della memoria della propria tribù.

 
 

Alessandra Giappi, una recensione inedita

Sebastiano Aglieco, premio Montale 2004, si conferma voce sicura nel panorama dei giovani autori italiani con la sua ultima raccolta, Dolore della casa: un canto domestico e universale, quotidiano e profetico: che sono i molteplici volti della poesia. Poesia, la sua, mai descrittiva, eppure precisa; poesia purgatoriale, se il Purgatorio è il regno del passaggio, della purificazione e dell’attesa. Del ripensamento, dell’alleggerimento, della compresenza di sofferenza e di beatitudine. Questa di Aglieco è poesia della soglia e della luce. Il dolore della casa in questione è biograficamente riconducibile alla morte della madre, che quella casa sosteneva e riempiva, pronta ad accogliere. Perennemente il figlio è intento a custodire quella presenza, a tradurla in parole, ora che lei abita un’altra stanza. La scrittura è un’opera da compiere, capace, al pari della bellezza, di salvare chi la persegue. Le parole non salvano dal dolore: eppure sanno dare forma, rifondare l’universo. Tutte le cose risultano allora rinnovate, arieggiate, così esposte all’aperto. La madre rivive nel figlio: ora è lei ad assomigliargli. Dare forma diventa per il figlio rito e mezzo per scongiurare il non essere, una consacrazione estrema.

Ma più ampiamente, questo è il dolore di tutti noi che abitiamo la casa-mondo. Lo sguardo e la parola sono i sensi dominanti in questo libro. E se dietro le porte si accalcano mostri dormienti, le parole, e il riso, soprattutto infantili, scongiurano il pericolo, sciolgono la minaccia in gioco. Trapela dalla scrittura di Aglieco una fede nella forza delle cose, nella giustezza del destino oltre che della sua inevitabilità: “lasciami rovinare nel mondo / rotolare col respiro di tutte le cose” e “donami un orizzonte minimo in cui / restare, con la forza di tutte le cose” (Muore chi deve

morire). La citazione mitologica – Orfeo, Nessuno, Euridice, Calipso – conferma le modalità di riuso non convinto del mito nella poesia contemporanea. Gli dèi non sono in grado di spezzare la catena della necessità e il poeta appartiene alla razza di chi è condannato a “sentire il mondo come un fiume in pena / rovinato dalla necessità” (Cerimonia). Più importante risulta la dimensione psicologica, capace di vincere la concretezza, di ammansirla. Montalianamente Aglieco non smette “di cercare “una piccola / imperfezione, la sentenza sospesa in un / punto della Storia”: un varco che offra una prospettiva intelligibile, una possibilità di riscatto, di ricominciamento. In chiusura sul dolore prevale una consolante fiducia: “Qui siamo al sicuro / il vento di ponente non passerà” (Piccola tregua).

Questa poesia acquatica è un’ offerta votiva, una preghiera a un dio silenzioso. L’invocazione di protezione è rivolta alla casa-mente, affinché ricomponga, custodisca. Attraverso una parola misurata e rivelatrice di senso anche la realtà più dolorosa può essere accettata e compresa: “Alla parola ho chiesto tutto / la strada del ritorno e / la formula per sedare il vento”.

 
 

di Filippo Ravizza, in La mosca di Milano n. 15

Dolore della casa il nuovo libro di Sebastiano Aglieco nasce nella doppia dimensione di una radicalità fondante: la ricostruzione che aleggia in queste pagine, in tutto un percorso condotto attraverso sette paragrafi non propedeutici uno all’altro, ma perfettamente progressivi e circolari ad un tempo, scarnifica il discorso, giunge a segnare e collegare la perdita della madre e della casa/terra natia da un lato ( la perdita della vita con la madre e nella casa natia) alla perdita della lingua e della inautenticità del vivere (attraverso il ritorno alla lingua perduta) dall’altro. Il dolore della perdita compie lo sforzo quasi insopportabile di porre il poeta di fronte alla rivelazione di una verità radicale: il rapporto tra la madre e la lingua che interpreta il mondo e lo comprende nella sua inesausta ripetitività. La madre e la lingua madre, la lingua della madre, per l’appunto, quella alla cui ombra ciascuno di noi costruisce con fatica la sua individuazione come essere nel mondo. Per un poeta come Aglieco, un autore in cui ogni parola mi è sempre parsa uscire con fatica, con la giusta fatica, da uno strato di sovrapposti silenzi, pronta a riassumerli potenziandoli e intensificandone la funzione, questo libro costituisce certamente un forte punto di tensione. Una poesia, all’interno della sezione “Fermarti”, costituisce un primo passaggio:  Irrompe un filo conduttore che circolerà per tutto il libro, il sogno di una comunicazione, il sogno di Orfeo inventore della scaturigine del canto potente del poeta capace di collegare il visibile e l’invisibile, muovere le pietre. Il sogno anche di Odisseo, di Enea, di Paolo di Tarso, il desiderio di una comunicazione diretta con il mondo dei morti con il mistero grande della morte, con la possibilità che essa possa essere vissuta possa esistere. Frequentemente sono chiamati e resi protagonisti i bambini, gli unici che vivono l’entusiasta ingenuità di chi pare presentire ancora quello “stare nella luce” del prima, perché i bambini chiedono allora la speranza generosa, la pazzia santa dello “stare nella luce” nell’infinito cammino del grande mai più, sapendo che tutto ciò che da questo terreno è fuori è niente. Come dice la bellissima poesia di pagina 24.

di Marco Molinari, una recensione inedita

La morte di una persona cara è sempre stato un impulso potente per la scrittura poetica. Gli esempi sono numerosissimi e pertanto mi sento esonerato dal farne. In quei momenti il dolore tocca il punto del non ritorno, l’estremo limite della forza. Tutto il corpo ne è scosso, l’anima e lo spirito risalgono in superficie come pesci a cui manca l’ossigeno nell’acqua. Morte, anima del morente, anima dolorante si pongono sul palcoscenico della vita come “dramatis personae”. Anche Sebastiano Aglieco, poeta dei delicati chiaroscuri, come non potrebbe non essere per un siciliano innestato nelle brume della Brianza, anche per questo poeta è giunta purtroppo questa chiamata. La sua risposta è un libro di liriche dense e asciutte, dal titolo Dolore della casa edito da Il Ponte del Sale di Rovigo. C’è, immediatamente, nell’esergo il percorso che imboccherà l’opera. Da Rilke, risuonano tre domande che gettano le basi di una ricerca: Dov’è la sua morte? Troverai un motivo nel canto? Dove si colloca in te la morte? Partendo da questi interrogativi, Sebastiano avvia un confronto sulla carta, all’interno della poesia, tutto basato sul pacato ragionamento e sull’illuminazione filosofica. Chiamando a raccolta i numi tutelari, in cui crede fermamente, il poeta riesce ad instaurare un colloquio col dolore e a rivoltarlo in luce e speranza, a beneficio di tutti. Non c’è disperazione, né grido, né strazio, ma dialogo: la morte è apparentata alla scrittura, e in questa si compirà. Le parole che scorrono nelle pagine accompagnano le stazioni dell’addio, ne divengono la forma estrema, poesia e morte sono allora accomunate da una stessa tensione morale. La morte non è quindi l’evento irreparabile, ma semplice e infinita trasformazione, il dialogo con chi ci ha lasciato non si interrompe, ma assume nuove forme, nuovi canali entro i quali perpetuarsi. E il rapporto, ora che i corpi si sono liberati, perde improvvisamente tutto il non detto che si è incrostato negli anni, diviene leggero, fatto di presagi e apparizioni. Alcuni versi incoronano mirabilmente il mistero: “…Un tempo ti assomigliavo, ed era/la prova che sognavo./Ora mi assomigli/sogni, forse, o rivivi.”. Un altro punto che il poeta annota con quieta e condivisa accettazione, è che, dopo la morte, il legame con la persona amata per certi versi si allenta, perde il suo carattere di esclusività famigliare, per divenire pubblico, comune a tutta la società dei viventi. Percorso particolare questo di Sebastiano, in controtendenza rispetto ad uno stringersi esclusivo del nodo degli affetti e delle confidenze, in un linguaggio cifrato che accomunerà chi è partito con chi è rimasto. Per Sebastiano, invece, questo momento è quello della condivisione, dell’aprirsi agli altri, per sentire il dolore di tutti, ma per comunicare anche la forza che si forgia in una prova così impegnativa: “…Non eri più solo mia, ma di tutti/tutti ero io, e li riassumevo/con l’idea di un mondo in te/l’origine di tutti, nella terra.”; “…per la prima volta/ti accoglieranno i bambini come/hanno fatto oggi…”. Ecco, questa forza arriva a Sebastiano anche dai bambini, quei piccoli amici che lo accompagnano nel suo pellegrinaggio alla “casa del dolore”, la casa che non udrà più la voce di sua madre risuonare per le stanze, la casa che ha salutato qualche anno prima per seguire il suo destino di uomo in altre stanze, in un’altra terra. Ma i bambini lo attendono, gli corrono incontro al ritorno, lo riportano in quell’unica terra dove si sente saldo e forte. Loro sconfiggono la morte, e non perché, o non solo perché la loro giovinezza è l’antidoto all’abisso, il loro affacciarsi pieno di speranze vince ogni limite e finitezza, ma soprattutto perché i bambini hanno dentro in modo naturale una luminosità, una grazia che li accomuna al divino, uno speciale filo che li congiunge alle potenze celesti. E’ quello che da ora accomuna Sebastiano alla sua “madre bambina”, il rinnovato dialogo col cielo che avrà nuovi linguaggi per manifestarsi e alleggerire i nostri passi pesanti: “Ho sognato gli altri questa notte/ma tu non sei venuta/hai portato la tempesta stamattina/il grigiore del tempo come a volte fanno/i morti, per mettersi in contatto con i vivi…”.

 
 

Altre recensioni alla raccolta si possono leggere su La Recherche e su LiberInVersi

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