Sebastiano Aglieco: ‘La tua voce’ – Polena, 1997

 

La tua voce

Sebastiano Aglieco

1997

Polena

di Milo de Angelis

Sentiamo, in ogni pagina di questo libro, un oscuro contrasto, una lesione, un’ardua fedeltà alla propria missione, altrettanto ardua e lacerante: esprimere la libertà attraverso regole severe. Quando la confusione sembra risucchiare o rendere indistinte le nostre parole, proprio allora, ci dice Sebastiano Aglieco, diventa necessario il ricorso a una parola ancora più precisa, e a un ascolto ancora più affilato: per udire, nella stanza delle voci in subbuglio, la tua voce, per trovare nella moria dei versi il taglio giusto, come leggiamo nella bellissima sezione “Il puro dettato dei giorni”. Una descrizione confusa non è una descrizione della confusione, ed essere giusti con le parole non significa un’immediata e illusoria empatia, ma quella intimità della separazione, quella “chiarità del pensiero”. E anche: che la voce non sia pura emissione personale, ma che diventi, impastata di memoria, erede ed eredità di altre voci, porto sepolto da raggiungere percorrendo a occhi aperti una via sconcertante, dove “gli abissi della metropolitana” si intrecciano con Siracusa e la sua spiaggia secolare. La tua voce, come ogni vera poesia, è la prova che nella stessa parola, accanto a un uomo brancolante c’è un uomo rigoroso e fedele; accanto allo smarrimento, la puntuaità di un metodo; accanto a chi ha perduto tutte le parole, una maieutica del discorso; accanto a una voce trepidante c’è una voce con la freddezza di una cartina militare. E tutto il libro è attraversato da questo intreccio di contrasti: coesistere impensabile, corpo a corpo mortale, e insieme nutrimento sotterraneo. Il verso di Aglieco, con i suoi scatti d’impeto e accensione, esige e raggiunge una rara nettezza di contorni: voce che “stritola sillabe”, voce “di parole esatte”.  E questo libro è davvero la storia di una voce in controversia. Aglieco l’ha ascoltata a lungo, nel tempo, e in un tempo ancora precedente, quando non sapeva che sarebbe diventata voce.

Parole e sangue

di Isabella Vincentini

Leggere i versi di Sebastiano Aglieco quali estrapolazioni da l poeti di trent’anni può sembrare riduttivo: come lo è sempre quando si guarda a un autore con gli occhi rivolti a un movimento o ad una tendenza. Eppure la sensazione di appartenere a un “coro della terra”, a uno stesso sentire, a uno “stesso essere stati”, a uno stesso “grembo” è cosi netta da travalicare l’idea di nutrimento comune e di iscrizione ad una medesima scuola. Oltre la questione dello stile c’è la consapevolezza bruciante di una specie che attende la conflagrazione della parola: “le parole dei poeti in pena / il fuoco di quegli anni”. Ma cos’è questa attesa? Non è certo uno stato sognante e limbale, come accade di frequente in chi si affaccia alla scrittura. E’ una veglia, e si svolge di notte: “La notte portava la forma a brani / a chiazze, a morsi del suo sangue / aperto come un fiume”; “Dagli occhi chiusi gli apparve ancora quel/colore da epifania/le ruote precise che rovinano nella notte”; “All’insaputa della notte/quel fumo rappreso sul davanzale/portava i canti delle falene morte”. E’ un vigilare solitario e freddo, recluso, ” – perché non sono mai stato come voi / perché non vi ho mai conosciuti / perché non mi siete mai appartenuti”. Ecco, allora, che l’appartenenza ad uno stesso sentire, lungi dalla confortevole partecipazione, si delinea come uno stato di duro isolamento, come una tebaide, dove l’anacoreta non può che custodire “il ramo del/pianto, secco, l’indurita sentenza dei / poeti, questo sei tu, luce / inappagata, ombra rifranta”. Stupisce una segregazione casi desolata, questa contumacia rinserrata in tane da formiche (”ora viene la notte / ora è la stagione delle serre / ti sentirò dalle tane delle formiche / sangue in bollore caldo, solo forma di / sangue accucciato nei miei pori”). Ed eccola la notte su cui è di pattuglia Aglieco: dare il cambio a una generazione troppo vicina e precoce per smontare di guardia, l’avere in consegna una parola scavata e indurita come una sentenza, ed avvertire, per questo, il bollore del sangue, il fiotto caldo di una palla silenziosa, l’attesa del “giusto taglio”, l’avanzare dall’oscurità di apparizioni e segni, ma “senza ritmo, senza poesia / un colore freddo svagato nella memoria”, “e tu sapevi che non c’era redenzione / – ho collezionato dei tagli / mi , sono consumato tutto in attesa di questi tagli”. Avamposto, vedetta o piantone, per Aglieco, poeta di trent’anni la poesia è taglio e sangue.

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