Parola ai Poeti: Sebastiano Aglieco

 

Qual è lo “stato di salute” della poesia in Italia? E quello dei poeti?

Per quanto mi è possibile osservare – leggere libri di poesia è diventato un secondo lavoro non retribuito – oggi la poesia è un albero assai florido sui cui rami crescono frutti e fiori dai diversi colori e dalla diversa consistenza. Il che vuol dire, fuor di metafora, che la poesia come genere è molto praticata e produce risultati assai diversi in qualità. Se vogliamo chiamare poeti l’infinita pletora di persone che scrivono, lo stato della poesia è ottimo. Se vogliamo limitarci a considerare le prove migliori o di qualità media, rimane comunque da tener sottocchio una bella pianta rigogliosa. Il problema è un altro a mio avviso, e da esso dipende la risposta: e cioè che, per sfrondare questa pianta, spesso manca una coscienza autocensoria in chi scrive, la capacità di sopportare l’attesa, di reggere la fatica di un duro apprendistato. Insomma: dovremmo distinguere, per rispondere correttamente, tra poesia come linguaggio d’arte alla sua massima espressione, e poesia come strumento psicoterapico. Purtroppo gli editori non fanno alcuna distinzione, e questo è il vero grande problema.

 

Quando hai pubblicato il tuo primo libro e come hai capito che era il momento giusto? Come hai scelto con chi pubblicare? Cosa ti aspettavi? Cosa ti ha entusiasmato e cosa ti ha deluso?

Credo di essermi sottoposto, nel corso degli anni, a un’ autocensura fin troppo rigorosa. Ho pubblicato quindi il mio primo libretto nel 1985, MINIME, ma avevo già alle spalle centinaia di testi rimasti, s’intende, rigorosamente inediti. Come tutti i giovani poeti, altissime erano le pretese di un io/narciso. Il secondo libro dieci anni dopo: ancora più alte e disattese le aspettative, anche perchè venivo da un lavoro intensissimo di studio: archeologia, mitologia… Mi aspettavo, quindi, il riconoscimento di un lavoro poetico rigoroso. Ma ero ingenuo. Il panorama, ai tempi, era già molto variegato: fortissime le istanze delle scuole, anche se già al tramonto, e la presenza, quasi schiacciante, di poeti riconosciuti prestissimo come maestri. Non sapevo ancora che non basta pubblicare un buon libro per assicurarsi un minimo di stima, ma che occorrono maestri che ti hanno seguito “prima”; un minimo di fioritura sulle pagine delle riviste; qualche lettura pubblica; pubblicazione di inediti: tutti elementi che oggi sono considerati come scontati in partenza, accessori alla presunta “qualità” del proprio lavoro, piuttosto che occasioni di formazione, di crescita. Il terzo libro, quindi, in una veste grafica dimessa e all’interno di un progetto editoriale fallito in partenza, ancora anni dopo.

 

Se tu fossi un editore cosa manterresti e cosa cambieresti dell’editoria poetica italiana? Cosa si aspettano i poeti dagli editori?

Innanzitutto un buon editore di poesia non dovrebbe mai rinunciare alla presenza di un direttore di collana e a un team che abbia il compito di selezionare i testi. E’ una pratica diffusa solo in apparenza. Assolutamente imprescindibile l’editing editoriale. Non si tratta di correggere un manoscritto, s’intende, ma di far emergere le sue qualità, le sue potenzialità o rinnegarlo del tutto, restituendo, tuttavia, all’autore, non un giudizio negativo e basta, ma un’analisi dettagliata, un invito a lavorare, a prendersi tempo, per poi restituire. L’esperienza del silenzio e del diniego, oggi come oggi, non può che far bene alla poesia. La poesia non ha bisogno di fretta. I poeti che hanno fretta non fanno altro che fare il gioco degli editori di poesia. I quali, come si sa, in un modo o nell’altro, chiedono contributi in acquisto di copie o in contanti sapendo che, oggi, nella frustrazione generale delle coscienze e delle mancate realizzazioni esistenziali, l’io narciso della gente si è ingrossato in maniera spropositata e ha bisogno di sogni – falsi o attendibili non importa – di autogratificazione. Non trovo scandalosa in sé, la pratica di chiedere un contributo all’autore, se però il direttore di collana, per ciò che gli compete (rigore selettivo, dialogo…) e l’editore, per ciò che compete a lui (visibilità, cura tipografica, correzione bozze adeguata, diffusione…) siano in grado di seguire un’opera in tutti i suoi passaggi di crescita. Sono convinto, cioè, che un libro sia veramente concluso non nel momento in cui il manoscritto viene consegnato all’editore, ma nel momento in cui è cresciuto attraverso una serie di passaggi. Più un poeta guadagna in umiltà, in capacità di riconoscere maestri ed esperienza degli altri, più ne giova la sua opera. Assai spesso mi capita di leggere libri che potrebbero essere quantomeno dignitosi se avessero conosciuto questo tipo di attenzione; invece sono libri inutilmente prolissi, con un progetto non chiaro e con cadute irrimediabilmente imbarazzanti. Da sfrondare, sicuramente, e accompagnati da quattro righe di biografia e da una paginetta e mezza di presentazione piuttosto che da sproloqui di premi vinti e di stime ricevute.

 

La poesia di domani troverà sempre maggiore respiro nel web o starà in fondo all’ultimo scaffale delle grandi librerie dei centri commerciali? Qual è il maggior vantaggio di internet? E il peggior rischio?

Credo che la poesia, nel futuro non si troverà né sul web, né all’ultimo scaffale delle grandi librerie. Dico questo perchè succede già. E non lo dico per polemica. La situazione delle librerie la conosciamo. Inoltre, ormai, quasi tutti gli editori, smerciano i libri di poesia in internet. Si tratta di un servizio, e da questo punto di vista la rete va benissimo. Ma la rete, al momento attuale, e per rete intendo i gestori degli spazi e i lettori, ha rinunciato ad essere progettuale. Nel senso che, anche se le iniziative per la diffusione della poesia non si contano, queste hanno finito per emulare gli stessi meccanismi d’élite della carta stampata, oppure, viceversa, per riprodurre lo stesso atteggiamento che ha l’editore che vuole far soldi, pubblicando senza alcun criterio libri di poesia. L’effetto oggi, è quello di un grande contenitore dove c’è molta spazzatura e pochissima qualità. Oppure: una scatolina che contiene quattro oggetti considerati gioielli di lusso. E quindi alla fine, o tutto fa brodo o tutto fa schifo. Fan brodo le esperienze importanti e che forniscono un servizio da anni; fan brodo le esperienze di aggregazione da sottobosco che spacciano la lista della spesa per poesia; e tuttavia, queste, sono esperienze robustissime, proprio perchè create in funzione di un’autodiffusione, di un’autogratificazione. In questa situazione generale pochissimi sono capaci di distinguere. Senza contare, poi, lo scollamento tra i salotti buoni e la rete, spesso considerata come una corrida allo sbaraglio per dilettanti.

 

Pensi che attorno alla poesia – e all’arte in genere – si possa costruire una comunità critica, una rete sempre più competente e attenta, in grado di giudicare di volta in volta il valore di un prodotto culturale? Quale dovrebbe essere il ruolo della critica e dei critici rispetto alla poesia ed alla comunità alla quale essa si rivolge?

Proseguendo il ragionamento della risposta precedente dico: una comunità critica è, fondamentalmente, una comunità di lettori. Un critico è un lettore dalle spalle larghe e dalla sensibilità che vibra come la corda di un violino. Se la gente non legge, e si autoelegge, non c’è niente da fare. Le cose rimarranno come sono e, anzi, peggioreranno. Occorrerebbero progetti diversi da quelli esistenti oggi, che neanche io riesco a immaginare. Molti operatori, una volta attivissimi, hanno abbandonato la rete, probabilmente perchè – anche se non bisogna generalizzare – utilizzavano i loro spazi come cassa di risonanza per il proprio lavoro. Raggiunto o fallito l’obiettivo, hanno rinunciato. A volte sono tentato di ritornare nel deserto, guardare tutto con occhio distante e affidare al tempo i miei scritti sotterrandoli in una bottiglia. Non serve oggi, evidentemente, parlare di poesia. Non è necessario. Proprio perchè, al di fuori della cerchia, la poesia non è percepita come necessaria. Se non si parte da questo, dalla necessità, rimane il contorno. E oggi abitiamo tutti in un grande contorno evanescente. Spesso io non percepisco la poesia, ma il gonfio e tronfio poeta che non vuole morire. Cosa succederà a questi libri e libricini il giorno in cui se ne andranno i loro autori?

 

Il canone è un limite di cui bisognerebbe fare a meno o uno strumento indispensabile? Pensi che nell’attraversamento della tradizione debba prevalere il rispetto delle regole o il loro provocatorio scardinamento?

Pur non mettendo in discussione la grandezza dei grandi, è chiaro che la loro opera è arrivata a noi perchè noi possediamo una mole di variazioni e considerazioni di queste opere. Se tu percepisci uno scritto come necessario al tuo tempo, in qualche modo ti impegni per una forma di restituzione. Il canone delle opere grandi si crea così: e cioè si autocrea per restituzioni, per considerazioni necessarie. Ma questo non basta. I cosiddetti minori costituiscono una categoria assai pericolosa. Minori perchè? Chi lo ha deciso? Per fare un esempio eclatante: Calogero è un minore? Eppure entra ed esce dalle antologie e praticamente impossibile è andare a leggere da qualche parte l’opera omnia. Nei testi dell’antichità, vengono menzionati nomi di poeti considerati grandissimi, di cui noi non conosciamo un bel niente perchè non sono stati copiati. Dante non era di moda nel secolo dei lumi, e lo stesso Shakespeare veniva considerato un barbaro. Per limitarci alla letteratura, ma il discorso calzerebbe a pennello per la musica, per la pittura. Penso a grandissimi come Bach, Caravaggio, Rameau… ritirati fuori dal baule della nonna solo in anni recenti e a volte recentissimi. Quindi, per riassumere: noi non abbiamo il diritto di redigere canoni, elenchi. Noi abbiamo il diritto di testimoniare. Ogni secolo sceglierà da un elenco, le parole che servono di più al suo senso.

 

In un paese come il nostro che ruolo dovrebbe avere un Ministro della Cultura? Quali sono, a tuo avviso, i modi che andrebbero adottati per promuovere la buona Letteratura e, in particolare, la buona poesia?

La scuola, innanzitutto. Oggi i programmi della scuola, e mi limito alla fruizione della poesia, sono uno scempio. E’ uno scempio l’insegnamento “sulla” poesia, non “della” poesia. E’ uno scempio l’atteggiamento di prof. burocrati e asettici e cattedratici e spesso ignoranti. Ma, fondamentalmente, formati in un certo modo. La poesia no può essere insegnata veramente. Bisogna trovare modi per “viverla”, per farla entrare nella tua carne. La storia della letteratura è una cosa, sacrosanta, la percezione del poetico è una sensibilità che va educata attraverso le parole della poesia. Ha ragione Rondoni nel suo libro LA LETTERATURA IN PERICOLO, di cui uscirà una recensione sul mio blog. Al di là della soluzione che polemicamente prospetta, l’analisi della situazione è proprio quella che fa lui. Cosa dovrebbe fare un ministro della cultura? Mi viene da ridere!

 

Quali sono i fattori che più influiscono – positivamente e negativamente – sull’educazione poetica di una nazione? Dove credi che vi sia più bisogno di agire per una maggiore e migliore diffusione della cultura poetica? Chi dovrebbe farlo e come?

Credo di aver già risposto nella domanda precedente. Aggiungo qualche altra considerazione: bisognerebbe dare alle fiamme libri e manuali di stampo strutturalista che, a furia di preparare ricette di comprensione e cacciaviti per smontare il corpo della poesia, l’hanno portata al camposanto col beneplacito della classe insegnante che, incapace di consapevolezza rispetto alla storia dei metodi, applica a scatola chiusa formulette magiche, e dell’indifferenza consequenziale di alunni a cui della poesia non gliene può fregare proprio un bel niente. Uno dei motivi dell’enorme successo degli “strumenti didattici”, è che questi semplificano molto il lavoro, ti fanno risparmiare in investimento umano, ti rendono sicuro, ti dotano di una bella corazza, mentre è molto più difficile andare allo sbando buttando dalla finestra qualsiasi libro che non riporti il corpo nudo e crudo della poesia. Se non c’è questo non c’è critica militante, personale, soggettiva, fuori dalle righe; non ci può essere investimento, corpo a corpo con le parole dei poeti. Faccio un discorso generale, s’intende, e, certo, si offenderà qualcuno, ma chi non si riconosce in questa analisi, potrebbe, magari, lasciare un commento qui!

 

Il poeta è un cittadino o un apolide? Quali responsabilità ha verso il suo pubblico? Quali comportamenti potrebbero essere importanti?

Il poeta è un cittadino. Punto. Sarebbe il caso di archiviarlo il romanticismo e il conseguente maledettismo. Anche perchè, oggi, occorre riflettere molto seriamente su che cosa è stato il novecento. Mi aspetto molta metapoesia, che forse, oggi, è il genere più necessario. Chi si atteggia, oggi, a maledetto, è ridicolo. Non fa altro che scopiazzare i grandi maledetti. E’ solo una maschera di facciata, che non riveste, poi, neanche la ben minima conseguenza politica. Certo, maledetti con l’ipad in mano. Non credi ci sia un po’ di contraddizione in questo? Quindi meglio essere “normali”, con l’ipad in mano e usare la testa. Smetterla con gli angeli e con i demoni. Guardare in faccia le cose, stare in contatto con la nostra ispirazione. Questo sì! Essere duri con se stessi, con la propria arte. Il poeta ha responsabilità, prima di tutto, con la propria arte. Tanto ogni arte, se è vera arte, si alimenta di vita, di oggetti, di pensieri, di dolore, di pulsioni, della solitudine, della presenza degli altri…La vera arte fagocita tutto. Anche la morte. Nessun poeta ha un vero pubblico. Meglio un cattivo poeta in meno che un pessimo cittadino in più. Se tu scrivi brutte poesie, e ne sei cosciente, ma sei una persona bellissima, io apprezzo e mi inchino. Se tu scrivi grandi poesie e sei uno stronzo, io non ti leggo neanche. Mi è capitato qualche volta, e mi sono detto che sarebbe stato meglio non averlo conosciuto l ‘autore di quelle splendide poesie!

 

Credi più nel valore dell’ispirazione o nella disciplina? Come aspetti che si accenda una scintilla e come la tieni accesa?

Ognuno di quelli che scrivono, avrebbe cose da raccontare probabilmente assai diverse. Non credo ci sia una formula. Certo, il romanticismo ha molto esaltato il valore dell’ispirazione, ma credo sia un mito. Se vogliamo considerare a freddo la questione, io farei riferimento, ancora oggi, a un’immagine tramandata da un giornalista che era andato a parlare con Beethoven. Lui racconta di aver visto uscire il musicista dalla sua stanza in uno stato pietoso di stanchezza e sconvolgimento. Certo, romanticamente si tratta della lotta con l’angelo. Razionalmente: ciò che, quando scrivi, dipingi, componi etc… senti ci sia di irrazionale da imbrigliare. La creazione è un’altalenante lotta non alla pari tra un’istanza censoria, razionale, sociale e una irrazionale, irrisolta, “informata”. Questa chiede forma, altrimenti non può esistere. L’opera d’arte è un luogo d’incontro fra queste due realtà.

 

Scrivi per comunicare un’emozione o un’idea? La poesia ha un messaggio, qualcosa da chiedere o qualcosa da dire?

Considero un’emozione e un’idea come la stessa cosa. Cambia il grado di fusione. Se scaldi “una cosa” a una certa temperatura è un’idea; se la scaldi a un’altra è una emozione. Sono parole difficili “idea” ed “emozione” su cui pesano, purtroppo, una lunga tradizione di significati di cui bisognerebbe finalmente liberarsi. E poi: la poesia ha sempre un messaggio; anche nella forma di un monologo, la poesia è sempre dialogo che ha qualcosa da dire e qualcosa da chiedere.

 

Cosa pensano della poesia le persone che ami?

Direi che pensano più al poeta Sebastiano Aglieco che a quello che scrive.

 

Sei costretto a dividere il tempo che più volentieri dedicheresti alla poesia con un lavoro che con la poesia ha davvero poco a che fare? Trovi una contraddizione in chi ha la fortuna di scrivere per mestiere? Come vivi la tua condizione?

Scrivo poesia da sempre, dall’età di 8 anni, credo. Dalla prima media, poi, le ho conservate tutte. Un duro apprendistato, ma soprattutto necessario. Mi era necessario scrivere. Ma la scrittura è, anche, un pozzo nero che ti assorbe, che ti porta altrove, lontano. Devi sempre fare l’esercizio di ritornare. Grazie a Dio, quindi, nella mia vita non c’è solo la poesia e questo mi aiuta a gestire abbastanza egregiamente ego e narciso. A infischiarmene dei meccanismi da teatrino che regolano le relazioni dell'”ambientino” Paradossalmente non ho mai avuto un rapporto sereno con la letteratura. La poesia non mi emoziona. Mi intriga. La musica mi emoziona. La poesia mi lascia distante. Mi permette una distanza. E poi non puoi scrivere nulla di interessante se non vivi, se non ti incazzi, non ti indigni, non ami, non odi…Io vivo e di conseguenza scrivo. Farlo di mestiere? Non credo nessuno l’abbia mai fatto veramente.

 

Cosa speri per il tuo futuro? E per quello della poesia? Cosa manca e cosa serve alla poesia ed ai poeti oggi?

Per il mio futuro non spero proprio niente. Perchè non dipende da me ma da chi dovrebbe leggere attentamente. La sottostima generalizzata dei poeti della mia generazione, la famosa generazione sommersa, è stata una scorrettezza culturale, senonchè etica, che spero qualcuno si prenda la briga di colmare. Non ne faccio, quindi, un discorso personale, ma generazionale. Come mai nessuno è stato capace di indicare, nei nati a partire dal 1960, nomi rilevanti? Non esistono? Non lo credo. E non si tratta di stilare delle liste, beninteso, ma di restituire tutto un mondo poetico, un clima culturale. Che cosa manca e cosa serve alla poesia e ai poeti oggi? Direi semplicemente i lettori. Quelli che leggono un libro per passaparola, non perchè ne abbiano letto la recensione di turno. Serve farsi fascinare dalle parole, non dal personaggio, non dalla paura di rimanere isolati per non aver letto il libro dell’amico, o del poeta influente che magari ci garantisce in cambio una recensione, un minimo spazio, una lettura pubblica. Serve, insomma, come sempre, un gesto di grande libertà.

 


 

Sebastiano Aglieco è nato a Sortino (SR) il 29 gennaio 1961. Tra i libri di poesia: Giornata, La vita felice 2003 presentazione di Milo De Angelis, premio Montale Europa 2004; Dolore della casa, Il ponte del sale 2006; Nella Storia, Aìsara 20009. Il lavoro critico è stato raccolto in Radici delle isole, La vita felice 2009. Si occupa di educazione in veste di maestro di scuola elementare e di teatro. Il suo blog: Compitu re vivi.

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3 Comments

  • Credo che Sebastiano sia stato concreto realista e onesto in ordine alla definizione del suo stare al mondo come persona e come persona che scrive .
    Credo anche che quanti conoscono il suo lavoro di valorizzazione e di promozione della poesia altrui non potranno non riconoscerne i meriti , ben lontani dall’esperire retoricissimi minuetti critico / verbali di circostanza , ma ricerca rigorosa e appassionata di autenticità ; la stessa sancita a chiare lettere nell’intervista che abbiamo letto .

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