La strada n.7: L’onestà ritmica del silenzio: ai poeti di vent’anni

 

di Domenico Ingenito

[Le note che seguono (già su Vermena, n.d.r.) sono state scritte su un taccuino a Cracovia, in un momento di concentrazione peripatetica: scrivendo, camminavo seguendo il riflesso del sole sui binari del tram. Tornato in stanza, poi, ero felice. Perché la consapevolezza dell’emergere di un nuovo tempo si affacciava alla mia coscienza come il fremito della stanza e di tutte le pareti, la finestra e le lampade al passaggio del tram. Come quei sussulti leggeri che percepisci dentro, come se il cuore e i polmoni facessero da cassa di risonanza a un’intuizione luminosa. Seguiranno anni molto belli. ]

Nell’eccessiva penuria di intenti e devozioni di cui quest’epoca si ammala, l’arte, forse, va cercata nel tormento estatico dei dissennati. Se invano ormai cerchiamo di vocalizzare il mondo – disperso nell’anonimato del frammento – dobbiamo apprendere da chi, per sorte avversa di follia mentale o disnatura fisica, piange ad ogni fremito di vento.
Se l’oggetto è il motore della semiosi, se è vero che è la cosa che ci parla, oppure se è davvero la forma ad irretirci con l’alchimia di attrazione e inclinazione, allora la crisi del nostro tempo va cercata nella disarticolata natura dello stare al mondo – per noi – del mondo. La cosa è, di per sé, oggetto splendente e muto che, come il nero materiale radioattivo, emana vertigini di senso incessantemente, con violenza e sorte di progressivo decadimento.
Nel circolo che conduce gli oggetti dalla creazione all’estinzione, è imposto a noi un processo di semiosi potenzialmente illimitata che, sebbene asintoticamente incessante per via dell’impossibilità umana di esperire la fine, è in realtà soggetta a perdita di vigore. L’ossessione dei moderni per l’antico, l’arcaico, l’originario e l’autentico, è segno di un ultimo disperato slancio dell’umano verso il recupero del vigore semiotico del mondo che ci parla e impone d’esser detto nell’alveo dell’esperienza sensibile.
Ma questa forma di evocazione artificiale dell’origine, contrariamente all’atto di invocare una grazia dall’invisibile quando l’umano è posto ai margini di profezie che annunciano la distruzione totale di ogni cosa, non è altro che una violenza perpetrata ai danni dell’oggetto nel momento in cui esso annuncia silenziosamente l’assottigliarsi della sua capacità di significazione.
Se le avanguardie del primo Novecento costituiscono un atto estremo e drammatico di evocazione di senso nei confronti dell’oggetto progressivamente ammutolito, le neo-avanguardie tardo-novecentesche deridono l’oggetto sotto l’accusa di impotenza semiotica. Se l’avanguardia nasce in seno al vigore totalitario di piegare il mondo al volere assoluto dell’umano, la neo-avanguardia muove da una ascetica negazione del mondo. Se, nel primo caso, al linguaggio poetico è affidata una sacralità trasformazionale e proiettiva tale da sopperire al tramonto del divino, nel caso delle neo-avanguardie, riconosciuto il destino di dissociazione semiotica tra le parole e le cose, esse convergono verso l’atto di negazione del mondo, ormai impotente, per mezzo del sabotaggio della struttura intima del linguaggio.
Il destino della rima è il principale segnale di questo processo. Essa, infatti, compare in un momento della storia dell’uomo in cui la tensione tra le parole e gli oggetti comincia ad incrinarsi ed emerge la necessità di un legame capace di tenere saldo il rapporto di significazione tra il mondo e il respiro articolato in voce. La rima tra due parole alla fine di un verso, nel proporre l’evidenza di una possibilità di consustanzialità segnica tra la forma e la divergenza semantica, assicura, nel piano macroscopico della pratica letteraria radicata nella società, la stabilità del rapporto tra parole e oggetti esterni al testo. Il fastidio o il disgusto che proviamo oggi nei confronti della rima è dovuto in gran parte al processo di scardinamento del legame tra parole e oggetti del mondo.
È interessante notare come, nella prassi dei neo-avanguardisti, l’uso della rima sia esclusivamente relegato all’ambito del discorso ironico, ludico, oppure, quando emarginato dalla legittimità poetica, sentimentalistico – ovvero, la canzonetta e la versificazione a-letteraria. Il ludismo, quindi, diventa carattere prominente della pratica neo-avanguardista proprio perché è esercitato in seno a quel sabotaggio del linguaggio che è strumento non solo di negazione del trascendente, ma anche, e soprattutto, del mondo in quanto fonte potenzialmente illimitata di senso.
Il risultato è che, in poco meno di un secolo, siamo passati dall’espressione del sentimento di crisi nei confronti della perdita del senso, all’attivo sabotaggio del senso stesso. Ironia della sorte è che questo processo di decostruzione nichilistica ha preso piena forma proprio in quel laboratorio di rivendicazioni libertarie e di propositi di trasformazione e rinnovamento sociale che sono stati gli anni Sessanta. Morto Pasolini, ultimo antropologo italiano del Novecento ad aver denunciato a piena voce la tragedia del nichilismo neo-avanguardista, si è aperto il sipario del deserto berlusconiano, dal quale solo oggi, pare, riusciamo timidamente a uscire.
Se il Fascismo è stato, da un punto di vista strutturale, quindi indipendentemente dall’etica e dagli intenti sei singoli autori, l’analogo politico dell’ideale avanguardista di fare della lingua uno strumento di intervento attivo sul mondo, le neo-avanguardie hanno preso piede nel trentennio nichilista che ci stiamo lasciando alle spalle. Le responsabilità del pensiero politico di sinistra, che ha fatto della negazione il proprio vessillo piuttosto che l’affermazione, sono incommensurabili. Il berlusconismo stesso si è formato proprio nel terreno del nichilismo etico ed estetico cui si sono prestate le sinistre. Ovviamente, quando parlo di sinistra, non intendo l’entità attoriale politica in senso stretto, ma l’atteggiamento culturale dominante che dagli anni Sessanta in poi si è impegnato nella riformazione libertaria della società italiana. Sebbene sia naturale che ogni forma di protesta faccia della negazione il proprio punto di partenza, affinché la sua forza propulsiva perduri efficacemente nel tempo, essa ha bisogno di rifondare una solida struttura etica ed estetica.
Quello che caratterizza in parte il trentennio nichilista è basato su una forma di ludismo cinico nei confronti del bene e del bello come ideali umanistici da affermare e sostenere. Lo stato in cui versa il sistema accademico italiano – che in quanto realtà universitaria si offre allo sguardo come legame tra il versante politico e quello culturale, se non spirituale, di una nazione – non si discosta molto dalle condizioni del bordello mediatico berlusconiano. Con la differenza che, se quest’ultimo è il prodotto di un edonismo imbarazzantemente regolato dalle leggi di mercato, il sistema universitario, così come l’élite culturale e letteraria, continua a proporsi come presenza necessaria e imprescindibile allo sviluppo intellettuale della società italiana.
Sebbene siano chiare le posizioni politiche dei dirigenti culturali che hanno partecipato al ’68 e che oggi amministrano gli spazi del sapere, la finalità del loro agire scientifico, etico ed estetico pare arenata nel circolo vizioso dei giochi di potere, del ludismo narcisistico, del cinismo spirituale e della ricerca accademica fine a se stessa. Soprattutto per quanto concerne gli studi letterari, la frivolezza decostruttivista dello sguardo estetico sul nostro tempo si accompagna con il frigido filologismo che fa del proprio oggetto di studio una collezione d’ossa le cui ragioni d’esistenza sono legate all’affastellamento di dati posti in offerta al tempio mondano della scienza, oppure all’accumulo di massa critica usata come moneta di scambio per l’acquisizione di potere all’interno della gerarchia accademica.
Nel corso degli ultimi dieci anni ho avuto l’opportunità di osservare da vicino la realtà di tre importanti atenei italiani, centinaia di docenti, ricercatori e assegnisti. Devo confessare che, solo in pochi casi, le dita di una mano, e parlo di persone, ho avuto la certezza di incontrare umanisti intellettualmente onesti, attivamente coscienti della portata etica del proprio oggetto di studio e mossi non da tornaconto narcisistico, politico o da inerzia critica. Sono loro gli “imperdonabili” del nostro tempo.
Derisi dai colleghi, quando non osteggiati con sfrontatezza, esclusi dalla dirigenza didattica e amministrativa, succubi della volontà dei loro sedicenti maestri che esercitano su di loro un autoritarismo mai coronato da autorevolezza. Eppure, i loro gesti, nei rari momenti di libertà che è concessa loro, sono segnati da una grazia amorevole che non ha pari. Spesso inconsapevolmente, hanno firmato il giuramento d’Ippocrate dell’insegnamento, nello sforzo pedagogico di formare esseri umani e non presenze di carne che assicurino un posto in poltrona. Tutti gli altri, invece, sono vittime tristi del proprio cinismo, abbrutiti nello spirito e nel corpo dalla afasia etica che hanno abbracciato quando hanno visto nell’insegnamento nient’altro che una fonte di guadagno – per quanto misero – quando non un ostacolo alla loro egocentrica scalata gerarchica.
Sebbene nell’Italia di oggi siano molte le categorie sociali che collaborano alla rovina del nostro paese, questi ultimi costituiscono la più pericolosa perversione del trentennio nichilista, in quanto spargitori di sale, pestilenza e agonia spirituale nei campi dove dovrebbero sbocciare le nostre menti più brillanti.
Per quanto denunce di questo tipo siano state formulate già da diversi anni, la tendenza analitica si limita generalmente a ridurre le cause di questa crisi di oggi a fattori di natura socio-economica e politica in senso stretto, senza mai contestualizzarla nel più ampio spazio del nichilismo ontologico degli ultimi trenta anni, alimentato in primo luogo dal sabotaggio della lingua e dalla negazione del mondo in quanto oggetto di contemplazione estetica e spazio di esercizio etico.
Se il mandato dei poeti ha acquisito conformazioni di diversa natura a seconda dei luoghi, dei tempi e dei contesti socio-antropologici, fino a perdere buona parte della propria ragione d’essere nella città italiana del Novecento, nel nostro tempo, oggi, è necessario che l’atto di scrittura si offra nuovamente come onesto spazio di partecipazione alla sacralità del rapporto tra le parole e le cose. Uno spazio in cui anche la disforia, il malessere esistenziale, l’ironia sardonica, la scissione etica e il disorientamento afasico dinanzi al mutismo degli oggetti e all’impoverimento del vigore ritmico e figurativo della lingua abbiano piena dignità di essere esperiti. A patto, però, che non diventino i cardini fondativi di una estetica negativa in cui il ludismo cinico risulta essere l’unico atteggiamento assimilabile nei confronti del tempo della decadenza.
A questo punto, un intento estetico che oggi abbia intenzione di contrastare la portata nichilistica della frangia più infruttuosa delle neo-avanguardie al fine di recuperare il dialogo tra le parole e le cose del mondo in rinnovato dialogo con gli oggetti, senza però ricadere nell’assertivismo di canoni formali ideologicamente imposti all’atto di scrittura, deve costituirsi a partire da una proposta relativa a un generale atteggiamento da assumere, piuttosto che a una maniera da difendere o imporre.
“Onestà”, forse, è il primo termine di un vocabolario intimo che potrebbe definire i termini di questo atteggiamento estetico da riconoscere, difendere e portare avanti, prezioso come spazio di non inferno nell’inferno dei viventi.
Una scrittura onesta è, in primo luogo, il risultato di un atteggiamento onesto nei confronti della parola e del mondo, i quali, piuttosto che essere negati o ridicolizzati, dovrebbero essere costantemente interrogati in una forma di partecipazione sim-patica anche nel momento del naturale conflitto dell’io nei confronti del linguaggio e delle forme del mondo. Ed è proprio in questa situazione critica, cioè quando il mutismo degli oggetti, l’apparente vanità della loro presenza e l’incapacità espressiva del linguaggio spingono il poeta verso l’esercizio di un cinismo nichilistico, che l’onestà diventa necessaria in quanto strumento di attesa, comprensione e accoglienza.
Si tratta, quindi, del recupero di una forma di attenzione e contemplazione anche quando il tutto chiama alla negazione ludica. Onestà significa anche non evadere mai da questo conflitto, consustanziale alla natura stessa del fare poesia, ché le spade, anche quando insanguinate, brillino nella doratura della cortesia.
Sebbene il mondo si presenti solo in rarissime occasioni ormai (ma più per ragioni d’ordine ontologico ch storico-ambientale) come ordine e bellezza da esaltare nel potere estatico della parola, di esso e del linguaggio va tenuta sempre presente la possibilità latente di emanare grazia e bellezza indipendentemente dalla frustrazione in cui versano gli occhi e le labbra dell’io quando si apprestano a vedere e a pronunciare.
In poesia, uno dei primi atti di ribellione sanguinaria di cui io abbia notizia, è stato espresso in persiano, nell’Anatolia del tredicesimo secolo, dal mistico Rumi:
Oltre i lacci dei versi e dei sonetti, o sovrano, sultano dell’Eterno,
lunga breve lunga lunga, lunga breve lunga lunga, questo metro così mi ha ucciso.
Le rigorose regole della prosodia arabo-persiana, quantitativamente basate sull’alternanza di sillabe brevi e lunghe, non possono in alcun modo essere trasgredite perché, in quel contesto, è la presenza del metro ad essere imprescindibile affinché il discorso possa essere considerato poetico.
Il poeta persiano, quindi, non ha altra scelta se non il rispetto di quelle norme che, benché stringenti, se evase rendono impossibile l’esistenza stessa del testo poetico.
Lo stratagemma rivoluzionario, e, oserei dire, avanguardistico, di Rumi risulta nell’azzeramento del discorso alla menzione delle sillabe, lunghe o brevi, che costituiscono il metro da lui impiegato nel sonetto di cui il verso fa parte.
Così facendo, Rumi riporta il verso al grado zero della struttura formale del poema alla fine di comunicare la crisi dell’io nei costrutti di un linguaggio formalmente troppo limitato perché in esso prenda forma l’eccesso di presenza e slancio spirituale che preme per essere detto.
La lingua poetica, qui, è scarnificata fino a mostrare l’ossatura che ne consente le condizioni d’esistenza. Così come ci si chiede per quale motivo i poeti persiani abbiano mantenuto per un millennio la stessa manciata di forme metriche senza pervenire molto prima al verso libero, allo stesso modo, c’è da chiedersi per quale motivo Rumi, pur esprimendo il tono drammatico del conflitto con il linguaggio, non si sia disfatto completamente di quella ossatura formale che tanto lo soffoca. La ragione che impedisce a Rumi di pronunciare il proprio conflitto con la lingua spezzando l’ossatura stessa del discorso poetico, il metro del suo sonetto, può essere ascritta al tipo di atteggiamento che fin qui abbiamo chiamato onestà.
È opportuno però chiarire le differenze del sistema in cui Rumi si muove rispetto all’orizzonte contestuale della nostra contemporaneità. In ambito persiano, l’onesta accettazione del discorso poetico nell’alveo dell’aderenza alle regole formali affermate dalla tradizione fa parte di una generale percezione di sacralità nei confronti del linguaggio umano, associato al logos coranico. In ambito islamico medievale, la parola, in quanto attualizzazione della matrice assoluta della creazione dell’universo, è concepita come ipostasi del divino, e “presso” di quello risiede proprio come il logos giovanneo che nella nostra tradizione si traduce in carne e non in libro. Alla parola poetica, quindi, è affidato non solo il mandato di sorreggere e innervare l’ordine socio-politico, ma anche la necessaria prossimità osmotica con la struttura stessa dell’universo sensibile, in quanto, quest’ultimo, è espressione di una matrice verbale che, sebbene creata, deriva dall’Eterno direttamente e senza mediazioni.
Nel caso di Rumi, l’onestà come necessità è parte di un atto di fede nella natura trascendentale del linguaggio, il quale, se intaccato nella sua natura formale così come è stata definita da una tradizione che in quelle stesse forme ha negoziato il patto etico tra la scrittura e l’ordine sociale come riflesso dell’ordine metafisico, instaurerebbe una frattura nell’essere che sarebbe inconcepibile per la mentalità dell’uomo medievale.
Il fatto che nel nostro tempo la realtà non sia più percepita secondo un ordine metafisico e logo-centrico, così come la poesia non assolve più una funzione socio-politica, ma si situa, per prassi, ai margini della nostra esistenza mondana, ci impedisce di derivare l’onestà nei confronti della parola da un atteggiamento fideistico che tragga legittimità dall’orizzonte delle religioni rivelate.
Per questo motivo, oggi, l’aderenza a un canone formale non è più difendibile proprio perché l’ordine dell’onestà non può più essere fideisticamente prescritto e assimilato nel tessuto di un’esperienza condivisa del sacro.
Se, al tempo di Rumi, l’onestà letteraria si risolveva in una forma di rispetto necessario nei confronti delle forme classiche, nel nostro tempo essa diventa una questione di sopravvivenza, nella quale non sono le forme del discorso ad assicurare il recupero di un’etica della significazione, ma l’esercizio di un rispetto del rapporto tra lingua e mondo. Rispetto che, qualunque sia la forma concessa dalla pratica di estetiche personali o condivise da una cerchia ristretta di persone, ci impone l’abbandono del nichilismo e l’accettazione del valore positivo delle forme del mondo e dell’espressione.
Ciononostante, benché l’oggetto ci parli in modo indipendente dalla nostra comprensione e ci chieda di essere detto ormai seguendo una qualsiasi delle forme dell’esprimibile, la questione della forma si impone alla nostra attenzione quantomeno al fine di definire il discrimine tra ciò che è poesia da ciò che non lo è.
Dovremmo, a questo punto, smettere di cedere alla tentazione di ontologizzare il fatto poetico nei termini di una categoria dell’essere nel mondo indipendente da una precisa di discrimine testuale. Siamo troppo abituati a parlare di poesia e poetico in senso lato come sinonimi di bellezza e di bello. La dimensione estetica è un qualcosa di cui la poesia non è altro che una attualizzazione testuale circoscritta da una forma espressiva socialmente negoziata in base al contesto storico e culturale microscopicamente assoluto e macroscopicamente relativo. Ad esempio, le definizioni persiane classiche di poesia, definiscono il testo poetico nei termini di discorso prosodicamente ritmato, rimato ed espresso in distici. Nel caso in cui una sola di tali condizioni non sia rispettata, il discorso esulerebbe inderogabilmente dal perimetro del poetico. Una definizione del genere, fondante per un millennio di poesia persiana composta dall’India ai Balcani, risulta per noi oggi inaccettabile, in quanto assioma derivato da una percezione funzionale del discorso poetico completamente diversa dalla fenomenologia letteraria del nostro tempo.
Se la definizione di poesia è una funzione assiomatica che deriva direttamente dalla visione del mondo contestuale a un luogo e a un tempo, in base a quale visione nostra del mondo possiamo negoziare un assioma che definisca il discorso poetico in quanto forma contrapposta alla prosa e non come euristica, impressionisticamente ritagliata all’interno del più vasto terreno dell’estetica?
Credo che la questione della forma sia oggi urgente perché uno dei presupposti delle neo-avanguardie, tuttora ampiamente praticato e supportato da illustri precedenti ottocenteschi, è la possibilità d’essere di una “prosa poetica”. La questione prima da cui una riflessione sull’onestà della poesia dovrebbe essere inaugurata è proprio il chiarimento del rapporto tra prosa e poesia rispetto alla sensatezza o meno di un concetto come “prosa poetica”.
Prima di accantonare momentaneamente la questione, urge sottolineare che qui non sarà messo in discussione il valore estetico di quei passi in prosa erroneamente definiti poetici e che, ciononostante, come le illuminazioni rimbaudiane, raggiungono punte di rara bellezza.
Giorgo Agamben definisce la poesia come un discorso in cui è possibile l’enjambement. La presenza di versi come unità discrete di senso separate da una pausa e la cui compiutezza sintattica può essere in potenza tradita, sfiorando così il confine tra quello che è lecito e quello che rischia di non essere apprezzato esteticamente malgrado la sua liceità, è forse l’unico tratto distintivo che accomuna la prassi poetica di ogni tempo e luogo.
Fino a che punto, nella generale dissoluzione dei tratti formalmente distintivi presupposti alla definizione di poesia, possiamo fare a meno anche del verso? Per rispondere a questa domanda, credo sia necessario riflettere sulla natura del ritmo, che nelle tradizioni poetiche classiche, che si tratti di metrica quantitativa, sillabica o tonale, si basa su quel rapido alternarsi di articolazione di suoni e trattenimento della voce che è anche alla base del linguaggio umano.
La parola non è altro che la modulazione di voce prodotta da parte dell’apparato fonatorio tramite una complessa successione di riduzione e impedimento degli spazi articolatorii in modo da distinguere ogni fonema da quello che lo segue. Dalle corde vocali alle labbra, l’intero apparato fonatorio, per opposizione articolatoria, trascina la voce verso il silenzio. L’articolazione alveolare della /r/ tramite la lingua, l’occlusione delle labbra per produrre la /u/, etc., non sono altro che un esercizio del silenzio contro la voce. Prosodia quantitativa e prosodia sillabica, per quanto profondamente diverse, riproducono in un piano più esteso questa successione di suoni modulati dal silenzio, nel primo caso con la tensione della brevità sillabica rispetto alla lunghezza, e nel secondo tramite la potenziale negazione della voce presenta tra l’articolazione di una sillaba e l’altra. In questo senso, il ritmo non è altro che un’organizzazione, riconoscibile e reiterabile, di suoni accordati dalla tensione verso l’assenza di suono. Il silenzio alla fine del verso diventa quindi la realizzazione finale di quella tensione verso il silenzio che l’apparato fonatorio sfiora contrapponendo all’emissione di voce. La pausa tra un verso e l’altro è quindi quella espressione positiva del silenzio che articola e conferisce senso ex-negativo al ritmo interno al verso.
Da questo punto di vista, la forma piana del linguaggio naturale, cioè non organizzato in versi, è già di per sé portatrice di ritmo, visto che quest’ultimo è prodotto essenzialmente dalla contrapposizione dei diversi fonemi rispetto alla tensione verso l’assenza di voce su cui poggiano le articolazioni dell’apparato fonatorio. Il discorso piano e il discorso in versi sono quindi scanditi da un ritmo la cui natura essenziale è la stessa. L’unica differenza è che in quest’ultimo il ritmo è scandito secondo macro-strutture regolate da un accordo armonico socialmente prestabilito e, per questo, comprensibili e riconoscibili secondo un’estetica di reiterazione condivisa. Qui, il silenzio alla fine del verso diventa lo spazio necessario affinché l’organizzazione ritmica del verso emerga e si offra al giudizio estetico. Il fatto che nelle religioni tradizionali gli inni sacri siano espressi in versi è simbolicamente riconducibile a una forma di sacrificio rituale della parola: così come il sacrificio di esseri viventi si fonda sulla possibilità di disperdere il capitale materiale accumulato, il verso dell’inno sacro offre all’umano parlante la possibilità di tacere nella pausa tra un verso e l’altro proprio perché l’eloquio è la sua vocazione ontologica.
La parola umana, però, sebbene basata su una ritmica fonica, si differenzia dal verso degli animali per una sintassi dall’elevata densità simbolica. Nel parlare umano, quindi, al ritmo di suoni si affianca un ritmo di immagini atto a rappresentare referenti reali o fittizi. Un verso poetico deriva dalla combinazione di un’organizzazione fonica, socialmente negoziata, con una serie di immagini retta da una sintassi definita dalla grammatica della lingua in cui la poesia è espressa.
Il silenzio, quindi, è sia assenza di suoni che assenza di immagini, e la pausa alla fine del verso è un silenzio dalla duplice natura che, per via negativa, afferma i margini dello spazio ritmico e dello spazio sintattico. La funzione estetica di un verso, quindi, deriva dal rapporto tra ritmo e sintassi. Eppure, mentre il ritmo prosodico si differenzia dal ritmo del linguaggio piano in quanto organizzato in schemi di alternanza e ripetizione fissati da una convenzione condivisa, la sintassi che sorregge il ritmo di immagini è talmente libera che non solo può discostarsi sensibilmente dalla sintassi grammaticalmente corretta del discorso in prosa, ma può anche scavalcare la pausa alla fine del verso e giungere a compiutezza discreta nello spazio iniziale del verso successivo.
Il discorso in prosa, benché ritmato dall’articolazione fonetica e retto da una sintassi di immagini, a differenza del verso, non prevede la possibilità di scarto tra l’organizzazione ritmica dei suoni e una sintassi che può evadere dai confini della struttura prosodica.
La possibilità di enjambement, pertanto, è l’unica caratteristica formale in grado di sancire il discrimine tra prosa e poesia.
Alcuni sistemi letterari, come quello persiano, sebbene prevedano la possibilità di enjambement, vedono basato il proprio canone estetico su una relazione armonica tra ritmo prosodico e ritmo d’immagini, in cui quest’ultimo dovrebbe tendere corrispondere sintatticamente entro i confini del primo. Nonostante questa prescrizione, dettata dall’ideale estetico di una perfetta corrispondenza armonica tra l’espressione vocale e l’espressione semantica del modo con cui la parola rappresenta il mondo, l’enjambement, seppure considerato anti-estetico, è comunque ammissibile. Il fatto che i trattati classici considerino l’enjambement accettabile ma al contempo esteticamente riprovevole, situa l’enjambement ai margini del poetico, in uno spazio in cui il darsi del discorso poetico si afferma indipendentemente dal giudizio estetico.
Pensare alla poesia come testo contraddistinto dalla presenza di enjambements, quindi, può aiutarci a sviluppare una teoria del discorso poetico in modo indipendente dal giudizio estetico e quindi indipendentemente dalle contingenze storico-letterarie.
Per ragioni di diversa natura, l’enjambement, sebbene considerato legittimo, è esteticamente mal tollerato dallo sguardo degli antichi, mentre, in virtù della sua capacità di denunciare la presenza di una critica frattura ontologica tra le parole e le cose, riveste un ruolo di primo piano nelle poetiche moderne e tardo-moderne.
Sebbene anche oggi, i pochi sostenitori del recupero delle forme ritmiche classiche asseriscano che la prosodia deve farsi discrimine tra ciò che è poetico e ciò che non lo è, in realtà tale posizione è figlia di un anacronismo culturale che non tiene conto delle specificità estetiche del nostro tempo.
Rima e metro, infatti, sebbene oggi possano essere legittimamente utilizzati, ormai non possono più farsi discrimine teorico sul discorso poetico perché è venuto a mancare quel contratto sociale che rende necessaria la presenza di forme del ritmo legittimate da un canone letterario condiviso. Per quanto ci si possa dolere e struggere per la mancanza di un canone al quale aderire, questa è la situazione attuale di un processo cominciato con la modernità e portato dalla post-modernità alle sue estreme conseguenze.
Criticare o accettare questa situazione ormai consolidatasi nel corso delle ultime cinque generazioni non porta nulla. Piuttosto, sarebbe bene interrogarsi sulle possibilità espressive di questa a-ritmia che ci parla e riflettere in modo critico su dove situare il discrimine tra poesia e non-poesia.
La percezione diffusa del tramonto del post-moderno e del progressivo abbandono degli eccessi neo-avanguardistici, basati su un atteggiamento disforico nei confronti del mondo e della lingua, si riflette in buona parte delle poetiche praticate dai poeti italiani che oggi hanno tra i venti e i trenta anni.
Essi, orfani di padri, e figli di un autoritarismo culturale privo di autorevolezza, sono cresciuti in un’epoca di benessere economico contraddistinta dal tramonto definitivo di valori e ideali universalmente condivisibili. Sono forse la prima generazione priva di ideologie, religione e certezze sulle quali costruire un progetto per il futuro.
I loro genitori tanto hanno minato le basi di un’etica del linguaggio e dell’amore per il mondo nel fallimento della costruzione di una società civile, che adesso la loro voce emerge da una tabula rasa che consente loro di prendere le distanza dal cinismo e, allo stesso tempo, di riflettere su sentimento e significazione senza sentimentalismo e aridi artificialismi. La loro poesia, per quanto diversificata da una ricchezza di possibilità espressive, si configura con la ricerca costante di un focolare all’interno di questo deserto-mondo che hanno ereditato e sul quale – vizio degli anziani dal seme sterile – hanno poca facoltà decisionale.
È per questo motivo che, nella tabula rasa di questo tempo, chi fa poesia può godere della libertà di riflettere sul fatto poetico senza più il costrittivo laccio ideologico che tanto ha soffocato e inaridito le ultime generazioni.
L’indipendenza intellettuale e l’apertura mentale dei ventenni di oggi è tale da permettere loro di pervenire a un concetto di libertà letteraria, politica e sociale totalmente nuovo e libero dalle macchinazioni spasmodiche del falso libertarismo tardo-novecentesco, che troppo spesso ha chiamato libertà quello che non era altro che l’abbandono di una riflessione etica.
Questa rinnovata liberà letteraria, però, per essere praticata ha bisogno di un accordo su ciò che è poesia, soprattutto perché negli ultimi decenni ci è stato detto che tutto e poesia e che, in fondo, nulla è poesia. Se questo non è il tempo del ritorno alle forme tradizionali, risulta comunque necessario tornare alla riflessione sulla forma.
E di natura formale del discrimine tra poetico e non-poetico bisogna parlare al fine di assecondare questo bisogno di comunicazione, scoperta e ricostruzione del focolare perduto. Credo che, a questo punto, definire la poesia come discorso in versi, indipendentemente dal loro contenuto e della loro natura ritmica (quindi parleremmo di poesia unicamente come discorso in cui l’enjambement, scarto tra il ritmo dei suoni e il ritmo delle immagini, è possibile) sia ormai il necessario grado zero di una riflessione che intenda accogliere numerose tendenze estetiche pur mantenendo saldi i termini minimi di un accordo etico.
Onesta, quindi, potrà essere considerata la teoria che fa del verso l’unico discrimine necessario, a partire dal quale la pratica poetica e l’elaborazione di giudizi estetici potranno consolidarsi in una forma di attenzione e rispetto nei confronti del linguaggio e del mondo.
In un’epoca dominata dal rumore del flusso incessante di informazioni e sollecitazioni sensoriali mediate, concepire la poesia come discorso basato sul verso, e quindi sulla possibilità del salto incarnato dall’enjambement, significa giungere a un riflessione sulla differenza tra voce e silenzio. Se è vero che il silenzio alla fine del verso definisce ex-negativo il ritmo di immagini e di suoni veicolati dal verso stesso, risulta estremamente importante rispettare questo spazio bianco e pervenire alla riflessione sul rapporto tra verso e verso, tra voce e sintassi E, infine, tra testo e mondo, soprattutto nel luogo drammatico in cui l’ultimo verso giunge alla fine e il mondo ricomincia.
Solo qui, credo, sperimentata l’angustia, ci nutriremo dell’attenzione necessaria per praticare gli spazi aperti.
Francesco Terzago
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1 Comment

  • Gentile Domenico,
    mi compiaccio molto di questo tuo intervento. Sono molto lieto che tu abbia alzato un vessillo di “ri-costruzione della forma”.
    Inoltre, incontri pienamente le mie riflessioni.

    Insomma, dopo l’esperienza del postmoderno la Parola che ruolo può ancora avere? Può ancora Ordinare il Caos di Babele? O siamo destinati a un crollo inevitabile?
    Il Verbo è uno strumento potentissimo e, soprattutto, uno strumento di ricostruzione e non di distruzione, una potenza ordinatrice: una lente d’ingrandimento che svela grammatiche anche nel caos.
    Le Parole non sono i luoghi della negazione, ma della possibilità. Non sono occasioni, ma verità.
    In fondo, e per fortuna, si tornano a dire sempre le stesse eterne cose, e la Parola non smette di esercitare la sua magia e la sua potenza. Cambiano i termini e i tempi, i Libri e gli orientamenti, i sistemi e le equazioni…
    ma la direttrice resta sempre la stessa e ruota vorticosamente intorno alla medesima immensa domanda: chi siamo?

    Ho apprezzato molto le Poesie Mistiche di Rumi, e le ho considerate come un testimone, un antenna metafisica, che abbiamo il dovere di cogliere.

    Ma non credo c’entri molto il berlusconismo (che è un’idea molto aleatoria e imprecisa), né tanto meno c’entra il bisogno di essere “moderni”. Perché viziare in questa maniera una discussione tanto urgente e fondamentale?

    Sono discorsi questi dai quali criticamente non si esce con facilità.
    Ho cercato di dare le mie risposte poeticamente, qui:
    > http://issuu.com/www.riccardoraimondo.com/docs/chiederci_la_parola

    Sperando di non fare cosa sgradita,
    con i miei migliori pensieri

    Riccardo

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