Stefano Guglielmin: ‘C’è bufera dentro la madre’

 

C’è bufera dentro la madre

Stefano Guglielmin

2010, pag. 55 brossura

L’Arcolaio (Collana: I codici del ‘900)

 

(di Roberto Cogo, “Atelier”, n.59, pp.169-171)

Questo è un libro che segna una svolta nel percorso poetico di Stefano Guglielmin — sotto il profilo dello stile e del tono, così come nel modo di trattare argomenti che sono, del resto, già acquisiti e consueti per l’autore di Schio, in particolare, l’osservazione accurata e impietosa dei costumi dei suoi conterranei, frazione di quel nordest d’Italia divenuto negli ultimi decenni tanto rilevante sotto il profilo socio-economico, e non solo. Se per pamphlet intendiamo un opuscolo di carattere polemico o satirico rivolto a porre in risalto le consuetudini, solitamente negative, di persone, gruppi di persone o altro, ecco che una definizione allargata come quello di pamphlet poetico o libello in versi potrebbe calzare bene a questa nuova proposta delle edizioni L’arcolaio di Gian Franco Fabbri — divenute, nel giro di pochi anni, un punto di riferimento importante nel panorama poetico nazionale.

Con C’è bufera dentro la madre, in effetti, Guglielmin seziona un modello di vita e una determinata categoria di persone con un tono misto tra ironia, parodia e sarcasmo, puntando esplicitamente il dito contro una società che, in sostanza, accetta e promuove un tale modello di vita. Tutto questo però, si badi bene, senza mai dimenticare di voler essere poesia e, pertanto, accentuando, come vedremo, l’attenzione alla parola nelle sue diverse componenti sia semantiche che formali — una ricerca che si muove con originalità sul crinale tra i due versanti della lingua, tra significato e significante, e che Guglielmin porta avanti assiduamente fin dalle sue prime pubblicazioni. Le novità (rispetto alle opere precedenti ma anche riguardo agli attuali sviluppi della poesia italiana) stanno, a mio parere, in un afflato ‘civile’ tenuto a freno da una solida indagine sulle strutture formali interne al linguaggio, il tutto abilmente miscelato da uno spiazzante spaesamento provocato dall’uso di un vocabolario misto e oscillante tra colto, tecnico e popolare.

seduto sul suv squadra la sera. là dove la fabbrica chiude.
c’infila denari in quella diletta cruna e, di rado, un larvale
tormento: sugo di famiglia perbene, pensa, pasta contadina.
ci passa il pane, allora, l’asciuga. prepara la pista
ai quaranta ladroni.

L’utilizzo delle cinquine di versi (perlopiù lunghi e fuori-misura rispetto alla tradizione) in sequenze numerate (da uno a trentanove) rende subito l’idea di un incedere cronachistico, anche per l’aspetto simile ai trafiletti di un giornale. Inoltre, il montaggio e la concatenazione delle cinquine evidenzia la continuazione e lo sviluppo di un determinato soggetto o, meglio, i singoli aspetti di una bufera in corso, con le avvisaglie evidenti di un conseguente naufragio. La madre (identificabile, di volta in volta, col Veneto e il nord-est leghista, ma anche con l’Italia e, perché no, con l’Europa di banche e finanziarie, tutti impegnati, con modalità diverse, ad attuare tra loro ammiccanti compromessi di comodo per biechi motivi di opportunismo politico-economico), questa madre, si diceva, al momento storico attuale, pare irrimediabilmente precipitata nel pericolo di una ‘cattiva situazione meteorologica’, spingendosi fino all’introiezione e assunzione, evidenziata dal titolo. Il tam-tam di fondo a tutta l’opera ci avvisa di una sofferta indignazione, come conseguenza di un sentito rispettoso attaccamento alla propria terra, da parte della voce poetante di un autore che, nonostante tutto, ha accettato di continuare a vivere nei luoghi della propria origine — per quel misto di scelta e di circostanza che tutti sappiamo.

anche se vuota, la fabbrica pulsa. un affetto sconsolato
gli tocca la tasca, a vederla.
padania, dice, è parola di falce
e valigia. cosa migrante. se dunque togli il foresto, aggiunge
resta un pieno di salute pura in città, un callo dove l’arido
abbaglia.

Altro segno visibile di continuità con le opere precedenti di Gugliemin, sia poetiche che critico-letterarie, è la messa a nudo e la riflessione severa intorno all’io — quello fagocitante e tronfio degli esseri umani che considerano se stessi al di sopra delle cose e delle altre creature del pianeta, agendo e comportandosi di conseguenza. Ecco pertanto risaltare, in questa poesia aspra e apparentemente impersonale, l’immagine evidente di uno stile di vita rapace e arrogante, mosso principalmente dall’accumulo e dalla ricerca di potere — nelle sue diverse forme e nei diversi ambiti, sia quello ristretto alla cerchia familiare che quello rivolto alla società in genere.

io, dice, ma intende quel proprio suo gettato di fuori
l’insieme dei motivi stretti in vita, sui quali regola il canto.
quando d’autunno siede sul limo, il lago dentro si muove
e così i piombi con cui pesca la quiete. d’estate, invece
doma murene e forze piene di spine.

In un tale contesto, dove tende inevitabilmente a prevalere l’ostile di un modo poetico diretto e crudo, fanno all’improvviso la loro comparsa momenti di ‘poesia vera’ (vale a dire, quando la parola si libera finalmente da referenze e riverenze, da costrizioni e illusioni), miranti ad indicare e risaltare, nonostante tutto, la bellezza che si nasconde tra le pieghe del reale e che il poeta non può ignorare o, meglio, non può fare a meno di scorgere e considerare. Ecco, pertanto, mirabili corolle di fiori dai colori inconsueti spuntare perfino tra gli ambiti più sordidi di una quotidianità in cui il degrado — fisico, morale, ambientale — si rende evidentissimo, almeno a chi è in grado di volerlo o saperlo vedere, così che i contrasti e i chiaroscuri si tramutano in elementi fondanti del vivere e dell’agire ordinario.

la natura gli cammina sulla pancia, si fa largo fra i pronomi
quando dice
mio, tuo e degli amici tutti, seduti sul suo pane.
talvolta, mosso dal ramo, sborsa la mancia o adotta da lontano.
meglio se femmina, chiaro: già la vede turista giovinetta
col sedere tondo e fuori, persa nel suo letto.

Anche per Walt Whitman i fiori più belli crescono dallo sterco e dalle corruzioni, ed ecco che lo sguardo del poeta tende alle lontananze dove poter scorgere e indicare quei bagliori di vita vera che, per Rimbaud, rappresentavano le potenzialità effettive tenute solo in riserva dalla società del suo tempo — non meno degradata e degradante della nostra attuale e tantomeno repressiva e intollerante. Mettere in luce queste potenzialità, magari a malapena intravviste, per provare ad uscire dalla presa ferrea del meschino reale che tiene inchiodate a terra le nostre virtuali energie di cambiamento ecco, a mio avviso, cosa sprigiona e a cosa si rivolge una poesia apparentemente disincantata o disillusa come quella che Guglielmin ci presenta al sorgere di questo nuovo millennio pieno (probabilmente come il precedente) di incognite e di incertezze sul futuro degli uomini e del fragile e martoriato pianeta di cui siamo parte. Al momento, però, non è offerta alcuna possibilità a quello che potrebbe essere. Arte e cervello sono rimasti, come per l’Astolfo ariostesco, ben lontani, confinati sulla luna, così che le varie frasi ipotetiche non trovano risoluzione e nessuna conseguenza è data a tutti i possibili se.

se dalla luna, lui, portasse indietro un grammo di ragione
o il suo lume. se studiasse i modi finiti e infiniti di spinoza
e vi scavasse dentro una pozza di vita vera. se insabbiasse
il perno che lo lega alla pancia del denaro. se ogni tanto
si girasse come l’angelo di klee. se inorridisse.

In fondo, l’evidente anti-romanticismo, così come il rigetto di ogni frangia di partecipazione sentimentale a questo quadro d’insieme così sconfortante, sommati a un quasi totale abbandono di ogni forma conosciuta di lirismo — nell’evidenza di una scelta strutturale e di versificazione tra cronachistico e prosastico — sembra racchiudere e proiettare (e qui mi ripeto), nonostante tutto, i barlumi di una non sopita tensione verso un futuro non meglio definito. Possiamo, forse, chiamarlo un accenno di speranza mai del tutto spenta? Un desiderio di miglioramento e un rivolgersi verso mondi ancora da costruire? Mondi di sicuro lontanissimi da quello così impietosamente dipinto nella nuova raccolta di Stefano Guglielmin, che non può non ravvisarne le bassezze, denunciarne gli abusi e additarne le possibili e probabili conseguenze anche sulle generazioni a venire.

anche suo figlio impara. tasta la lingua del multimedia
da quando era bulbo. bulbo o seme di grande albero stecco.
dice grazie a tempo, poi dimentica. e vuole il resto
che è spicciolo, da convertire in polpa. pare che preghi
ed invece contratta, come suo padre.

Concluderei questa mia breve analisi con la seguente citazione da tratta da un celebre saggio di Yves Bonnefoy su Rimbaud del 1961 (casualmente anche l’anno di nascita del nostro autore). Mi auguro che possa servire a illuminare ulteriormente sulla portata complessiva e la forza d’impatto vitale della bufera dell’autore scledense — Ma è qui che la Fenice della libertà, che delle speranze bruciate fa il proprio corpo, viene a battere l’aria con le sue nuove ali.

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