«[…] il corpo del XX secolo tende a essere il più longevo e il più medicalizzato di tutti i tempi» (Angela Vettese, Dal corpo chiuso al corpo diffuso, in AA.VV., Arte contemporanea. Le ricerche internazionali dalla fine degli anni’50 a oggi, Electa, Milano 2003, pp. 188-221: p. 192). Non proprio tutti i corpi: il nostro. Non tutto il mondo, ma qui. E così cambia, per noi e qui, la riproduzione della specie: il numero dei nati diminuisce, per la minore necessità di sostituire i morti. E cambia anche la pubblicizzazione della sessualità: il corpo longevo e medicalizzato ha bisogno della pornografia (a pagamento, come tutte le merci di cui si circonda) e della libertà sessuale. Quindi il concetto di famiglia ne viene intaccato, da una parte; e dall’altra, subisce un’eloquenza troppo ostentata per essere sincera.
2.
I nuovi stili sono legati alla risistemazione dei concetti di vita e di morte, per ogni corpo e «frate asino» che si asciuga o ingrassa, qui. Non vedere il legame sarà deleterio, per alcuni: il loro umanesimo resterà sempre sul piano delle lettere, perché lo scrittore scrive. Lo dice anche la parola, no? Ma questo non basta più. In Italia, non aver capìto la prossimità e la necessità storica della Decadenza significa ostinarsi ad agire sul piano del piccolo io italofono e della piccola patria: come se una pietra scagliata potesse non cadere.
Ora, o la nostra poesia è talmente inumana da non vedersi coinvolta nel processo – che lega la durata dei corpi alla loro morale – o dovrà prendere posizione sul problema della vita e delle vite. Non necessariamente con l’impegno o la denuncia, ma anche con la felicità religiosa della Gelassenheit: purché i gesti politici e l’assenza mistica di gesti siano in funzione di una presa d’atto, almeno per decoro, o per scrupolo.
3.
La vecchia etnia italiana è bianca, formalmente cattolica, italofona a partire da una base prima dialettale e poi televisiva. I vecchi credenti stanno per essere sostituiti da un’etnia di etnie, extracomunitarie e/o extraeuropee, non necessariamente cattoliche, non bianche. Questo popolo futuro è già, grosso modo, italofono (e lo sarà sempre meglio) e già radicato nel sistema della produzione e circolazione della ricchezza. Questo popolo dovrà essere scolarizzato perpetuando le categorie italiane o no? E la sua letteratura, formalmente italofona, avrà o non avrà a che fare con le stesse categorie?
Il meglio e l’utile, in letteratura, saranno tramandati dal vecchio al nuovo popolo. Il resto naufragherà, come è, anche moralmente, giusto. Come sopra: o la nostra poesia è talmente inumana da non considerarsi coinvolta in questo processo – che lega la storia dei corpi alla loro civiltà – o dovrà prendere posizione: non necessariamente con l’impegno o la denuncia, ecc.
4.
La comunità poetica italiana continua ad agire come se avessero senso e dignità cose diverse dai corpi e dal tempo (i corpi sono i veri parlanti, e il tempo è tempo anche per le lingue, oltre che per i corpi). Ma la poesia non deve trasformarsi, per senso di colpa, in un registro obbediente dell’invecchiamento, della sostituzione etnica e della sopravvivenza del vecchio nel nuovo. Il suo corpo ha il dovere della mediazione e dell’indipendenza: per ora è virtuale, dunque immortale, e deve diventare virtuoso.
Oggi la maggior parte del suo lavoro consiste nel non scendere a patti con chi vuole coinvolgerla in dualismi che saranno mortali e vani: come chi li ha fomentati, confondendo uno struggle for life più che provinciale con un’esigenza artistica. Così il gioco del massacro tramonterà, senza troppi lamenti. La sua fine sarà contemporanea alla fine dei suoi parlanti e dei loro frigoriferi.
5.
Rispetto alle categorie di prima, e a schemi sterili dal cambiamento oggettivo del mondo, ci saranno altre vie: qualcosa che si installa, pietrificandosi e riconoscendo la propria deperibilità. Ciò che si brucia hic et nunc, e guadagna ora il suo piccolo pubblico di clientes (tali sono) muore, già morto, e non vive: neanche nella sua piccola patria-lingua. La roba lo segue.
(La foto è di Massimo Sannelli)