Lucetta Frisa: ‘Ritorno alla spiaggia’

 

 Ritorno alla spiaggia

Lucetta Frisa

2009, 67 p., brossura

La Vita Felice (collana Sguardi)


[…] Il luogo del titolo, cui vuole ritornare l’autrice, quindi, è da intendesi come una sorta di “patria” (interiore, originaria e ancestrale) e questo spiega perché Ritorno dalla spiaggia è il libro del nostos: un libro attraversato dalla lingua stessa da un duplice movimento, poiché c’è desiderio e insieme dolore…nel ritorno a casa come direbbero i Greci, per cui i versi sono ora lirici, ora più narrativi, a volte aforismatici quasi, altre realistici e quotidiani. Certamente nei versi di Frisa non c’è il tragico,né l’avventura, nel senso delle grandi imprese che hanno segnato i nostoi classici, bensì un percorso nel tempo attraverso le tappe di un dialogo pressante e insieme pacato con il tempo stesso, fatto attraverso luoghi e persone amate […] Ritorno alla spiaggia ci regala, dunque, una poesia che s’immerge nel tempo, ma senza farsi mai mero diario del vissuto, né elegiaca rammemorazione dell’infanzia e di ciò che si è perduto, ma ricerca del senso del vivere dentro e attraverso la parola poetica stessa. L’approdo del nostos è trovato nei testi di questo libro, testi che accolgono la fragilità della vita e insieme dicono l’ansia d’infinito che eccede ogni esistenza. In Porta Rosa, l’ultima poesia della raccolta, si torna a un luogo simbolico e ancestrale: la grande porta cittadina dell’antica Elea (ora zona archeologica di Velia Antica), dove ci fu la scuola eleatica e insegnarono Parmenide e Zenone che è testimone di un sapere della soglia e, ascoltando le parole della poetessa stessa, intuiamo che il passato, lo scorrere del tempo, la sua fame che tutto annulla, si fronteggiano, si fondono e si superano solo in una lingua che sa la polvere da cui viene e sa la luce a cui tende. Solo nella lingua della poesia.

(Gabriela Fantato, Prefazione a Ritorno alla spiaggia, La Vita Felice, 2008)

“sfoglio distratta il libro dei salmi/ ascolto la loro ninnananna/ per frenare l’angoscia/ e ogni misteriosa agitazione”. Ninnananna: è una delle designazioni possibili di questi testi di Lucetta Frisa. È una definizione riduttiva o svalutativa? Assolutamente no. Per tre motivi.

  1.  Ninnananna come ode, fiaba, romanzo, poema epico, ecc. identifica un genere, non la qualità di un testo.
  2.  La ninnananna non è un genere meschino o marginale perché riguardi mamme e bimbi. Ci sono ninnenanne che sono meritoriamente considerate capolavori come il Wigenlied di Brahms.
  3.  Questi testi di Frisa non sono solo ninnenanne, per il loro stile formulare, la musica incantatoria che li pervade, ma sono anche trenodie, planh, invocazione/evocazione, progressione (nella vecchiaia)/regressione (nell’infanzia), racconto, elaborazione del lutto per la morte della madre, colloquio onirico, metamorfosi…

Come osserva Gabriela Fantato nella Prefazione: “La spiaggia a cui allude il titolo del libro di Lucetta Frisa non è certo un luogo reale, una precisa spiaggia cui tornare, ma luogo ancestrale dell’immaginario che richiama alcuni spazi simbolici: è il confine, la soglia tra terra e mare – dove il mare è Acqua dell’origine, uno degli Elementi Primi del mondo per gli antichi – ma è anche la casa, da intendersi non come ‘il nido pascoliano’ di riparo e fuga dal mondo, ma come universo iniziale, dove ci fu ‘la prima volta’, dove si sono strutturati il sentire e vedere del mondo”.

È un poema dei quattro elementi, terra acqua aria fuoco, polvere mare venti fuoco piccolo, rena casa respiro vuoto ustorio. Nella simbiosi madre/figlia, aldiqua/aldilà, scrivere vuol dire registrare la polvere che cade sulla superficie dei mobili e delle parole, sulla pelle della casa e dei ricordi, ma vuol dire anche spolverare, rilanciare il gesto di togliere la polvere, ripulire le cose e le parole, ri-nascere, ri-vivere: ”Forse spolverare è un atto duplice come quando si nasce/ e si comincia subito a svegliarsi o a dormire/ secondo i punti di vista./ Anche la gatta lecca i suoi gattini appena nati”.

Bastano le esperienze più semplici, più comuni, più quotidiane, a provocare il tuffo nell’oltre, nelle prefigurazioni post-mortem o nelle reminiscenze pre-natali: “Sono distesa a riva appena nata/ o appena prima di una bella morte/ su sfondo azzurro”.

I versi si snodano come un nastro di seta girato e fatto vibrare nell’aria, con volute ora ampie ora strette, al ritmo di una continua danza in cui si alternano e si fondono riflessioni, ricordi, premonizioni, annotazioni molto ravvicinate e realistiche del sentire del corpo. L’immenso è provocato dal minuscolo, come il dito di Adamo sfiorato da quello di Dio sulle volte della Cappella Sistina: “L’alluce proprio sul filo della schiuma/ tocca il regno del mare, l’infinito è/ proprio in quel punto d’alluce/ che rabbrividisce si ritira indugia/ entra”. Così l’elementare, fisiologico brivido di freddo penetra e si fissa in estasi palpitante, si trasforma nel brivido dell’infinito. In poco tempo, anche in un istante, ci si può smarrire come in un labirinto. È sulla spiaggia, in uno dei luoghi della luce par excellence, che si può precipitare in sé, piombare nel buio assoluto, semplicemente chiudendo gli occhi: “Chiudo le palpebre per entrare/ in me improvvisamente notturna/ non domandarmi dove sto andando/ sono luoghi di troppo buio”. Con poco, si può anche essere felici, per esempio con una nuotata andata/ritorno dalla boa. L’esperienza di chi giace sdraiato sulla spiaggia, non pensa a nulla, si può trasmutare in estasi polisensoriale, pulviscolare, imbevuta e oltrepassata dai suoni più disparati, come una spugna dall’acqua del mare. Come il testo stesso dice di sé, siamo immersi e cullati, trasportati da e attraverso: “Versi fatti dal mare/ metrica ininterrotta/ fluida/ stupita/ lasciata andare/ dal largo a riva/ e dalla riva al largo”.

(Rinaldo Caddeo, nota di lettura a Ritorno alla spiaggia. In «L’immaginazione», 257, settembre-ottobre 2010)

Il libro di Lucetta Frisa un ritorno che non è solo e semplicemente il viaggio della memoria verso ciò che è stato, ma un approssimarsi a qualcosa che esiste e chiama nella sua familiare alterità, un ossimoro di lontananza e di intimità, di estraneità e di appartenenza, tutto giocato in una sapiente varietà polifonica, in una partitura leggera e vibrante di toni diversi, con momenti ora lirici, ora narrativi, ora quasi aforismatici.
Ciò che sorprende e ammalia in questa scrittura poetica, che spesso tende ad un andamento poematico, volutamente variegato e frammentato, è proprio l’osmosi naturale (cioè per nulla costruita e cerebrale) ma sapiente, tra i temi affrontati ed il linguaggio adottato.

La presenza/assenza della madre è la stessa fluidità e ambivalenza della scrittura e del mare, superficie e profondità, parola e vita, ricordo che affiora e sparizione abissale.
Il richiamo alla figura della madre è infatti sempre doppio: da un lato segna l’origine, dall’altro la separazione, la quale non significa oblio, ma domanda. E nei versi di Lucetta Frisa appaiono spesso lampi interrogativi, domande improvvise dai toni quasi fiabeschi o infantili, che paradossalmente illuminano la pagina trasmettendo, al di là del loro candore o apparente ingenuità, un senso profondo di vertigine. Ad un movimento catabatico corrisponde spesso uno anabatico e viceversa: aria e terra, terra e aria, “fonemi inferi e ariosi” si alternano o si confondono laddove vengono meno le normali coordinate spazio-temporali.

Il ritorno alla spiaggia è determinato non solo dalla volontà di ri-conoscere, ma di conoscere ulteriormente;  non è approdo che pacifica o che consola, bensì necessità ontologica, ricerca di sé nell’Altro, disponibilità a ricordare il proprio sogno segreto e smarrito: “non ho che il mio sogno e non me lo ricordo/ oh il sogno che iniziò con te”.
È questa la sapienza della soglia, di cui parla Gabriela Fantato nella nota critica al volume: la zona liminare tra parola e silenzio, tra terra e mare, tra ciò che sappiamo o crediamo di sapere e ciò che è oltre, dentro o fuori di noi, quella dimensione ancestrale che tutto accumuna e diventa visione mitica: “In un certo attimo dicono che tra sera e notte/ si vedano di colpo tutte le isole/ tutti gli arcipelaghi e le sponde della terra/ ma senza luci e velature/ una massa informe dietro l’orizzonte/ o davanti”. La poesia di Lucetta Frisa ci porta in questo margine di luce e di ombra con una grazia rara, una levità quasi magica, nella consapevolezza che proprio su questa spiaggia, su questa linea di confine estremamente variabile e oscillante c’è “una materia ignota” che da sempre ci attende e ci chiama.

(Mauro Germani, nota a Ritorno alla spiaggia. In “Margo”, 5/3/2010)

[…] La collana Sguardi della Casa editrice milanese è diretta da Gabriela Fantato e occorre qui notarlo, per sottolinearne, in contrasto con tanta editoria frettolosa e distante, la cura e la rivendicazione delle scelte. La partecipazione e condivisione del libro si manifesta, in questo caso come in altri, anzitutto nell’intelligente nota introduttiva.
Come in tutti i testi di spessore, molti sono i livelli di fruizione: Gabriela Fantato legge questo libro soprattutto seguendo uno schema simbolico: la spiaggia come soglia tra terra e mare dove il mare è l’Acqua dell’origine, uno degli Elementi Primi del mondo degli antichi. Suggerimento suggestivo, dato che l’acqua è insieme simbolo di vita e di morte, di rinascita, simbolo materno, anzi amniotico, che precede ogni rapporto responsabile. A contatto con la mia sensibilità reagisce anche la forte dimensione sensoriale, tattile. Seguo gesti delle mani, movimenti del corpo, della schiena sulla sabbia, che restano indelebili. Nel poemetto Senza voce dove è la madre scomparsa a parlare, la volontà e le finalità artistiche di Lucetta sono enunciate per suo tramite: “Ai tuoi versi dicevi: statemi intorno/ fatemi caldo voglio il tepore/ la pelle l’odore/ e nessuna metafora nessuna/ finzione: da voi voglio/ realtà”.
La madre appunto. E’ un libro dedicato alla madre, non a una madre simbolica, una madre vera che al mare, sulla spiaggia, si sentiva ringiovanire. […] Una madre amata, laboriosa e ottimista: una vera madre, mi verrebbe da dire. Ridotta infine come la vita spesso riduce: regredita, svuotata, disperata, fino a sviluppare un impossibile desiderio di fuga, attraverso una magica porta. “Questa è tutta la mia casa – dici – e indichi il letto/ con le sbarre intorno. Fammi uscire di qui. Da un buco del pavimento/ dietro una mattonella/ si troverà una strada/ che fugge verso il porto…
Senso del tatto, il primo dei sensi a risvegliarsi con l’olfatto, mentre la vista e l’udito elaborano più lentamente le loro più complesse potenzialità. Quando Frisa afferma di essere la regina assoluta del piccolo, penso intenda questo, far seguire alle parole gli impulsi che vengono dai sensi più semplici, un frammento d’infanzia conservato intatto alla poesia. Questo è vero soprattutto nel primo poemetto: una lunghezza molto varia dei versi, inserti di prosa poetica e un volontario restringersi, un guardare all’indietro, alla ripetizione, al cerchio che torna su se stesso ingrandendosi di un giro come in quel lavoro all’uncinetto col quale la madre si rappresenta come parca di stessa. La voce vibra, oscilla, recita incipit di favole, il c’era una volta, che passa dalla fantasia alla realtà, perché tutto quanto c’era muta e si dissolve, scompare, alla vista, alla vita. Il bisogno che la figlia avverte ancora dolorosamente della madre, ci fa rivivere, invertito direi, il mito di Demetra e Proserpina. Lì era la madre impazzita di dolore a desiderare a qualsiasi costo il ritorno della figlia, qui la madre torna, nel già citato poemetto in cui parla in prima persona, con desiderio di essere sciolta dal legame, di vivere, per se stessa, come individuo: “Vorrei dirti che sono stanca / stanca di essere ancora tua madre…”. Il rimpianto che la figlia ha per il suo nome pronunciato dalle labbra di lei, il desiderio di udire ancora il richiamo materno è tema che torna più volte . Lo cito da 6 Luglio: “ma rimandami il nome – il mio – andato via insieme alla tua voce”. La presenza dell’uomo, come nel mito, riporta alla necessità di una separazione, anche se l’avvicinamento e la resa all’Altro, al maschile che impedisce il ricongiungimento nel ventre e nel sogno, avviene nella solarità, non nel sotterraneo inverno di Ade. Così in Spiaggia di Ariana: “Per la prima volta ho sognato mia madre / Aveva il prendisole bianco / le ho detto fai qualche passo / verso di me voglio fotografarti. / Nell’attimo dello scatto / tu mi hai svegliato”.
Non so se scrivendo questo libro, o alcune sue parti, Lucetta Frisa abbia avuto presente Ginsberg e il suo Kaddish non rituale, il suo laico pianto sulla madre morta. Lì certo c’era la presenza di una madre precocemente allontanatasi dalla realtà, madre giovane impazzita; qui in un modo diversamente tragico si tratta di una malattia della senescenza, ma in entrambi i casi colpiscono i lampi di disperata lucidità che il poeta-figlio sa cogliere nell’oggetto d’amore con l’ambivalente desiderio di liberarlo dalle catene della decadenza. In un contesto meno autobiografico, anzi totalmente trasferito in una fantasia che ha raffinatezze e echi rilkiani, il rimpianto del nome chiamato torna nel bellissimo poemetto Porta rosa che chiude il libro, anche formalmente molto distante da Gioia piccola che lo apre. Qui, in un verso compatto che non conosce rotture Lucetta Frisa delega i propri pensieri a un personaggio sconosciuto, una donna velata di nero, sperduta tra le rovine di Velia, una creatura che è uscita dalla tomba, incerta e spaesata ma pacata, benché segua le tracce di un ricordo che non corrisponde alla visione attuale di silenti rovine, e non trovi più la sua casa. I luoghi, le persone, i dati sensoriali della vita da viva, tornano lentamente al suo ricordo di antica trapassata, e tra tutti forte è quello della madre che la chiama per nome. Qui Lucetta Frisa definitivamente ha abdicato alla consegna di restare la bambina di “quella” madre, alla sua voluta, edenica e insieme dolorosa, condizione di regina assoluta del piccolo. Trasferendo su una creatura della sua invenzione il dolore, il senso di mancanza, dona alla poesia un valore oggettivo, ci dà testimonianza di un’alta elaborazione del lutto, ci fa ascoltare, in musica perfetta, un discorso severo e forte.

(Piera Mattei, Una Demetra in prendisole bianco, «Lucreziana», 28/6/2009, poi in «Pagine», anno XIX, 59, agosto-novembre 2009, pp. 43-44)

L’archetipo di sfondo è il mare estivo, con la sua bonaccia, la sua luce, la sua accoglienza in un’atmosfera di sospensione, levità, abbandono al divagare e all’ondeggiare.  L’archetipo che introduce la raccolta è la casa.  La casa è un archetipo forte: significa la propria personalità, il proprio IO, il centro esistenziale, emotivo, conscio e inconscio.  La casa che viene posseduta con titubanza, ancora nella sensazione dell’abbandono, del vuoto causato da una dipartita, quella della madre, che improvvisamente mette in risalto il senso di una presenza prima inconsciamente considerata come ovvia, un po’ come parte dell’inventario della casa.  Ora la casa è vuota, la protagonista prende possesso della sua vastità scoprendo una nuova solitudine, scoprendo pensieri che non sapeva di aver pensato ed emozioni che non aveva mai meditato.  Una casa percorsa da brezze, da brividi, da aliti d’estate, da voci chiare nel silenzio, da fantasmi buoni.

Lo scenario, il palcoscenico sul quale si svolge la maggior parte di questa rappresentazione poetica dell’Io assorbito nella sua serena e matura rielaborazione del lutto (che però è anche meditazione sulla morte e della morte come parte della vita) è la spiaggia, con la sua apertura, la sua luce.  E l’archetipo che riassume in sé la vicenda è ancora il mare, il suo mistero, la sua natura di origine e insieme di luogo di ogni fine, dove il tutto ritorna al tutto e si mescola col tutto pur conservando la sua identità di parte.

Ecco dunque gli elementi di campitura nel quale si muove la poesia di Ritorno alla spiaggia, una toccante (per la sua positività) raccolta di Lucetta Frisa che non esiterei a definire “sapienziale” perché non è soltanto una vicenda che si gioca nel passato presentificato, un ricordo che viene rivisitato, un personaggio (la madre) che non vive più ma che tuttavia si muove nelle liriche come presenza vivissima e si muove fra le righe anche quando non viene espressamente rievocata.  Lucetta in questa raccolta tenta il tema centrale, altissimo, del senso della vita in rapporto alla realtà della morte, allestendo con una serie di richiami a vicende simboliche e – come si è detto – con l’uso di archetipi fortissimi nel nostro inconscio, una rappresentazione pacificata del mors et vita duello.  Non più morte in contrasto con la vita, non più morte come distacco, frattura, nientificazione, ma morte come vita che vive in altro modo, che sorride in altro modo, che celebra i suoi riti in altro modo.

La tecnica usata è spesso quella del flashback, come si usa nel montaggio filmico: immagini che vengono proposte in sequenza significativa, come elementi di un linguaggio geroglifico.  Una tecnica che lascia molta libertà al lettore di richiamare la sua esperienza personale e filtrarla attraverso questi scenari, conducendolo in qualche modo a rivisitare temi suoi, a rivederli sotto questa luce di mare e di spiaggia, fuori dall’oppressione e dalla paura.

Il verso si snoda in una elegia piana e quasi discorsiva, senza la presenza di toni accorati o mesti, senza l’esibizione, il facile cedimento alla maniera della nostalgia o al pianto, senza icone logore di simboli del lutto o della tristezza.  Appare invece come un canto sottovoce, una melodia che viene cantata a bocca chiusa, nel silenzio della propria interiorità, nell’ascolto di quel silenzio.

Ecco perché questo libro commuove: proprio perché non si pone l’obiettivo di commuovere ma quello di incarnare la persona che scrive e un “tu” che non può più scrivere, i suoi sentimenti più veri, non esplicitati ma agiti nel racconto, nella rivisitazione delle immagini, nella ricostruzione delle scene; una poesia agita, più che parlata o scritta.

Ma qui siamo solo alle prime poesie del volume.  Soltanto alle prime tre.  La raccolta poi si volge in altre direzioni, sempre conservando l’orizzonte originario del mare con i suoi luminosi archetipi, addentrandosi in altri percorsi che non hanno a che fare con l’elaborazione del ricordo.  Ci vorrebbe molto spazio ancora per poter prendere in considerazione anche la restante parte del lavoro, ma lo fa già molto bene Gabriela Fantato nella sua prefazione, alla quale rimandiamo. È comunque seducente l’accomodamento del verso con l’ambientazione paesaggistica, con i ritmi della risacca, con le voci del mare.  Ma non andiamo oltre per non dilungare.

Bella prova dunque, che conferma Lucetta una delle voci chiare e forti della nostra poesia, soprattutto di questa poesia femminile che, io credo, sta proponendo in questi anni nomi di artiste di grande rilievo e soprattutto portatrici di importanti novità nella poetica contemporanea.

(Gianmario Lucini, Nota di lettura a Ritorno alla spiaggia, “Poiein”, 12/3/2010)

Un’idrografia dell’anima, un’epifania dell’archetipo materno: dopo Se fossimo immortali, uscito per le edizioni Joker nel 2006, (con postfazione di Mauro Ferrari) è questo il “ritorno alla spiaggia” di Lucetta Frisa, libro polifonico di domande che sembrano agglomerarsi in alcuni componimenti in particolare, spesso tendenti alla forma poematica. Un libro fatto di vento e di mare, dai quali sembra trarre la vocazione alla fluidità, all’immensamente inafferrabile: ”Versi fatti dal mare/ metrica ininterrotta/ fluida/ stupita/ lasciata andare / dal largo a riva/ e dalla riva al largo”. Un libro che, come il mare, ha la profondità degli abissi e la levità del “capriccio che ci ha afferrati”. Tale dimensione ancipite nasce dalla radice visionaria, declinata tuttavia in un dinamismo che ne garantisce l’effetto aereo. “Sento in me molte voci./ Un brusio allacciato al vuoto./ Siamo in tanti a pregare e a piangere./ Basta fermare il respiro all’orecchio”.

Lucetta Frisa sembra così dirci, con Lacan, che noi siamo gli altri: ma in Frisa accade qualcosa di ancora diverso, qualcosa che caratterizza in particolare questo suo libro: le voci si agglutinano nel silenzio della madre scomparsa e da lei tornano a diramarsi nella scrittura. Poiché, come scrive Alberto Cappi, “corpo dell’essere è il silenzio, sua epifania la voce”, questi rumori sono filtrati dal ricordo e giungono alla coscienza dell’autrice ormai eterei, senza più alcuna zavorra esistenziale a gravarli. La poesia “frattura il quotidiano in polvere”, dà “lezioni d’assoluto”, insegna la gioia come la madre insegnava l’arte paziente dell’uncinetto.

Se fin dall’inizio il libro è una parafrasi dell’omofonia franco-spagnola  mare/madre, vista dall’autrice come simbolica e quasi sinonimica, nel procedere della lettura l’analogia si arricchisce di un terzo prezioso elemento: l’identificazione fra madre e scrittura. Ad altri contrasti, ad altri dilemmi nella poesia di Frisa eravamo già avvezzi: primo fra tutti la capacità quasi miracolosa di risolvere la morte in fiaba, mantenendo intatti e fluttuanti i due estremi.  Si può dire che, in ogni fase della sua elaborazione, la poesia di Lucetta Frisa sia una sorta di anti-tragedia moderna. Ma in nessuna opera precedente questa operazione riesce ad esprimere il senso tragico della vita attraverso un codice approfondito e determinato; un codice che, come ha ben rilevato Gabriela Fantato nell’introduzione, si rivela essere quello della soglia. In Ritorno alla spiaggia vita e morte, avvio e commiato, leggerezza e destino non sono momenti antitetici: essi ci accompagnano senza sosta insieme, come ingredienti a sorpresa di una ricetta che non conosceremo mai del tutto, che possiamo soltanto provare a costruire per tentativi. Le voci servono ad accompagnare queste presenze in ogni momento, a costante rischio di scomparsa: proprio perché dal silenzio si staccano e prendono forma, in una zona liminare di senso in cui consiste il primo, elementare impulso alla poesia.

(Alessandra Paganardi, Nota di lettura per Ritorno alla spiaggia. In ”Vico Acitillo 124”, Poetry Wave)

Le più belle pagine del libro […] di Lucetta Frisa, Ritorno alla spiaggia, […] sono, a mio giudizio, i 123 versi del poemetto Un’isola, dove mi sembra si raggiunga, oserei dire “senza sensi di colpa”, l’autentica naturalezza dell’emotività di Frisa. Avverto persino l’idea di una felice caduta di colore, quasi che da questo si passi, in virtù di in ipotetico taglio di montaggio, a una proiezione narrativa in bianco e nero da film di gran classe.

“La notte sbarcare sull’isola è prendersi le mani/ per tenersi in equilibrio il porto dondola al buio/ sotto le raffiche l’occhio acuto di Donatella, la risata/ di Renato le voci forti e nuove e l’ala di Mercurio/ ci spinge avanti eccovi sani e salvi stasera non si vede niente/ è tutto allagato non c’è luce attenti dove mettete i piedi. […] Osserva il profilo del monte Epoméo/ è lo stesso profilo all’alba/ il profilo di tutto quanto abbiamo visto/ se conoscere un luogo è essere quel luogo/ e se il nostro senso di un luogo singolo/ è quel che sappiamo dell’universo,/ dimenticare/ è la nostra sapienza./… Improvviso l’angolo di una terrazza/il brusio di voci e bicchieri/ il vaso dipinto nel museo/[…]Quante nuove parole dovremo aggiungere/ all’energia dei sogni?/ […] In un certo attimo dicono che tra sera e notte/ si vedano di colpo tutte le isole/ tutti gli arcipelaghi e le sponde della terra/ ma senza luci e velature/ una massa informe dietro l’orizzonte/ o davanti”.

L’abilità registica di Frisa la si capisce fin dall’inizio della lettura del testo, lei tesse, dispone, aggiusta (e se è vero che sia così  per chiunque narri, il buon poeta rende più evidente ciò che desidera lo sia) persone, sentimenti e oggetti o quant’altro, dentro un filo espositivo, più che profondo. Riorganizza cioè molti elementi con modalità diversa da quella cui la poesia ci ha finora abituato: non in profondità, ma in una direzione rigorosamente orizzontale, lungo un’asse che però non schiaccia differenze temporali e spaziali, non azzera asperità, gerarchie, valori. È in questo senso che la sua nuova profondità – se in tale termine vogliamo impropriamente racchiudere il significato di  qualità alta di un testo – Lucetta la raggiunge  proprio nei punti di narrazione in cui prende le distanze diciamo dal sentimento forte. Insomma, essa non necessita, a mio giudizio, di un pathos profondo, fatto da mille teste (allorché il pensiero concettuale mima quello mitico),  per creare anima.  Frisa, a mio avviso, con tale orizzontalità coglie meglio quel paradigma dell’esperienza e della comunicazione passato-contemporaneità che si potrebbe nominare con la parola Complessità. Per questo, tale emozione necessita di elementi decorativi, in senso alto, e di un’accuratezza che striderebbe, dato il tema trattato nel libro, con un taglio di pura fisicità che a primo avviso potrebbe erroneamente sembrare più pertinente.

Ora questo processo di scarnificazione prevede, come resa poetica, un’affilata percezione di sé. Mi viene in mente […] la regia cinematografica di Antonioni che in un equilibrio asciutto sostiene il peso di quintali di esistenza, o altri film dove il colore persino danneggerebbe la compressione di passaggi emotivi ormai  talmente assestati, che un’ immissione di coloratura  sarebbe inutile. Non si può pensare di rendere più suggestivo il Gran Canyon con la presenza di echi.

Per dimostrare quanto dico, riporto un frammento del poemetto Poesia…, dove si legge: […]”che giunga/ un nuovo disordine dall’aldilà/ una nuova tradizione di baccante e anacoreta/-lezioni d’assoluto rimescolate in lingua animale/ […] tutti i miei fantasmi folli che danzano/ brividi sussurri musiche/ tra orrori colori strofe incantesimi un’orgia/ e cassetti a brandelli”.

Sono parole senza dubbio forti, ma sembrano gridate sott’acqua, la loro potenza è solamente lessicale, di tradizione cioè. Non costruiscono (neanche per l’autrice che chiede alla poesia, e non so quanto convintamene, un modo diverso di scrittura: se così sembra che esista)  un’alternativa in cui poter andare ad abitare, emozionalmente intendo, In poeti di minor levatura, si potrebbe parlare di equivoco di materia trattata, ma non è il caso di Frisa che “sbalza” in modo evidentemente necessario un tono di colore su un altro, per dar rilievo, io intendo, alla nitida tinta argento che è propriamente sua. Si può notare infatti la forza autentica e maggiore dei versi di Polvere.

“[…] Cominciamo dall’inizio: io, la casa e la polvere tutti i giorni./Non ho mai capito se spolverare sia evocare/condurre ieri qui davanti a me come un immutabile cristallo/ togliere via i miei secoli farmi dimenticata eternamente./ Sempre ho immaginato la polvere scendere di notte/ sopra il naso dei mobili su tutta la pelle della casa scendere/ al buio così non si può mandarla indietro./ Forse spolverare  è un atto duplice come quando si nasce/ e si comincia subito a svegliarsi o a dormire/ secondo i punti di vista”.

La scarnificazione di cui parlavo, che niente ha a che vedere con un qualsiasi sentimento religioso (per lo meno dichiarato) qui genera ogni parola, con niente di disordinato o fuori equilibrio, pur entrando Frisa in quel sentimento o ricordo profondo che sta all’origine dell’intero libro. Scarnificazione non come “riduzione-dopo”, insisto, bensì quale forza del proprio essere che spolvera, toglie, cioè essenzializza, dentro la metafora e fuori da essa quel che neppure sembra efficace a un suo reale modus vivendi. Come dire, volente o no, ci dà l’idea di uno sforzo di azzerare, per quanto le sia possibile, il passato per giungere a qualcosa di assolutamente autonomo, in cui, aggiungo, la scrittura non supera mai la propria semantica. Pur raffigurando il senso della perdita e anche della piccolezza umana, i suoi versi assumono un’aura di bellezza che elimina l’estasi tout court del sentimento e sfiora la sintesi della ragione. Cioè spezza le due facce della stessa medaglia, perché spazza via il concetto di possibilità illimitata presente nella sovraesposizione di tanta poesia iconografica, estetizzante, quale ingenuo o calcolato godimento di tutte le possibilità dell’intelletto.

Mi piacerebbe approfondire la polvere frisiana, che non è certo il pulviscolo che si genera ovunque e dovunque su qualunque cosa. A me sembra l’espressione, tradotta in limiti umani, di sedimentazioni geologiche che all’autrice danno una sorta di conforto, quale forza interiore di anonimato e durata. Questo spiegherebbe l’affanno di toglierla di mezzo e, allo stesso modo, di “sentirla” scendere di notte a comprimere gli strati del suo canyon- casa e contro la quale lei non può che agirci dentro nell’atto di toglierla, inglobando ella stessa, per ingoiamento, un senso di tempo lunghissimo. Desiderio, insisto, di eternità e perdita di memoria personale. Giacché l’eternità non si attua che così, con un’immersione, in questo caso tellurica, per annegamento del tempo personale.

(Cristina Annino, Dentro al canyon di Lucetta Frisa. In “Blanc de ta nuque”, di Stefano Guglielmin, 26/11/2009 e “La Clessidra”, anno XVI, n. 2, novembre 2010)

[…] Il motivo dell’identificazione di se stessa con le cose torna più avanti, in una sintesi fulminante, dall’esistenza prenatale fino ad oltre la morte della madre; ora la fusione non è più con gli oggetti o l’ambiente, ma con l’essere che è più vicino ad ognuno di noi, e quindi, per antonomasia, con tutti gli esseri umani – noi e l’altro da noi, il fuori e il dentro: “Dentro di te ho saputo/ lo splendore di non capire e di essere/ la gioia del respiro e del sonno./ Questo non lo seppellirò con le tue ossa / Se scorre nel mio corpo/ scorrerà fino alla fine/ perché tu viva ancora un po’./ Nulla di te deve andare perduto. Nel giorno del suo compleanno, la madre morta continua a vivere nella stessa spiaggia: “Fuori di te/ nel mio corpo continui a vivere/ e nella sabbia smossa dai bambini”.

Poi ci sono altre spiagge, altri mari, e isole: Ischia, la spiaggia dell’Ariana, e si torna a Genova; inoltre, da lontano, si vede o immagina Lisbona e l’Atlantico, oltre ancora l’America, finché avviene il miracolo […] In tutti questi luoghi, l’anima di Lucetta rievoca il tempo e insieme vive fuori dal tempo, osserva i fenomeni della vita con occhi spalancati e contemporaneamente sembra volersi abituare alla morte come ad una compagna di cammino. […] Ma l’esercizio della morte non impedisce ai versi di questa raccolta di essere impregnati da una luce particolare: emanata dalle ore del giorno, dal cielo, dall’acqua, dalle stagioni, pervade anche gli interni, le stanze, gli specchi, e fa tutt’uno con quella “gioia piccola” che deriva dall’insegnamento materno. “Oh la bellezza/ nessuna macchia/ siamo belli e chiari anche noi/ accecati da lei che ci punge le pupille/ con un bruscolo nero”.

Dalla luce si torna al buio della morte, ma non c’è contrasto, gli opposti si toccano o forse sono pura umana illusione: “Se nel corpo c’è limite e sconfinamento/ arriverà il momento d’incontrarci e sparire/ nel fiato/ che esita/ poco più avanti a no”.

Elemento intermedio fra la luce ed il buio è la polvere, che si insinua nel giorno e nasce, forse, di notte: “Volevo scrivere un poema sulla polvere come un’immensa spolveratura/ mi avrebbe lasciato più quieta forse un po’ meno ansiosa ma quando/ si parte dal grande non si raggiunge nulla neppure/ una sillaba bisbigliata./ Cominciamo dall’inizio: io, la casa e la polvere – tutti i giorni”.

La polvere ritorna in Porta rosa, evocata da una defunta antica che torna alla ricerca della sua casa, piegando i muri con la sua voce, e si sofferma indecisa sulla soglia fra i due mondi: “La luce – questa – potrà soccorrermi? Il suo respiro/ ha traversato le parole dei saggi. Sento/ il suo fuoco leggero bruciare il mio velo nero.…./ Mi affido per sempre alla sua polvere”.

Qui finisce l’elegia della luce, del buio e della polvere.

Marina Racanelli, Nota di lettura a Ritorno alla spiaggia. In “VDBD”, 10/9/2009

La letteratura e la vita, la malattia e la cura. Essere sospesi tra queste due entità, senza sapere mai, per fortuna, quale sia l’una e quale l’altra: se sia più folle scrivere o vivere, sognare o dare fiato al respiro dirigendo il passo verso qualche luogo. La poesia di Ritorno alla spiaggia di Lucetta Frisa è tutto questo: un caleidoscopio di rimandi, intrecciati e avviluppati, tra citazioni, osservazioni del mondo e dell’animo umano, escursioni nei meandri bui e nei sentieri assolati della mente. Le pagine di questo libro sono solcate da un verso magmatico, eppure nitido, un’esondazione di sensazioni racchiuse con metodo, con la pazienza e l’energia della passione, in torrenti paralleli di fuoco, acqua e terra.

La spiaggia a cui allude il titolo, è di certo, come rileva opportunamente Gabriela Fantato nella prefazione, luogo immaginario, ideale. Probabilmente è la coscienza, la memoria, o qualche altra dimensione incerta e imprescindibile. L’autrice sembra muoversi per ondate concentriche, o, meglio, seguendo gli impulsi opposti dell’attrazione e della repulsione, la riflessione e l’oblio. È come se ad ogni pensiero cupo si opponesse la lievità, e ad ogni disciplinata marcia verso la logica del rientro tra le mura della cognizione del dolore si sovrapponesse, con uguale forza, la voglia di fuga. Tra questi fertili paradossi si muovono i versi, a volte secchi, brevi come sospiri, altre volte lunghi, come pensieri che abbracciano ipotesi di orizzonti, o come risa che scacciano, con la forza della follia vitale, la follia tetra della morte.
Il libro è una lunga “Passeggiata”, per citare il titolo della sezione conclusiva. E nel viaggio Lucetta Frisa incontra ed evoca tutto ciò che le sta a cuore, ciò che occupa lo spazio della ragione e delle emozioni: la dimensione familiare, innanzitutto, la necessità delle radici, il filo, l’uncinetto e le mani della madre, ma anche il mare, mistero di prospettive di cui non si percepisce la fine e sguardi estranei che scombussolano rotte e confini. Non resta altro, allora, sembra indicare l’autrice, che mettersi in cammino, portando con sé l’ironia salvifica dell’ossimoro, quello che logora dentro ma consente di schivare i colpi e sfuggire alla sbarre di una logica sociale che non di rado è la forma più aspra di pazzia. Si parte, quindi, portando con sé la consistenza di ciò che sa essere saldo, gli affetti autentici, e il bagaglio incorporeo ma fondamentale degli affetti, ossigeno prezioso: le parole degli autori più amati, conservate nella memoria, attraversate giorno per giorno fino a renderle pietra e sentiero, parte integrante della strada. Autori di varie epoche e diversi idiomi: Wallace Stevens, Bernard Noël, Louise Glück, Josep Maria Lopez-Picò, tra gli altri. Versi proposti nelle lingue originali o tradotti, resi in ogni caso propri, interiorizzati, rubando, come suggeriva Eliot, non prendendo a prestito. Perché un tale furto è un atto di paradossale ma autentica condivisione e generosità, necessità di simbiosi.
Questo viaggio con il bagaglio delle parole conduce lontano dal dolore e dalla morte e rende la speranza della gioia un luogo quasi concreto, una spiaggia su cui si sogna di poter tornare. Un luogo dove non arrivano voci perché “il battito marino/ impone il suo silenzio”. Ma anche un luogo dove l’autrice può rivelare “Sento in me molte voci/ un brusio allacciato al vuoto”.

Il dono, in quel brusio vasto e complesso, è la consapevolezza della sorpresa: la meraviglia dell’individuare, dentro di sé, la vita, lieve e inafferrabile, ancora viva, presente, da qualche parte, nel profondo, capace di stupire se stessa: “Una bambina mi porge una palla/ scappa via./ Resto con quel dono tra le mani./ Oh se così fosse tutto/ in questo orizzonte chiaro come la visione/ prima e dopo la parola”. Il tempo non è più lo stesso, come il verso, l’atto dello scrivere, il pensare la forma della vita sapendo che non possiede forma se non nel fluire, allentandosi e ritornando ad un punto di partenza che è l’uomo, l’immagine che l’esistenza crea di sé, ingannevole e autentica, astratta e concreta.  Rimane, alla fine, anche in questo libro, il succo prezioso del tempo, il veleno e la cura, la realtà e la poesia: l’attimo in cui si percepisce, o si sogna di percepire, una traiettoria, i segmenti che si uniscono e formano una retta, una cammino percorribile: “Anche settembre è finito/ e lo stabilimento chiude./ Ma il mare lo lascia aperto/ l’Ignazio che ripone le sdraio/ e non ascolta nessuno/ si è infilato un maglione/ guardato l’orologio/ spento, tranquillo, il sigaro”.

(Ivano Mugnaini, nota di lettura a Ritorno alla spiaggia. In La dimora del tempo sospeso”, 19/6/ 2010 e in Punto-almanacco della poesia italiana, n. 1, 2011)

Chiedi alla polvere! Il Ritorno alla spiaggia di Lucetta Frisa apre e chiude il suo cerchio nel segno della potente immagine-metafora della polvere. Quella stessa polvere che “scende di notte” (nel poemetto Gioia piccola) minacciosa come lo scorrere di un tempo di clessidra e che, sublimata per via alchemica, diventa il residuo di un “fuoco leggero”, quella stessa polvere, dicevo, sigilla la magnifica sequenza finale del libro.

Dice bene Gabriela Fantato, in prefazione, quando avverte come  quanto per Frisa la ricerca poetica sia vicina (molto vicina e speculare, vorrei aggiungere) a quella alchemica. Così, anche il buio, ricorrente nei versi che richiamano il processo fotografico (procedimento di specchi e  miraggi e  menzogne…), anche il buio della camera oscura, in Spiaggia dell’Ariana, è lì, per indicare, o almeno richiamare, il nero sapiente dell’opus.

Si cerca la luce, sia pure quella minima, quello spiraglio che filtra dalle “fessure delle imposte”, poiché nella luce, che preesiste alle immagini, si coglie l’idea grandiosa di uno “sguardo senza di noi”, uno sguardo che ci supera in chiarezze e che, in poesia, chiede di diventare visione. “Prima e dopo la parola”. È una luce impersonale, parziale, incontaminata, “sulle mie spalle e sulle bottiglie in fila/ davanti a me sul viso del barista/ e di sua figlia dagli occhi cattivi/ su quelli vuoti dei tossici delle vecchie sfatte/ e sulla mia tazzina la stessa luce”. La stessa luce. Una luce di poesia animata da trasalimenti e visioni. Luogo di slittamento dove sfumano l’uno nell’altro il reale e l’immaginario, il vissuto e il sognato. Luogo di rêveries o, per dirla con l’espressione felice di Attilio Sartori, “visione ipnagogica”. È una poesia, questa di Lucetta Frisa, che permette di far incontrare una situazione attuale, concretissima (un pacco di vestiti, lo sfondo marino, un armadio, una cabina balneare…) con ciò che rimane sospeso come fuori dal tempo, e così ritrova il presente in ogni passato, senza schiacciarli l’uno sull’altro. Un’arte della leggerezza. Penso intanto allo struggente canto e controcanto delle due poesie che hanno come tema il colloquio interiore con la madre. Una madre evocata nel ricordo sgranato che illumina il presente attraverso le piccole azioni di ogni giorno, situazioni normali ed eccezionali (ma qual è, in fondo, il discrimine?) […]

Tra canto e controcanto, tra ciglio asciutto e pulsare di cuore, emerge, intanto, ancor ala figura del Doppio. L’altra, meglio, l’Altra. La sagoma rivestita di vuoto, di nulla, oppure l’antagonista, l’angolo di incidenza cattiva della luce. In molta poesia di Frisa appare questo modello di sdoppiamento. Un cuore africano e un cuore di cobalto.

Certo, ogni vera luce ha dell’insostenibile per lo sguardo. Ci sono “lenti crudeli”. L’idea complessiva che emerge è allora quella di una soglia di conoscenza, o una soglia di pathos rispetto al mondo, davvero imperscrutabile, sopra e sotto la quale non è data più parola, Così è anche il mare, che “si riflette sopra e sotto”, e che permette l’avventura della parola solo nel momento del flutto, della sospensione fra onda e onda. Parola che può assomigliare a un oblìo, alla dimenticanza, a quell’attimo sospeso tra flusso e riflusso: “dimenticare/ è la nostra sapienza”. Il fluido, l’acquatico, diventa dunque il modello, anche formale, anche stilistico, che ispira il Ritorno alla spiaggia.

La risposta, seppure porosa, bagnata d’ombra come di sole, viene dall’acqua. Meglio, dalle acque del mare, acque viventi: “quanto mare c’è dentro di me!”. E il respiro marino entra anche a dettare il ritmo dei versi. Un sapiente poliritmo, vorrei dire, ricco di alternanze, di cambi di velocità, di rallentamenti, di scarti; si sente sia la necessità di creare una forma, sia quella di sfuggirvi. Nel procedere della sua scrittura Lucetta Frisa ricorre a volte un modulo, uno schema ritmico di “ripetizione”. Il ritmo/trance, leggermente ipnotico, dondolante, del  ritornello. E ciò che ritorna crea un’ambivalenza: da un lato, per citare Deleuze, “si trasforma in suono che sfugge al senso”, dall’altro, crea un ambiente rassicurante, come una simbiosi col materno. Mare-Madre, dunque, topos evidente in tutto il libro, a cui si potrebbe aggiungere un terzo termine, la Morte, o almeno la meditazione sulla morte. Grandiosa, a questo proposito, l’immagine o figura della morte che, per via sotterranea, sostiene i versi di una strofa davvero centrale “Guarda, questo è l’Atlantico…/ non ci puoi entrare, neppure avvicinare […] Davvero, la poesia di Frisa ha questo carattere generale di essere poesia in apparenza emotiva, in profondo, conoscitiva.

(Dario Capello, Alchimia e poesia. Note su Ritorno alla spiaggia. In “La mosca di Milano”, anno XII, n. 22, giugno 2010, pp. 33-35)

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