Tutti gli autori di “Opera Prima”: Gabriele Belletti

 

[Dopo Giovanni Campana Michele Lamon, presentiamo questa settimana un altro autore di “Opera Prima”Gabriele Belletti. Di seguito, la testimonianza dell’autore , alcune poesie scelte e la postfazione alla raccolta Condominio di Daniele Maria Pegorari. Ricordiamo a tutti i poeti inediti che vogliano partecipare alle selezioni di “Opera Prima che è possibile inviare i materiali seguendo queste indicazioni.]

 

La testimonianza

di Gabriele Belletti

Il condominio, il macro-luogo, in cui le storie, o meglio dire le stanze, si avvicendano – la loro morfologia è dipendente da quella degli ambienti domestici geometricamente delimitati – ospita il soggetto dell’emissione, disforico e ipertrofico, che per ri-costruire tali stanze-condizioni si lascia da questi attraversare e invadere (riprendendo la terminologia e alcune tematiche portiane). Negli interni, nell’orizzonte temporale altrettanto delimitato del minuto concesso, vivono e sono vissuti fenomeni livellati, conciliantesi con una registrazione ansiosa e ininterrotta (in una trama, che spesso si riduce a trauma). Poste tali fondamenta istituzionali, costruendo il corpus poetico, la gnoseologia implicita ha teso a sottendere la ricerca non tanto di una verità, quanto di uno spazio che potesse dar ragione del mondo della vita, di quelle vite, organiche e non.

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Trame dell’esplosione

Postfazione

di Daniele Maria Pegorari

C’è una ‘scheggia’ di testo da cui mi conviene partire per tentare una lettura di questa bella ‘opera prima’ di Gabriele Belletti: nel cuore del testo segnato dall’orario 06:57 si legge «trame in attesa di film della settimana», che mi pare un’acuta variazione sul tema dell’impossibilità di un racconto organico, che si accompagna alla speculare sparizione dell’autore come super-io in grado di dominare la realtà che intende rappresentare, rovesciando sui fenomeni la forza della propria ragione ricompositiva e interpretativa e lato sensu ideologica. In altri termini le «trame in attesa di film» non sono che la riedizione di uno dei miti capitali della post-modernità, quello dei personaggi in cerca d’autore che si rifiutano alla mediazione di una mente filosofica, poiché la tragedia di cui sono portatori è immane e inaccettabile, dunque non accoglibile dalla mente e ancor meno incastonabile all’interno di una forma artistica, sia essa il romanzo edificante o il dramma catartico. Tale mito è poi contaminato con la grande metafora cinematografica di Pasolini, per la quale solo il montaggio dà senso ai frammenti d’azione e dà luogo al film, con la stessa definitezza con cui la morte, impedendo ogni altra modificazione dell’identità, rende una vita raccontabile: in altri termini, ancorché paradossali, la morte dà senso alla vita.

La poesia di Belletti, invece, si rassegna sconsolata a guardare la violenza di una soggettività e di una collettività ridotte a un pulviscolo di azioni decentrate, defunzionalizzate, insignificanti e pertanto non raccontabili, dunque «trame» in assenza di un «film» che possa renderle intelligibili e ‘costruttive’, cioè concretamente disposte secondo una struttura, ma anche, sul piano morale, portatrici di un significato comunicabile. Misurata la fine di ogni pretesa, epica prima e romanzesca poi, di ricognizione e spiegazione globale della realtà (di cui sono fulgida testimonianza, lungo tutto l’arco del Novecento, il romanzo coscienzialista di D’Annunzio, Svevo, Pirandello, Gadda e Moravia e le allegorie antieroiche di Calvino, da Il sentiero dei nidi di ragno a I nostri antenati, da Il castello dei destini incrociati a Se una notte d’inverno un viaggiatore), anche la poesia del Novecento ha dovuto prendere atto della perte d’auréole della funzione autoriale, passando dalla confessione della tentazione del silenzio, propria di Montale, a quella sorta di delega semiologica rappresentata dall’equiparazione fra poeta e lettore nell’ermetismo, fino ai labirinti linguistici di Zanzotto e delle neoavanguardie e alle poetiche dispersive e tragiche di Cucchi, Ermini, Ruffilli e De Angelis, che definirei ‘indiziarie’, nel senso che la condizione umana vi appare segnata ab origine da una sparizione o da una sentenza letale che costringe il soggetto ad aggirarsi alla ricerca di segni perlopiù muti di una storia già trascorsa. La grande letteratura borghese ch’era stata per definizione costruttiva e proiettiva – come nel concetto di Bildungsroman – si ritrova invece polverizzata in un’antipoesia che rimpiange l’innocenza perduta, l’armonia originaria che si esprimeva anche formalmente, attraverso la musicalità della metrica, la cantabilità del verso.

Non mi sembra casuale, d’altra parte, che l’età contemporanea abbia conosciuto nei suoi momenti esordiali e in quelli provvisoriamente finali l’esperimento della rinuncia alla singolarità dell’autore, dalla poesia multilingue e a più mani di Dada alla cosiddetta nuova epica dei ‘collettivi’ dei giorni nostri, che perlopiù si nascondono dietro alcuni pseudonimi di relativo successo. L’idea che regge queste ipotesi, indipendentemente dall’opzione per l’anonimato o per la conservazione delle firme, è che, se il tempo storico che ci troviamo ad attraversare è inadatto a formare un’individualità autenticamente autoriale, una «umana compagnia» di scrittori «confederati» possa almeno lottare contro una totale destituzione di senso. È entro questa cornice che occorre collocare la raccolta di Belletti, giacché essa rappresenta l’arduo tentativo di mettere a tema proprio la sparizione del soggetto lirico, cioè quello che statutariamente coinciderebbe con l’io empirico scrittore dei versi, e lo fa genialmente sia attraverso una costruzione testuale che consente la moltiplicazione delle voci, sia con una struttura che soltanto all’ultimo brano, con un vero e proprio colpo di scena, disvela la motivazione della sua natura intrinsecamente ‘antinarrativa’, cioè antifilosofica, antideologica e antisoggettiva. Il riconoscimento di un rapporto con la forma ‘romanzo’ è obbligato dalla scelta del titolo, Condominio, cioè un ‘luogo’ per eccellenza, in cui le storie concrete particolari possono intrecciarsi ed essere magnificamente romanzesche, come avveniva nelle locande dell’Ottocento francese o, prima ancora, nei castelli della letteratura cavalleresca o gotica.

Eppure il condominio non è così tanto presente, come si potrebbe pensare, nella letteratura novecentesca, proprio in virtù del fatto che il romanzo perde la sua presunzione di ‘opera mondo’ (cioè diventa altro da sé e, in definitiva, anti-romanzo) e si dirige prevalentemente verso i non-luoghi (supermercati, autostrade, stazioni, discoteche), cioè i luoghi della dispersione o dell’intreccio casuale, che non prevede impegno e condizionamento dell’identità (che essendo vieppiù inesistente, come quella del cavaliere di Calvino, avrebbe un bel daffare se dovesse dimostrare la propria tenuta eroica). Semmai, e non per caso, il condominio ricompare come location di quell’abbassamento popolare e commerciale del romanzo borghese che è la fiction televisiva, dove non si richiede profondità critica o complessità ideologica e il contenitore abitativo è solo il pretesto per l’incastro delle storie che vi si svolgono. Allora mettere in campo il condominio, da parte di Belletti, significa inevitabilmente misurarsi con le questioni tipicamente postmoderne della scomparsa dell’identità e della irrappresentabilità della storia e del tempo: esautorato della facoltà di ordinare e raccontare le storie molteplici, operandovi quella reductio ad unum che era tradizionalmente il mandato pedagogico di ogni romanziere, da Omero a Boccaccio, da Balzac a Manzoni, l’io lirico si riduce alla misura di uno dei tanti io empirici che compongono la realtà disordinata di quello spazio collettivo, precisamente quella che si pone in ascolto e visione di tutto quello che gli capita e lo riversa spasmodicamente sulla pagina, come in un diario dell’inutile, in un regesto dell’antiepica.

Dopo di che l’io si rifugia in un angolo dello spazio, della ‘stanza’ (nel senso metaforico della porzione abitata e in quello formale dei ventisei frammenti che costituiscono questo impossibile poemetto), e si confonde con altri io, maschili e femminili, senza che sia più possibile identificarlo o ricostruirne le intenzioni. Non potendo restituire alla realtà la sua armonia perduta, il poeta ricorre a una finta prosa (i cui precedenti immediati e significativi sono da ricercare in Flavio Ermini e in Stefano Guglielmin), cioè a blocchi di testo il cui unico principio ordinatore è la geometria perfettamente rettangolare delle sue righe giustificate che rinviano proprio agli spazi impersonali e modulari dell’abitazione urbana. La scrittura, così, è priva di ritmo, ardua nelle sue volute anacolutiche ed ellittiche, spiazzante per la mancanza di punti fermi e la presenza di virgole che, fuorché indirizzare logicamente il lettore, talvolta spezzano le sequenze, dimostrando che persino ciò che sembrava unito, in realtà appartiene a percezioni distinte.

L’esempio migliore mi pare al secondo rigo della ‘stanza’ 17:03: «[…] la donna vecchia spazza, la cucina senza accorgersene […]». Se non vi fosse quella virgola, si sarebbe in presenza di un microepisodio di questa antiepica quotidiana, insignificante, certo, ma pur sempre un’azione compiuta e assolutamente plausibile nel contesto domestico di un ‘romanzo tentato’; invece la punteggiatura segnala che persino in quel segmento linguistico così limitato si stanno sovrapponendo due distinte percezioni mutilate (la prima nella sua conclusione, la seconda nella sua partenza), come tutte le altre che si affastellano in questa sorta di flusso di coscienza che vede dilatarsi i minuti (proprio quelli che fanno da indicatori paratestuali per ciascuna stanza) nel tentativo, non più di scegliere gli eventi importanti dotati di pienezza semantica (impresa impossibile a questo soggetto dimezzato), ma di registrare il più possibile gli indizi, le tracce, i relitti di una vita collettiva disperatamente convulsa. Frammenti di dialogo, infrapensieri, rumori, azioni scorciate, visioni di oggetti inanimati anche minimi che assumono lo stesso valore degli esseri umani (cfr. 18:06: «[…] ventilatore bianco a velocità uno che dice di no ripetutamente assonnato […]»), spezzoni catturati da un apparecchio televisivo o radiofonico, indicati tra virgolette (cfr. 20:10: «[…] “gli indici di contrattazione sono in rialzo, le indiscrezioni su un probabile nuovo taglio sui” […]»; 17:03: «[…] “adesso e nell’ora” […]»), insomma ogni meteoritica informazione che possa sovrapporsi nel tempo puntiforme del minuto è ansiosamente riposta nella scatola quadrangolare del testo, come se per questa via Belletti volesse realizzare un deposito privato dei pochi oggetti dominabili dal soggetto, fino a fissare la propria predilezione sul corpo, che già da Volponi a Magrelli, passando per Oldani, è stato il rifugio estremo dall’assalto della Storia. Sembrerebbe, dunque, fino alle soglie dell’ultimo brano, che il poeta stia davvero tentando un diario del minimale, al punto che ogni volta che l’orario indicato in apertura di brano non è consecutivo al precedente, il lettore è indotto a credere che sia trascorsa una notte e che il nuovo orario sia da collocare al giorno successivo, il che porterebbe a quattordici giorni il tempo della storia possibile, ammesso che non ci siano salti più lunghi o che, addirittura, non appartengano a giornate differenti anche gli orari che sembrano in sequenza.

Questa struttura aumenta l’effetto paradossale di quelle scansioni cronologiche, anch’esse care al racconto televisivo, in particolar modo giallo, in cui l’orario accresce l’aspettativa del pubblico e tiene alta la tensione preparando quest’ultimo alla rivelazione di un particolare importante. E invece nel Condominio di Belletti non avviene nulla di diverso da quanto è possibile immaginare nella vita di ognuno, tra porte che si aprono, fiori maleodoranti, il rumore dell’«autobus delle undici e quarantasette», amplessi spregiudicati, come del tutto ordinaria è l’azione compiuta da un personaggio nell’ultimo sorprendente brano, 5:29: «[…] salvo un condomino, cocci liberi, in quell’istante era sceso a gettare la spazzatura». Eppure questo gesto è quello più grottescamente postmoderno, degno dell’antieroe novecentesco, quello che vince o si salva sempre solo per caso, non certo per l’eccellenza della propria virtù o per un destino più alto che gli sia dato (come nell’Enea virgiliano, per intenderci): la casualità di quella breve uscita dal Condominio è ciò che salva il personaggio – una donna, si apprenderà – dall’esplosione per fuga di gas che distrugge l’intera palazzina, e allora ci sovviene che uno dei brani centrali del poemetto, alle ore 12:04, iniziava con le parole «dimenticata di spegnere il gas», esemplare del procedimento ellittico di questo poemetto, per la mancanza del soggetto e del verbo ausiliare.

Così scopriamo finalmente l’arcano: non si tratta del fallimentare romanzo condominiale della durata di due settimane o più, ma del racconto poetico di due esplosioni – quella coscienziale, di cui eravamo già al corrente, e quella per così dire ‘reale’ di un caseggiato e delle sue numerose vittime – raccontate, probabilmente, nell’unico giorno del loro accadere, ma con un punto di vista totalmente ‘interno’ alla deflagrazione stessa. L’io che racconta vivendo è esploso, come il visconte calviniano, insieme con tutto il resto e i suoi frammenti di diario si sono scompaginati e disordinati più di quanto non lo imponesse la stessa inettitudine del soggetto. I mille brandelli di realtà ch’egli ha pazientemente trascritto sono tessere di un puzzle che non si ricomporrà mai, perché nessuno potrà farsi mallevadore della corretta sequenza delle schegge narrative, certo, ma ancor più perché l’esplosione non ha fatto che aggravare quel deficit di consapevolezza rappresentativa e di responsabilità intellettuale che sono il frutto di un’originaria e tragica débâcle dell’io.


Gabriele Belletti (Rimini, 1980) vive a Santarcangelo di Romagna. Si è laureato in Filosofia all’Università di Bologna con una tesi dal titolo Estetica comprensiva e poetica degli oggetti, sulla nuova fenomenologia critica di Luciano Anceschi. Ha partecipato alla seconda edizione di RicercaBo, organizzata nel 2008 dall’Università di Bologna presso la Mediateca di San Lazzaro, dove ha presentato le prime dieci poesie di Condominio. Insegna nei licei.

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