Gabriela Fantato: le metamorfosi dell’acqua e della terra

Il tempo dovuto, che raccoglie gran parte delle poesie edite da Gabriela Fantato (1960) tra il 1996 e il 2005, ci colloca sin da subito nel vivo delle sue ossessioni, prima fra tutte la ricerca di un’identità proustiana e faustiana insieme, che si vuole mobile, molteplice, volta a riprendersi lembi differenti del passato, per ricucirli con le nuove ferite del presente, in nome di un contatto più intenso con la verità profonda delle cose e dei luoghi. Fugando (Book, 1996), che ordina poesie scritte tra il 1989 e il 1994, dà il via a tale ricerca, attraverso la scoperta infantile dello spazio domestico, trasfigurato dall’immaginazione favolistica, tra una «scarpetta» persa e «la corsa del lupo», spazio attraversato da un padre e una madre fantasmatici, o incarnazioni del super-io, punitivi e illiberali: ecco allora la «cucina» dove regna «suo padre duramascella» o il buio ripostiglio dove «lei impara la colpa in forma/ di topo». In tutto il libro, invero, lo spazio è angusto, «tubocheinghiotte» la fanciulla nella casaforesta, e non c’è principe azzurro che la possa salvare: solo vita infantile da attraversare nella penuria delle stanze, dura esperienza da accumulare perdendosi, restando sempre là «dove non/ si pensa» –  come recita la slogatura caproniana di pagina 21 – ma anche desiderio di coniugare «moto e immobilità», nella certezza che radice sincera si dia soltanto là dove «si agitano le forme». Con questi presupposti, Fugando mette in scena una sorta di minuscola palude, sorella del Douve bonnefoyano – «creatura investita dalla morte» e allegoria d’ogni cosa lacerata, come scrisse Stefano Agosti nella prefazione einaudiana1 – qui riproposta appunto nella casa-universo, nel cui centro «la luce verde intaglia la carne», mentre la fanciulla spande «umori di selva» e il suo «cuore germoglia gramigna».

Questa idea complessa, che vede nell’erranza la casa dell’essere e, nel mistero femmineo, l’alternativa acquorea alla verità-oggetto, trova la sua forma allegorica nella raccolta successiva, Enigma (DIALOGOlibri, 2000), opera nata per il teatro e ne il tempo dovuto riassunta in sei «invocazioni», delle ventidue originarie. Ventidue come gli Arcani Maggiori, la cui selezione rende esplicito il desiderio di tracciare, insieme, un destino nomade e femmineo a quel personaggio che, nell’ultima sezione di Fugando, naufragava in un’«acqua malata», in un’affettività segnata dalla «gran distanza» e dal «gelo».
La prima poesia-tarocco proposta è infatti l’Eremita, Diogene il cinico che fugge la città, per rischiarare la notte dei pregiudizi e delle convenzioni con la sua lampada, così che l’uomo libero si mostri. Al Diogene vagantivo, succede l’Appeso, figura iniziatica per antonomasia, «immobile […]/ nell’angolo aperto ai venti/ incrocio tra nulla e verità», che rappresenta la condizione di chi deve sottostare alle prove della comunità, per averne poi in custodia i segreti. Questo passaggio, cui lo stesso io narrante si rimette, sarà radicale, come appunto ci dice la Morte, terzo arcano della sequenza, dominato dal «mutare», dalla ciclicità cosmica delle rinascite, che è sollievo dalla certezza del «nulla eterno», ma anche – da differente prospettiva – condanna della ripetizione, da cui cercare rimedio. Ma la poetessa milanese ama troppo la carta del mutamento (e dunque del sapere occidentale) per accettare, come nelle Upanisad, lo spegnimento del desiderio quale via d’uscita al samsara; lei anzi lo alimenta, ponendo il Matto a sigillo di una fonte mutante che «apre in due l’unità», lacerando «la ragione» e sbeffeggiando l’ipocrita follia del mondo. Come gli altri tarocchi nominati, anche il Matto cerca la notte, il bordo, la selva, la solitudine, morso dalla consapevolezza di possedere un’energia in fondo priva di conseguenze, ossia incapace di corrodere il potere e le sue stanze. A questa amara certezza, segue la Luna, carta della femmineo malinconico. Ancora la notte, dunque, dove la fanciulla rappresentata cerca «abbracci», immobile e «sospesa sopra» un «gioco d’acque», quasi che il mutare le sia persino di troppo, a meno di non subire una trasformazione di grado, una metamorfosi che solo il Giudizio – ultimo tarocco sul piatto – può garantirle. Con esso, si tratta di ricominciare la vita dopo un «salto improvviso», uno scarto che purifichi e rigeneri dal di dentro, aprendo «alla salvezza». Se l’edizione originale terminava con il Matto, lasciando al moto lo sciabordare delle carni, in questa nuova sistemazione l’io narrante, con il Giudizio, sceglie d’interiorizzare la ricerca, senza però chiudersi nel solipsismo, anticipando così il tema centrale di Moltitudine (Marcos y Marcos, 2001), dove l’entrata in campo di Milano e della gente comune che la abita, le consentirà appunto di spostare l’attenzione dall’io al noi: lo rileva Mauro Ferrari nella prefazione a il tempo dovuto, affermando che in Moltitudine «non parla più solo una donna ma un membro di una comunità», che si riconosce in un destino collettivo segnato dalla fuga, dall’addio, dalla perdita.2 E infatti, in viale sarca, «la vita/ come aria si consuma», mentre, «sul tram che ci porta», la luce fugge «e invoca il suo buio»; d’altro canto – e citando qua e là – «nel bar» e «al naviglio grande» l’amore naufraga, pur tornando vivo nell’accecante ebbrezza dell’attimo, mentre ogni cosa intorno fugge, «come marea che insegue il flusso», fino a coagularsi nell’immagine di «un bambino» che vaga «dentro il labirinto che la corsa/ ha scavato nelle sue vene», bambino che forse chiama «qualcuno», ma che poi, senza aspettarlo, scappa via. Labirintica era la casa dell’infanzia, labirintici sono ora Milano e il viaggio che il destino riserva ai suoi abitanti, tutti «buoni in riga/ come infilati a tubo nel morire»: di nuovo un «tubocheinghiotte», dunque, un cunicolo che toglie «l’azzurro/ quella bellezza che ci buca/ nella voluttà che convince a vivere/ proprio qui sotto» (in viale sarca).

A fianco del Cielo che salva gli uomini dai budelli aperti fra i palazzi, c’è la «signora di ogni angolo acuto/ madre degli acciaccati», «sorella» e «bambina scura della notte/ con le sue lune nel tacco» (i tre gradi dell’invocazione), supplicata al modo dei poemi, affinché benedica la scrittura di chi vorrebbe «gettarsi fra le cose sino alla perdizione, fino all’oblio di se stesso, tanto da toccare il segreto della realtà» ed esserne a sua volta toccato, come scrive Gabriela, citando Maria Zambrano, in un saggio coevo, dedicato a cinque poetesse del Novecento.3 Si tratta di una dichiarazione di poetica cara all’intero corso del tragico europeo, che la Fantato ci offre nella grazia del racconto e di un pudore che non torce sadicamente la lama nella piaga del mondo, preferendo avvicinarla con pietà, contornandola di silenzio, di quella cosa che «sfugge alla parola/ e resta cocciuto dentro il gran mutare» (dentro la terra, sotto). Un non-detto caro alla fenomenologia di Merleau Ponty e che qui viene a fondare una sorta di fiaba mutilata, dove gli ippogrifi non volano (un incontro notturno) e la «bambina» s’eterna nel cadere, senza speranza di crescere. Tema questo che emerge con forza in Northern Geography (trad. Emanuel Di Pasquale, Gradiva 2002), dove la «fiaba di una bambina e la sua capra» che si libra nello spazio chagalliano, raccontata nell’omonima poesia di Moltitudini, si trasforma nella triste storia di un lentissimo cadere, in uno scivolare verso il basso, che ricorda la Ragazza che precipita di Dino Buzzati, la quale a diciannove anni si «affacciò dalla sommità del grattacielo» e morì vecchia decrepita, precipitando in un tempo lungo una vita.4
Northern Geography
contiene poesie scritte originariamente in italiano e prefatte da Milo De Angelis, il quale rileva il «doppio tempo» della visione nella poesia della Fantato: uno sguardo che «dapprima fissa una scena – domestica, consueta, amichevole – e continua a fissarla, e nel suo insistere la trafigge, la getta nel suo risvolto segreto, buio, fecondo, drammatico».5 Un processo straordinario, proprio invero anche della poesia deangelisiana e già rilevato da Giancarlo Majorino nella nota a Moltitudine, riconoscendo alle poesie lì raccolte la capacità di tenere insieme visibile e invisibile, cosa concreta e segreto.6
Questa capacità trova compimento negli inediti raccolti alla fine de il tempo dovuto. In essi, infatti, i motivi dei libri precedenti sono assorbiti e ripensati all’interno di un poema in cui la figura paterna e il delta del Po si ergono ad emblemi del tempo, sì ritrovato, ma ancora tutto da percorrere. In un dialogo ideale con il padre, la poetessa milanese rivisita la propria infanzia, tra Lendinara e Fratta Polesine, in una sorta di Waste Land della memoria, nella quale «vento», «sterpaglia», «orme di cani in corsa», «scarpa» e «guanto» abbandonati sulla riva, verande con «sedie vuote» ed hotel dal tetto «crollato», compongono un paesaggio a metà fra la desolazione urbana di Down by law di Jim Jarmusch e l’Arsenio montaliano, dove tutto è in «frantumi» (come titola una delle ultime poesie della raccolta, parola cara tanto ad Eliot quanto a Montale), tutto naufraga eppure si tiene nello sguardo e nella lingua di chi l’attraversa, di chi, in quei luoghi, ha finalmente trovato radice, quell’inizio nato dall’aver accolto il proprio destino («Resto a guardare/ come se il tempo fosse qui/ salvato», recita la terza lassa di Al tuo delta). Un tempo che diventa immediatamente paesaggio, correlativo oggettivo di un sentire complesso e stratificato, i cui elementi trovano, nella «palude», la tavolozza nella quale darsi reciproco risalto, una «palude vasta», «con dentro/ l’adriatico e un’adolescenza/ negli zigomi» (Forse una geometria, IV), che era stata di suo padre e di sua madre e alla quale ora lei si rimette, come ad una terra passata eppure promessa, di là da venire, quasi fosse «una canzone più dolce» da fischiettare «tra la Bovisa e i treni di Milano» (In memoria) o un fiume da attraversare, dolce tra «due rive» consuete (Forse una geometria, III).

A rimettere parzialmente in gioco le certezze acquisite, provvederà Codice terrestre (La Vita Felice, 2008), rimescolando «linee e acqua» per una nuova alleanza delle forze intramondane, in cui ribadire la radice robusta del legame familiare e amicale, nella consapevolezza che ogni cosa, in terra, è mortale. Ciò è particolarmente chiaro nel legame amoroso, mai così intensamente indagato, vissuto all’insegna del taglio che «rifiorisce», a patto che gli amanti sappiano tenacemente riconoscersi vivi: «ritorniamo nell’angolo ogni sera», recita ostinazione, adunando sconfitta e battaglia rituale nell’agone domestico, ma aprendo nel contempo alla fiducia nella ciclicità naturale, alla morte con rinascita cui allude l’arcano maggiore, indagato in Enigma e implicitamente richiamato, qui, nella quartina finale: «Nelle mani un’ostinazione/ come la falce nel grano./ Ripetiamo il gesto antico che taglia/ e rifiorisce».
Tutto il paragrafo sull’amore coniugale ripete invero la funzione del «taglio», del separare. Ecco infatti i «coltelli», il «solco», la «linea», le «rotaie», i «binari», la «crepa», i «morsi» e l’«alba», infine, «che beviamo/ e ci segue e ci apre come solchi» (Le notti): somiglianza, quest’ultima, che tiene insieme la scissione ma anche l’accoglienza, l’incisione e la maternità (solco in quanto aratura), per un nuovo cominciamento tutto terrestre.
Altra parola chiave del libro è «bianco», che riveste di tristezza Milano (Una geometria, forse, III) e illumina il fare domestico della madre, il cui sguardo, pascolianamente, posa sul bianco delle ossa (Era il bianco); bianco che è il colore del lutto (Galileo che chiede: «Se sono destinato al bianco,/ dimmi, dove posso annegare in pace?») e dello spaesamento, come nella «ninna nanna» senza luna (Nascite imperfette), ma anche il tono con il quale «sentire/ la gioia che manca» (Canto per Galileo, I), sino al «bianco ostinato» inciso «a puntasecca» nella «fatica del paesaggio» della poesia che chiude il volume.
Come nei libri precedenti, l’infanzia e l’adolescenza sono un serbatoio inesauribile, tra desiderio e spavento, raccontate a lacerti decisi e spigolosi, capaci ancora di ferire, pur avendo a cuscino la memoria del padre e le parole della madre, che tuttavia in questo libro perdono la centralità che avevano negli inediti del Tempo dovuto. Se infatti in quello, il poemetto dedicato al padre si compone di 10 liriche, qui Al tuo delta si riduce ad una sola poesia (la IV del libro antologico, con tagli e riorganizzazione metrica dei versi), ed è inserita in una sezione in cui il maggiore spazio spetta allo zio Silvio, fratello della madre, disperso nella guerra d’africa nel 1942. Anche gli amici prendono maggior rilievo, anticipando quella «fedeltà ai pochi» della poesia conclusiva i quali, come scrive Milo De Angelis, «hanno assunto i tratti di una necessità a lungo confermata, i lineamenti di un destino».7
Altri temi ricorrenti, e in sintonia con l’intero percorso della Fantato, sono la città, corpo inospitale, attraversato da «cunicoli e ombre» (Città in sotterranea), e la casa, che non protegge abbastanza la sua ospite quando si sente vulnerabile («Luce, c’è tanta luce oggi./ Entra in casa, viene a cercarmi»), o che custodisce i segreti della propria genealogia, tramandati di generazione in generazione, come quelli sulla morte dello zio Silvio; o, ancora, nella quale si consuma la partita dell’amore: una casa, questa, che ha «tane» abitate da «insetti e baci», da «azzardi e carezze» (l’azzardo).
Casa, città, amicizia, affetti familiari e amore coniugale, memoria storica e memoria personale costituiscono dunque lo scheletro, tutto terrestre, del libro, ne sono il codice, la chiave con cui leggere la biografia della Fantato, poeta e intellettuale, donna della Milano cementizia, che ama tuttavia riconoscersi nella la metafora della palude, della «terra mobile/ con le radici aperte sino al mare» (Una geometria, forse, II), a sottolineare la propria origine terracquea, arginata esistenzialmente da una caparbia intelligenza e, artisticamente, dal rigore formale, dal continuo lavorio sullo stile. Interessante sarebbe, in questo senso, un’analisi delle numerose varianti contenute ne il tempo dovuto, rispetto alle edizioni originali e, ancora di più, verificare l’edizione degli inediti pubblicati in via definitiva nel Codice terrestre. A proposito della prima questione, riferisco, solo a titolo esemplare, il lavoro di lima dell’ultimo addio (in Moltitudine) che, nella versione conclusiva, ha perduto quattro versi interi, un sintagma, una congiunzione avversativa, modificando altresì la scansione strofica e l’uso della parentesi, il tutto, mi pare, al fine di togliere l’eccessivo espressionismo («schiacciato il pudore, al soffitto») oppure messo in atto per migliorare la continuità sintattica, in una pulizia del canto che si vuole denso ed essenziale, ma non ermetico, talvolta sorretto dall’enjambement (magistrale in tal senso il passaggio ne al naviglio grande, dove  «un’onda che arrivi a quest’acqua salvata» diventa «un’onda che arrivi a quest’acqua/ salvata», operazione che, ripetuta nei versi successivi, acquista un’idea del ritmo cara a Caproni), talaltra governato da una musica in sordina, che lascia alle parole i loro spigoli, le loro anse, quasi isolandole alla maniera del Sereni maturo.
Per quanto riguarda il Codice terrestre rispetto agli inediti, il lavoro è stato ancor più minuzioso, nella cancellazione di interi periodi e nel riordino degli a-capo: il generale, il precedente verso lungo ha dimezzato il metro, acquistando in tensione, sostenuta da un venire meno di alcuni nessi logici, lasciati impliciti per maggior fiducia nell’intelligenza del lettore. Anche la cura lessicale è giovata. Si veda per esempio la sostituzione di «rosicchiano» con «mordono» della poesia d’apertura, così che il verbo, attraverso l’agglutinazione “ord”, si armonizzi non solo con «ricordi», tre versi sotto, ma dia anche ritmo più sostenuto alla quartina, attraverso l’allitterazione in “d”: dall’originale «I figli sempre rosicchiano le dita/ ai padri per sentire dove/ iniziò il viaggio – perché, ricordi,/ dicevo anch’io perché? –», si passa infatti a «I figli mordono ancora/ le dita ai padri per sentire/ dove inizia il viaggio./ Perché, ricordi, dicevo anch’io/ – perché?». Inoltre, a caricare ulteriormente di tensione il concetto, per l’effetto fonosimbolico dello spostamento d’accento tonico dalle “e” alle “o”, si noti la sostituzione di «sempre» con «ancora» (che va a sostenere «mordono», allitterando in “or”, là dove «sempre» anticipava le “i” di «rosicchiano» e «dita»). Infine, la scelta di coniugare al presente il verbo («inizia») anziché al passato remoto («iniziò») lega grammaticalmente meglio l’azione dei figli (sostenuta dall’avverbio di tempo «ancora») e contribuisce a dare l’impressione che l’inizio di cui si parla sia costantemente attivo nel presente e, appunto perciò, il morso sia percepibile.

 

  1. Stefano Agosti, Introduzione alla lettura di Douve, in Yves Bonnefoy, Movimento e immobilità di Douve, trad. it. Diana Grange Fiori, Einaudi, Torino 1969, pp.5-15.
  2. Mauro Ferrari, Le geografie della fuga, in Gabriela Fantato, il tempo ritrovato, editoria&spettacolo, Roma 2005, p.9.
  3. G. Fantato, L’incontro con lo straniero, in Guido Oldani (a cura di), Annuario di poesia 2000, Crocetti, Milano 1999, p.93.
  4. Dino Buzzati, Ragazza che precipita, in Id., La boutique del mistero, a cura di Claudio Toscani, Mondatori, Milano 1991, pp.232-237 (ed originale in Il colombre, Mondatori 1966).
  5. Milo De Angelis, Un lungo incontro, introduzione a G. Fantato, Northen Geography, trad. it. Emanuel Di Pasquale, Gradiva, New York 2002. Ora in Id, il tempo dovuto, ed. cit., p.170.
  6. Giancarlo Majorino, introduzione a G. Fantato, Moltitudine (poche storie certe e numerate), in Franco Buffoni (a cura di), Poesia contemporanea. Settimo quaderno italiano, Marcos y Marcos, 2001, pp.95-96. Ora in G.Fantato, il tempo dovuto, ed. cit., pp.167-168.
  7. M. De Angelis, Presentazione a G. Fantato, Codice terrestre, La Vita Felice, Milano 2008, p.5.

 

(da Stefano Guglielmin, Poesia e finitezza,la Vita Felice, 2009, Milano)

Stefano Guglielmin
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