Gabriela Fantato: ‘Il tempo dovuto – poesie 1996- 2005’

Il tempo dovuto

Gabriela Fantato

2005, 184 p.

Editoria & Spettacolo (collana Canti)

 

Le geografie della fuga: note sui versi di Gabriela Fantato

 

di Mauro Ferrari

Una categoria critica essenziale è la necessità di un testo poetico:  misura di quanto un determinato testo parli di noi, del nostro essere un nome e un luogo (e un tempo, aggiungerei). Sono categorie queste che si trovano nella poesia di Gabriela Fantato: un nome, perché c’è una dimensione che travalica la dimensione personale e si fa corale: parla a tutti parlando a ciascuno individualmente; un luogo, perché queste poesie hanno una scena al contempo reale e metafisica (simbolica, emblematica, persino allegorica); un tempo, perché sono testi radicati nel sentire dei nostri anni .

Queste poesie richiamano l‘immagine del collimare (quando l’obbiettivo è perfettamente centrato sul bersaglio): in poesia questo corrisponde al clavicembalo ben temperato, e al critico ben temperato di Northrop Frye: la poesia, come uno strumento accordato in modo sottilmente straniato eppure perfetto, focalizzata in modo totale e impersonale sul proprio oggetto – focalizzazione che è una caratteristica che è, deve essere, irraggiungibile come un asintoto e ne costituisce appunto l’intima necessità.

L’impressione che si riceve dalle poesie di Gabriela Fantato, rilette in senso cronologico per cercare linee e nuclei, è di un macrotesto focalizzato sull’alone non facilmente collimabile della vita, che mantiene quindi – come testo – una certa quota di inafferrabilità, di inquietudine della forma, mantenendo una tensione che può essere definita “espressionista” e che emerge dall’uso “intuitivo” di certe preposizioni, da certi tagli logici che hanno creato non pochi problemi , per esempio, al traduttore di Northern Geography1.

Dobbiamo dire subito che, dai quasi esordi di Fugando (Book, Castel Maggiore 1996), Gabriela si è evoluta in modo visibile: quel primo libro era dominato da una lingua che aveva come numi tutelari Majorino, Amelia Rosselli e certa sperimentazione lombarda (si può citare, per certe congruenze che mi paiono ovvie, anche la Maria Pia Quintavalla di Le moradas, opera edita lo stesso anno di Fugando) per una lingua tutta cesure, strappi, zone di allusione e slittamento. Prova ne è la cesura logico- semantica dei versi, la creazione di alcuni composti di pura invenzione sintagmatica, talvolta un po’ artificiosi e tutto sommato non indispensabili. Parlare di Fugando vuol dire rimarcare anche un nucleo di temi ancora attuali nella poesia della Fantato, che fanno riferimento a una certa area di speculazione femminile e femminista (il “pensiero della differenza“), che si salda a idee portanti del nostro tempo, come la concezione di Merleu-Ponty del corpo come “spazio vissuto” (concetto che il pensiero femminile ha fatto proprio anche come “una terra d’altri”2).

Il tema della ricerca delle proprie origini, la scoperta di sé (come donna e come individuo) e del mondo, inteso come luoghi e tempi, la costruzione di una propria modalità di rappresentazione imperniata appunto sulla fuga, sul continuo nomadismo e sulla metamorfosi per acquisire nuove identità che crossino gli spazi/non luoghi… in Fugando abbiamo ben più che un embrione, e un abitare poetico del mondo che in Italia ha pochi uguali. All’altezza della compattissima raccolta Moltitudine, che compare (e spicca, in un livello medio non molto elevato) nel VII Quaderno curato da Franco Buffoni,3 troviamo una evoluzione per nulla banale: una disposizione più regolare sulla pagina, così come viene regolarizzata la sintassi e la dizione, per contro mantenendo e persino acuendo certe tensioni di tipo sintattico: la frase si allunga, si dipana nel seguire le immagini, non più date quindi per flash e frammenti ma seguito in uno sviluppo a sequenze narrative. Se Fugando era un libro di istantanee, una storia narrata per istantanee, qui abbiamo un maggior sviluppo narrativo e immaginativo all’interno dei singoli testi. Se c’è cautela verso la dimensione lirica, possiamo però dire che l’asciutta durezza di Fugando si stempera alquanto e si articola. Ci si muove verso una personalizzazione dei temi di tipo “civile”: non parla più solo una donna ma un membro di una comunità (cittadina). Possiamo usare la definizione di soggetto come la esplicita Touraine in Critica della modernità. Non è un caso che l’unicità del protagonista femminile (una lei in cui si oggettiva l’io poetante) ceda il passo appunto a una “moltitudine” di figure da osservare e in cui specchiarsi. Northern Geography (titolo che non può non richiamare La capitale del Nord di Majorino) mostra un’ulteriore evoluzione: c’è un relativo alleggerimento del dettato sintattico, e una opacità che viene a poggiare sempre più sul già citato uso allusivo-evocativo di certe preposizioni – a indicare un allontanamento da certa sperimentazione verso certo De Angelis – in una poesia che in apparenza è del tutto dicibile e detta, ma in cui la referenzialità spesso è labile, per certe scorciatoie del pensiero che sulla pagina si presentano come lampi, salti e accostamenti fulminei.

È interessante la bipartizione di questa raccolta (Le strade a picco e Terre salate), richiamata dalla stessa foto di copertina; non so quanto casualmente. Ci troviamo senza dubbio in un territorio nebbioso apparentemente indistinto ma mappato sottilmente. In orizzontale e in verticale (del resto, si vedano le stesse strade a picco che già condensano in un unico sintagma il nucleo ideazionale del libro). Anche in una terra salata (una waste land metropolitana) ci vengono in soccorso alcuni segni: sul piano dell’orizzontalità, già in copertina spiccano la segnaletica orizzontale, che richiama l’utile fallacia della prospettiva, e la direttrice dei viali. In verticale, ci sono gli alberi che vincono l’oppressione del cielo nebbioso. Sono elementi che ritroviamo puntuali nei testi: scorrendo i titoli troviamo infatti conferme a questa partizione degli spazi (e tempi) semantici: in via Torino, verso la piazza, stazione centrale, in piazza santo stefano, sullo sfondo, doppio su sfondo, ultimo giro in corsa, a indicare superfici e direzioni (i due modi di vivere lo spazio e la città – e qui è difficile non fare riferimento al pensiero postmoderno, con i non-luoghi di Marc Augé 4, il vivere la città per attraversamento, inappartenenza e nomadismo.) Vi è poi un asse verticale che ha due versi: il basso e l’alto, e qui è chiara la componente ontologica della verticalità come incombere dell’assoluto e, di contro, della caduta destinale. Questo per lo spazio; quanto al tempo, abbiamo titoli come tempo dilatato, dal sesto piano, la caduta, in bilico, la stanza e un balzo e invocazione. Ecco, già prima di aprire i testi si vede la ricchezza della poesia di Gabriela Fantato, proprio in questa articolazione dello spazio e del tempo, a indicare la coniugazione di una capacità di sentire con quella di dire. Insomma, poesia. Percorsi concreti della nostra vita reale ma anche tensione, balzo, destino (la caduta verso il basso, verso la morte – una dimensione inquietamente metafisica che ha ascendenze classiche). Ma come, e forse più che, in Moltitudine questa è una poesia cittadina, che si svolge “nel bosco delle strade di Milano”. Ritorna anche una nota favolistica, ben sottolineata da Sandro Montalto5 già a proposito della prima raccolta[i] e la (ex) bambina confessa con rammarico e tristezza: “in questo tempo/ che chiama i lupi (. . .)/ ho perso ormai tutti i miei pezzi di pane/ lasciati nelle tasche/ dell’ultima giacca a primavera/ (in mano tengo la guida muta/ per geografie del nord appese al cuore)”. È una lirica centrale: come si vede, il tema è quello del vagabondare, del perdersi, e i segni sono – lo dice il titolo – lasciati dai piedi, camminando. Il soggetto agisce la propria (labile) individualità in uno spazio a cui dà significati e in un tempo che – sfortunatamente – è riluttante a lasciarsi plasmare dalla volontà, e solo concede alcune isole in cui il disagio si placa. Ecco infatti che questo tempo si lascia “dilatare” a partire da brevi oggettivi istanti di piacere (aspetto tutta la noia per goderlo”) che conducono all’oblio: “e intero venga l’oblio/ con la sua corte muta/ consunta d’eterno, senza pace”: la noia evidentemente richiama l’otium del verso successivo più che lo spleen. e quindi diviene fattore di vitalità, apertura. Lo spazio e il tempo vengono a coincidere nel “senso largo della vita/ in questo andare avanti”: qui il camminare e attraversare (fuggire, ancora) è contrastato dal quesito finale (davvero un momento alto, di pregnanza assoluta, in cui l’enjambement mette in moto anche una fertile ambiguità sintattica): “chissà dove finisce, dove si frena/ la caduta e il cuore vede con la mente”.

Accennavamo alla fuga: perché anche in questo libro il sintagma ritorna, con alcune variazioni, a testimoniare una centralità assoluta: ecco quindi in questa stessa lirica “una fuga lunga, senza sguardo,/ piegati a terra dentro al camminare”. Del resto, a confermare come la poesia di Gabriela Fantato sia fortemente caratterizzata da una misurata declinazione di varie immagini-chiave, si prenda viaggio su sassi, testo in cui viene contrapposto il “vivere sui sassi” (“l’arte dei muschi”), e l’attesa vitalistica degli “altri“ che “aspettano a riva che il giorno / si allarghi e porti vento/ come marzo che dà fine al patire”(al pa[r]tire?)6: un momento di lenitivo come tanti in questa poesia (le piccole oasi di piacere o di cessazione del dolore) ma, quasi niccianamente, sullo sfondo dell’amor fati: “e ancora si corre al delta”.

Tutta la poesia di Gabriela Fantato è intessuta di fughe, balzi, cadute, corse, e davvero un’elencazione che ne tratteggiasse le modalità e la varia fenomenologia sarebbe ben poco utile: condensiamo solo una ricerca appena superficiale dicendo che ci si muove freneticamente, per volontà, per contrastare la naturale caduta verso il baratro del tempo: il muoversi nel tempo e nello spazio è quindi l’immagine stessa della vita (tanto che la vita è sprofondare, è il tuffo, la caduta …“dal sesto piano”). La vita come una caduta: in nessun luogo, questa idea è esplicitata con sottigliezza in quasi un urlo. L’immagine soggiacente è quella della clessidra: “un punto dove tutto si congiunge e gruma” e mi pare si mostri un collassare di due immagini: il “grumare” (raggrumare, fondersi in un tutt‘uno) e i granelli di sabbia della clessidra, che compaiono ancora più espliciti (ma sempre obliquamente allusi) come “grani nel mortaio”. Di qui, dal “congiungersi” di tutto nell’indistinto e per il tramite dei grumi (e dei grani di clessidra che rendono concreto e afferrabile il tempo) si giunge ai “morsi” di cui scrive la poetessa, con cui impossessarsi della vita.

I testi che completano la presente antologia (tra cui la prestigiosa silloge dei vincitori del Premio Montale Europa, 2004) non solo ribadiscono temi e modalità espressive ma, a riprova di un percorso che sta ulteriormente delineandosi nella propria originalità, mostrano chiare tracce di un’evoluzione a più livelli. Il tema centrale della fuga, modulato come perdita e sradicamento nel presente e negli spazi dell’esistenza, si rivela ad esempio sempre più come rifiuto di una precisa e fissa individualità, a favore del continuo divenire di una femminilità che è orma e matrice del cambiamento e occorrerebbe quindi porsi il quesito se quella della poetessa milanese non sia oggi via poetica capace di trasformare in forza un’insicurezza e una precarietà connaturate alla modernità, e la casualità dell’esistenza (la cristallizzazione del sé in un unico ruolo, sia pure sfaccettato) in un destino abbracciato con amore e spirito costruttivo.

I poemetti Al delta del Po e Frantumi – presenti tra le più recenti poesie – andando ben al di là del cumulo di immagini infrante di tanta (post)-modernità, rimandano a una visione della natura come unica realtà immutabile che si oppone alla tensione umana verso il divenire e cadere, come si diceva, verso il basso, nel nulla. Anche la città, certo, era ed è una presenza forte in questa poesia, ma sempre come sfondo di una storia o di una situazione, e rimanda comunque a un labirinto di strade che sottolineano il divenire e si fanno suo spazio; la persistenza della natura – le rocce, il mare, il cielo –  nei testi di Forse una geometria rimanda a ciò che ci è totalmente alieno e che non possiamo esperire: uno sfondo che non interagisce col soggetto, ma al massimo si lascia percepire proprio nella sua totale alterità e sostiene così il senso del vivere.

In conclusione, questa antologia colma un vuoto critico nei confronti di una delle voci più mature del panorama nazionale, senz’altro la miglior poetessa della sua generazione e di una delle migliori rappresentanti di quella generazione sommersa – come è stata definita recentemente7– ossia quella dei poeti nati tra la fine degli anni Cinquanta i Sessanta, per i quali la carenza di spazi e di visibilità ha agito da potente stimolo a ricercare vie personali e assolutamente innovative che fondono gli stimoli più diversi in una ricchezza tematica e in una coerenza espressiva e rappresentano al meglio il nostro tempo, l’essenza del fare poesia oggi.

 

(Dalla Introduzione alla raccolta)

 

Note

  1. Gabriela Fantato, Northern Geograpiy, translated by Emanuel di Pasquale, Foreword by Alfredo De Palchi, Introduction by Milo De Angelis, Gradiva Publications, Stony Brook, New York 2002, pp. 56. Parte di questi testi era apparsa, con il titolo di Geografie a nord, Bergamo 2000.
  2. Si veda Lea Melandri, Le passioni del corpo, Bollati Boringhieri, Torino 2001.
  3. Poesia contemporanea. VII Quaderno italiano, a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos, Milano 2001.
  4. Si veda ad esempio Marc Augé, Nonluoghi, Introduzione ad un’antropologia della surmodernità, Eléuthera, 1997 e Massimo Ilardi, Negli spazi vuoti della metropoli, Bollati Boringhieri, Torino, 1999.
  5. Sandro Montalto, Gabriela Fantato: la ricettività del corpo, in Sandro Montalto, Compendio di eresia, Joker, Novi Ligure 2004, pp. 99-105
  6. Un altro slittamento del significante, da una poesia che sviluppa temi affini come piccola mary (p. 30): “ – la libero dal male? – chiesi piano / e il mare le diedi con un gesto / ma il ventre troppo docile / non resse la ferita sulla cima” (sottolineature nostre). La sovrapposizione dei due sintagmi rimarca il finale tragico: il mare dato alla barca in secca (inadatta o non ancora pronta) diviene il male della vita, dell’esposizione allo spazio aperto in cui occorre decidere (ma il passo meriterebbe ulteriori approfondimenti).
  7. Si veda, per una introduzione e giustificazione del termine, l’Introduzione a Sotto la superficie, letture di poeti italiani (1970-2004), quaderno di saggi critici che presenta densi saggi monografici su un centinaio di poeti contemporanei, con particolare riguardo proprio a questa generazione sommersa. Il volume, edito da Bocca  (Milano 2004), è un supplemento della rivista La mosca di Milano, diretta da Gabriela Fantato, che è stata anche una delle promotrici e coordinatrici del progetto.

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