Anterem n. 82 – Editoriale

 

Il modo eminente in cui accade l’autenticità è il modo in cui l’essere umano vede configurarsi nella parola il mistero della propria consonanza col mondo. È un dire ulteriore: un appello alle cose che, ponendosi al di sopra e al di sotto della ragione e delle sue categorizzazioni, sono.
Tale appello consente di accedere pienamente alla sensibilità e avviene in un progredire che è già un tornare; in un compiere un passo che ci conduce là dove già ci si trova, per divenire ciò che si è.

Il dire ulteriore comporta conseguenze di portata molto vasta, tanto da mettere in connessione i due opposti stati del sentire e del pensare.
L’incontro del pensiero con l’ulteriorità della parola attribuisce alla riflessione la sua forza critica nei confronti dei caratteri alienanti dell’esistenza e impone di compiere fino in fondo lo sforzo di pensare oltre il tempo calcolatorio dell’economia. L’idea di una via estetica alla liberazione – così come la propugna Marcuse – può ancora indicare un cammino realisticamente percorribile.

Che cosa consente alla sensibilità di farsi cifra della vita stessa e di rispondere alla domanda dell’estetica sull’etica? Ciò accade quando il mondo si annuncia facendo cenno al pathos del dire ulteriore: lasciando spazio all’esistenza in tutte le sue molteplici schegge di senso. Lo sa bene Hölderlin quando scrive: «[…] e chi più si ama / vive vicino, esausto su / monti separatissimi».

La parola ha tutto da domandare, e il proprio permanere nell’orizzonte della domanda testimonia la sua etica, la sua volontà di introdurci nello spazio dei problemi che chiedono di essere portati alla luce; testimonia l’infrangersi di un’abitudine, l’abbandonare una dimora abituale.

Il rapporto dell’essere umano con la parola svela più di quanto le correnti visioni filosofiche siano disposte a riconoscere.
Ci avverte Bonnefoy: «Ci sono occhi spalancati in fondo agli occhi chiusi», invitandoci così a dire la verità della condizione mortale: la nostra solitudine. La creatura umana è sola sulla terra. È prigioniera in un paretaio che non è l’ombra di un perduto eden, ma il confine, mobile e sempre ridefinibile, tra caducità e caduta.

La parola poetica è la salvaguardia di ciò che la vita non dice. È una parola “delebile”, sottratta alla coscienza per mettere in essere le cose, così come annuncia la pagina rilkiana: «Terra, non è questo ciò che vuoi, / invisibile risorgere in noi?». Esattamente come l’esistenza umana, l’esperienza poetica del pensiero non è riducibile a ciò che di fatto attualmente è, ma si protende verso ciò che può essere,ovvero il proprio inevitabile da-farsi. Suscita l’opera e l’operare. Chiamando al fare, induce l’essere umano a partecipare di sé.
A partire da questo inizio ritrovato, possono aver luogo una nuova scrittura e un pensare che rifiutino di rispecchiarsi in un sistema già dato delle cose.

L’esperienza poetica del pensiero produce nel pensiero stesso una profonda e inimmaginabile trasformazione che attraverso il sentire lo porta “prima” del pensiero, in rapporto diretto con le cose.
Il pensiero ha se stesso come origine. È un inizio assoluto. La storia può rendere conto solo del suo sviluppo. Non a caso con la scrittura giunge all’opera qualcosa di impensato: quell’articolarsi dello spazio e del tempo nell’avvenimento della parola. È un gesto che produce degli eventi di scrittura tali da risultare più potenti della filosofia e delle poetiche. È un procedere quasi a tentoni nell’ancora impensato, per compiere il quale è forse necessario un difficile balzo tra il non-più e il non-ancora.

Il dire ulteriore è un fare, prima che una teoria. C’è nel dire ulteriore un far accadere ciò che ancora non è: l’opera.
L’opera è una deriva della scrittura, che vive solo nel suo farsi. È un’esperienza che sopraggiunge per un turbamento e un coinvolgimento profondi dell’essere umano. È la modalità di un sentire radicalmente alternativo all’apatia del pensiero tipica dell’età della tecnica.

È incessante il richiamo alla responsabilità che impone la parola poetica. Assegnando l’essere umano all’ascolto, lo sottrae alla cura ordinata di un sapere disciplinato – rassicurato da un metodo, rafforzato da uno statuto, da un canone – e lo consegna al suo limite, al mistero di appartenere a quanto è assolutamente estraneo e irriducibile al sé.

L’oscurità e la positiva inclinazione al pathos sono state abbandonate perché risultavano scomode. L’essere umano ha preferito risolvere l’incomprensibile in rappresentazione e intelletto, anziché misurarsi con le frontiere del proprio destino notturno, dove la frase poetica – essendo qualcosa di strutturato ma non prevedibile – è ciò che consente l’accesso all’indeterminato.
Il pensiero che nasce dalla poesia non procede su alcuna base solida, sicura, bensì su un terreno cosparso da crepe e lacune; ecco perché è all’origine di un sapere ovunque attraversato da profondità oscure.
Parlare dell’esperienza poetica del pensiero è come parlare della nascita di uno sguardo, del primo formularsi di una parola sul bordo di un dire ulteriore.

(Qui per leggere alcune anterpime del numero; qui per abbonarsi)

Flavio Ermini
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