Altre Voci n.20: Notturnale – Flavio Ermini su ‘Entrata nel nero’ di Ranieri Teti

 

Entrata nel nero 

Ranieri Teti

pp. 60

Edizioni Kolibris


 

Notturnale

Nel suo ultimo libro di poesia, Entrata nel nero, Ranieri Teti ci parla di un luogo umbratile che ci chiama; dà conto del nostro andare verso questo luogo; ci rivela che il nostro cammino non ci porta dove siamo diretti, ma dove “siamo scritti”.
Sono questi i tre movimenti che caratterizzano Entrata nel nero e coincidono con le tre parti che costituiscono l’opera: Risonanze dell’oscuro, La destinazione opaca, Dove siamo scritti. Solo cogliendo la natura profonda di questi tre movimenti si possono scorgere nella pratica dell’invenzione di Teti i riflessi di una poetica travagliata dal dolore, liminare: una poetica che sulla soglia accoglie – tenendole insieme come separate – le espressioni estreme dell’estrema sofferenza.

Dunque: c’è un luogo che ci chiama e che ci ingiunge di seguire un cammino: è il cammino che si intraprende affinché, oltre l’esilio cui siamo esposti nascendo, si possa concepire anche un ritorno (“ecco l’andare che ritorna nelle vene”).
In questo movimento verso il luogo che ci chiama, l’esperienza di ciò che è straniero – ovvero di ciò che “avviene intorno agli occhi”, fuori dalla vista, e quindi al buio – non è solo una fase del viaggio ma il suo momento decisivo, perché solo a partire da esso è possibile mutare rotta e trovare la “direzione che diserta il suo contrario”. Solo in questo senso l’andare “nella memoria delle cose / più vicine a meno chiarore” può indicare la ricerca di un inizio più originario e non soltanto l’esperienza di un’alterità irriducibile alle consuetudini.

Ecco la posta in gioco: la parola va in cerca di quel punto ortivo dove può trattenersi come un elemento estraneo. L’entrata di cui ci parla Teti nega ogni idea di appaesamento e di possesso. È un dire-di-no, che non è ascesi, ma pura presa di distanza: è l’occasione di un’attesa, per ascoltare le “risonanze dell’oscuro”, per assentire al richiamo di una “destinazione opaca”.

Si può pensare alla poesia di Teti come a una frontiera del sentire. Vi è narrato lo schiudersi allo smarrimento e al ritrovarsi, uguali e diversi ogni volta, in mezzo alle cose del mondo.
Entrata nel nero
è il racconto di un venire alla parola. E se la forma di questo racconto è quella di un mettersi in cammino – al fine di giungere al luogo umbratile che ci chiama – significa che è un cammino tutto da costruire, perché le strade già tracciate non sono più percorribili.

Si fanno incontro a noi figure tenebrali da cui è fuggita ogni scheggia di dolcezza e di speranza, tanto che una tristezza dilagante e profonda le rende strazianti.
Siamo davvero in un mondo radicalmente altro da quello conosciuto, “tutto essendo altrove”. In questa “destinazione opaca” si fanno incontro a noi immagini ardenti nella loro cascata che non ha fine e che risuona in schianti e scogli.
In questo moto incessante, il pensiero incontra la tenebra, quale declino dei giorni e approssimarsi dell’inverno. In questa cascata, le parole s’incontrano e si scontrano; tra affinità fonetiche e gridi si richiamano e si respingono.

La scrittura di Teti ha fatto della notte il suo tempo di elezione, dove abitare “una caduta / al suolo”. Una notturnalità senza scampo impasta e incalza questo magma metamorfico che si muove nell’orrore di un’esistenza braccata.
Il luogo umbratile che Teti ci conduce a esplorare è la regione notturna dell’essere-per-le-tenebre. Qui siamo destinati a vivere “tra ceneri e terra”.

Qualcosa fende la notte, ma non è ancora il giorno. Questa caduta verso una “destinazione opaca” non mette in conto un nuovo inizio. Ciò di cui dà conto è il terrore di quel che è irrimediabilmente perduto. Essere-per-le-tenebre costituisce il nostro incerto cammino.
Ci spostiamo da un luogo all’altro, instancabilmente, in una ricerca continua. E in questo errare ci imbattiamo anche nell’errore, che è la condizione prima del conoscere, condizione per cercare ancora, per giungere, alfine, non dove siamo diretti, ma “dove siamo scritti” e “quasi senza restare” rimetterci in cammino.

 

(Altre note alla raccolta si possono leggere qui, qui e qui)

Flavio Ermini
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