La difesa si è fatta barriera,
—
hai la porta chiusa
e nella casa i muri crescono
da dentro.
di Redazione
[Vista la recente iniziativa che vede la collaborazione di Poesia 2.0 con "Opera Prima", abbiamo deciso di presentare tutti gli autori che hanno pubblicato per la collana, chiedendo loro una testimonianza diretta della loro personale esperienza. Di seguito, la testimonianza di Giovanni Campana, alcune poesie scelte e la postfazione alla raccolta di Tiziano Salari. Buona lettura.]
Una testimonianza
di Giovanni Campana
A “Opera Prima” devo in primo luogo di aver segnato nella mia esistenza personale il passaggio alla difficile e a lungo perseguita dimensione di rispetto verso me stesso e i miei testi. Crederci: questa la condizione di gran lunga più ardua da conquistare durante l’annoso lavoro di scrittura dei testi pubblicati poi in significativa selezione in “Opera Prima”. Già l’essere finalista del premio Montano mi aveva… insospettito. Ma è stata la proposta di pubblicazione in “Opera Prima“, con l’inequivocabile autenticità attestata dal personale sostegno economico di personalità note e non note, che mi ha finalmente tolto da quello stato dubitativo e sofferente: dunque, quel che era venuto fuori da uno scavo di anni, tanto angoscioso quanto ermetico e apparentemente astruso, aveva davvero un senso riconoscibile e riconosciuto e persino una sua qualche dignità letteraria… Colpiva, tra l’altro, la serietà e l’impegno della puntuale e organica nota critica di Tiziano Salari. Sta a me ora la fatica di cercare contatti: ora non mi manca la serena sicurezza per farmi avanti. E “Opera Prima” rappresenta una presentazione effettivamente considerata. Quanto all’invio dell’opera a intellettuali italiani, ho avuto un riconoscimento da parte di una figura significativa della scena letteraria italiana del ‘900 (*) e da una stimata poetessa siciliana, attivissima militante della causa della poesia, che ha fatto conoscere il mio lavoro a destra e a manca, seminando recensioni e apprezzamenti in varie pubblicazioni e mettendomi in contatto con un noto apprezzato poeta italiano (**), il cui riconoscimento, pieno e sincero, mi ha profondamente toccato. Il successo entusiastico della presentazione del libro qui in città – con il patrocinio dell’Accademia nazionale di scienze, lettere e arti e della Società Dante Alighieri – mi ha confermato nella determinazione di assumere come compito personale, quasi un programma di vita, la prosecuzione della mia modesta ricerca di pensiero ed espressiva… Dell’esperienza di “Opera Prima” mi rimane infine la lezione umana di vicinanza discreta e rassicurante di un intellettuale come Flavio Ermini.
(*) Bàrberi Squarotti
(**) Paolo Ruffilli
Ombra e luce nel pensiero di Giovanni Campana
di Tiziano Salari
Una delle inquietudini dell’attuale dibattito filosofico è l’attraversamento del deserto lasciato alle spalle dalle filosofie del nichilismo e dalla loro destituzione del concetto di soggetto e di verità. E che le filosofie del nichilismo abbiano fatto il loro tempo, e che ci troviamo di fronte a una svolta che esige tutta la nostra responsabilità, è la premessa anche di questo libro singolare di Giovanni Campana, Pensieri sulla soglia e Autoglosse, composto di prose e di versi, e che si articola intorno ad alcune domande fondamentali. Domande fondamentali presenti nel dibattito filosofico, ma che alimentano anche il pensiero poetico, quello più avvertito della necessità del domandare dell’essere e della verità. “La soglia cui qui si allude – viene detto della Premessa dell’autore – è la penosa condizione di sospensione in cui ci troviamo da tempo – ma oggi in modo particolarmente angoscioso – tra certezze che provengono dal passato, ormai crollate, e la nuova certezza della loro insufficienza, inadeguatezza, implausibilità. Soglia è anche il valore minimo necessario perché si produca un nuovo inizio.
Giovanni Campana circonda di riflessioni (di autoglosse) il suo libro poetico. Ci parla dei libri che hanno accompagnato la sua meditazione (Severino, Cacciari, Luhmann). E in ogni suo verso si avverte l’intensità del suo modo di sentire (vivere) il concetto e l’insufficienza del concetto a placare l’angoscia del domandare. E l’apertura del libro porta un titolo inconsueto: “Restituzioni”. Che cosa all’uomo deve essere restituito? Si tratta, ovviamente, di qualcosa che all’uomo è stato tolto. Ora se nella modernità è stato sottratto qualcosa all’uomo quel qualcosa è stato Dio. La morte di Dio, annunciata dal folle nella Gaia scienza di Nietzsche, è l’evento all’origine del sovvertimento ontologico che ci ha imprigionato nel mondo come in un tutto compiuto. Giovanni Campana non nomina mai Dio, ma ci richiama da subito alla nostra mortalità e finitezza senza Dio.
Abitiamo un mondo che dev’esser tolto
siamo coloro che saranno tolti
Che cosa significa? Se il mondo deve avere una fine, vuol dire che ha avuto pure un inizio, cioè è stato creato, non è sorto dal caso, dalla cieca casualità del big bang, e noi stessi, che abitiamo il mondo, anticipiamo, con la nostra stessa fine, il senso complessivo della presenza dell’uomo sulla terra.
e i nostri primi luoghi erano eterni
Se, come ritengo, Campana accenna qui al paradiso da cui siamo decaduti in seguito al peccato originale, da dove può cominciare una riappropriazione dei primi luoghi, del paradiso?
e ora le mani, i passi, le parole
i nostri volti
questi innumerevoli indizi d’eterno
sono tracce rimaste
o un inizio di restituzione?
Tuttavia una traccia di quel primo uomo uscito dalle mani di Dio e quindi ritenuto perfetto, continua a rimanere impresso, come indizi d’eterno, negli uomini; e Campana non intende, certo, la schopenahueriana continuità della specie, una cieca volontà eterna di perpetuazione del male di vivere.
siamo sempre tutti nei luoghi estremi
Nella poesia di Giovanni Campana s’intrecciano numerevoli suggestioni filosofiche e teologiche. E quella che segue è una mia interpretazione del suo pensiero che, come ogni pensiero complesso, offre possibilità diverse d’interpretazione. I luoghi estremi non sono altro, per me, che la nostra attuale esistenza, o il nostro essere gettati nel mondo, con le nostre vite limitate, in un mondo limitato: quello che, dalle loro particolari angolazioni, è, per Adorno e Heidegger, il mondo della metafisica compiuta, o, per Severino, il velo della follia nichilistica del divenire che nasconde agli uomini il destino della verità e l’essenziale permanenza dell’essere.
è così smaccatamente reale questo mondo
non potrà che continuare a consumarsi
non resterà non adempiuta ogni necessità:
che cosa potrà essere restituito che non sia prima tolto?
solo le ombre sono restituite fin da prima
volevate essere ombre?
Il mondo – l’ente – ci è presente ormai nella sua totalità, e questa totalità non potrà che continuare a corrodersi, a diminuire, a consumarsi. Ma può rimanere senza risposta quella primitiva traccia d’eterno impressa nell’uomo? E che cosa ci dev’essere restituito che non sia stato prima tolto, e cioè il paradiso, anteriore alla caduta? E questa restituzione non può essere soltanto un simulacro (ombre), ma un’integrale restituzione. Ma è la prosecuzione del discorso di Giovanni Campana che ci sorprende. Kafka scriveva, negli Aforismi di Zürau, che “la cacciata dal paradiso è un processo eterno nella sua parte principale […] e la vita nel mondo inevitabile”, ma che “l’eternità dell’evento rende tuttavia possibile non solo che potremmo rimanere perennemente in paradiso, ma che di fatto perennemente vi siamo”. Per Campana è proprio questo il
luminoso compimento:
ogni infinita assenza è svanita
non restiamo che noi
e cose d’intorno
qualcosa di perfetto, a suo modo,
un’infinita finitezza
volenti o nolenti, siamo completamente restituiti.
E cioè restituiti in carne e ossa, anima e corpo, e tuttavia avvertendo, in quella perfezione, qualcosa che ci trascende infinitamente: un’infinita finitezza. Espressione che mi fa venire in mente una proposizione del Tractatus di Wittgenstein: “Intuire il mondo sub specie aeterni è intuirlo quale tutto – limitato –”.
Nelle due brevi poesie d’apertura viene così sintetizzato l’intero percorso di un testo che tuttavia continua a rimanere sulla soglia, e quindi nell’inquietudine. Quando, al 4 leggiamo:
Improvvisamente pensammo il mondo
come qualcosa che può essere compreso
Quell’improvvisamente dell’incipit in realtà rinvia all’inizio di una storia millenaria: la storia della metafisica. E la metafisica è la comprensione dell’ente nella sua totalità. Ma, come in modi diversi ha insistito la filosofia contemporanea, la storia della filosofia occidentale è anche la storia della dimenticanza dell’essere. Giovanni Campana vuole tuttavia interrogarsi a fondo su quel primo inizio, che rinchiude il mondo nel concetto come un tutto misurabile. “Ente è ciò che si mostra così, in stabilità e presenza” (Heidegger).
ci ritrovammo pieni di ogni limite
ci parve di toccare ogni parete
E stabilità e presenza si rivelano attraverso l’angoscia come il niente in cui siamo sospesi sulla soglia. O dopo aver esplorato i limiti della ragione, come scriveva Kant, “la terra della verità” sentirla “circondata da un oceano vasto e tempestoso”. Al 5:
Non si colma l’irriducibile voragine
E quando al 7. leggiamo:
Più acutamente fummo restituiti a noi stessi
nell’estrema perdizione,
non ci sembra di sentire un’eco dei celebri versi di Hölderlin: “Ma là dove c’è il pericolo, cresce / Anche ciò che salva”? Ma che significa “salvare” ed essere “restituiti a noi stessi” per Giovanni Campana? Le Autoglosse tentano di andare incontro al linguaggio poetico, che si riapre, pagina dopo pagina,a nuovi interrogativi. Abbiamo la perlustrazione del limite, il suo sfondamento, che ci riporta ogni volta all’insuperabilità della nostra condizione (Confini e Autiglosse 3 e 4);il disvelamento del mondo, che ha tolto alle parole ogni splendore e margine di mistero (alla fine non fu che vicinanza/e tutto fu alla portata). Dopo l’apologo di Eufemio (Autoglossa 5), che vedeva nell’esattezza delle parole nel corrispondere alle cose una continua perdita della loro bellezza, e il suo dubbio se non fosse meglio”adoperarsi a mantenere le cose nella loro antica distanza”, Giovanni Campana ribadisce la sua convinzione che “le cose vicine e conosciute possano mai ritornare ad essere oscure”, ma (in Autoglossa 6) senza contraddirsi, ripete che proprio quelle parole”vestono le nostre anime […] splendidamente” e, che se ne abbiamo bisogno di altre, esse sono per noi “inaccessibili”, ma che proprio da quelle parole gli uomini si devono far guidare. Ed ecco che ci troviamo immersi in una duplicità di orizzonti, oscillando tra il fatto che non vi è alcun enigma (“l’enigma non v’è”, scriveva Wittgenstein, dopo l’intuizione del mondo sub specie aeterni quale tutto limitato) e lo spalancarsi di un abisso insondabile di buio dietro le cose conosciute. Ma è da quel buio che a volte proviene una luce.
A volte passerai come aria un velo
vedrai la sponda luminosa
per quel che dura un incanto
E l’ultima sezione dei Pensieri sulla soglia s’intitola, appunto, “Luci”. Ed è questa una sezione di riflessione aperta, problematica, in cui l’essenza dell’Essere non significa più assolutamente la presenza nello spazio-tempo, ma questa presenza avvolta da una luce rivestita soltanto di parole inaccessibili, e che tuttavia lascia nel dubbio se sia veramente una luce e se veramente le parole, da cui è rivestita, siano inaccessibili. Lascio al lettore muoversi tra gli interrogativi di cui Giovanni Campana circonda la sua “metafisica della luce”. Sono interrogativi che hanno investito il pensiero post- metafisico, da Heidegger a Severino, e tra i quali anche Giovanni Campana si muove col ritegno di chi, ancora titubante sulla soglia, è tentato da una declinazione neoplatonica: “E questa luce di cui egli parlava nel racconto era la stessa divina luce che lui, l’Uno, il Primo, abita e vive essendo Egli la luce stessa […]” (Autoglosse 11, “Cecità del veggente”); ma solo come tentazione. Essere sulla soglia significa che per noi luce e ombra continuano ad avvolgerci come i giochi di luce e ombra nel bosco, nei Chiari del bosco della Zambrano o nella Lichtung heideggeriana
continuiamo a sentire intimamente di essere una luce,
e continuiamo a sentire, intimamente di essere un buio
Il pensiero conclusivo di Giovanni Campana è che la luce non arriva mai a disvelare completamente l’oscurità della nostra condizione, ma che il timore di rimanere perduti nel buio, non fa che accrescere il nostro bisogno di luce.
Che un continuo meditare e domandare del senso e della verità dell’Essere si presenti come un’opera prima di poesia, in cui sono saltati i tradizionali steccati che hanno separato nei millenni poesia e filosofia, non significa soltanto che sia in atto una pacifica riconciliazione tra le due forme espressive. Significa che un pensiero, che non è più filosofia né poesia in senso tradizionale, tenta un accesso alla parola per dire l’insufficienza e l’inadeguatezza di quel sapere e cerca di trovare se stesso e, arrivare a possedersi, attraverso nuove vie del pensiero.
Giovanni Campana è nato a Modena nel 1949. Ha ricevuto un’intensa formazione cattolica. Dopo il liceo classico, si è laureato in filosofia all’Alma Mater di Bologna con una tesi sul problema del tempo nella teologia di Karl Barth. È stato insegnante di lettere, poi, a lungo, preside nella scuola media. Attualmente svolge attività di formazione dei docenti sui temi dell’apprendimento e del disagio. La sua esperienza intellettuale è dominata dalla durezza del confronto tra il riferimento religioso, sia pure incessantemente problematizzato, e la piena immersione nel pensiero filosofico ed epistemologico contemporaneo.
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