Variazioni Meridiano – 3: Giulio Marzaioli

In assenza di.

Se ciò che è riflesso somiglia
occorre che il vetro sia rotto
perché con le schegge si tagli.
La pelle (l’immagine sotto).

 

Riportare notizie in merito ad un percorso proprio implica la necessità di un’osservazione attenta ed attendibile. Poiché, tuttavia, un percorso in fieri è per definizione in continuo movimento, una fotografia dello stesso non potrebbe che risultare mossa. Inoltre, riferire di un’esperienza necessaria continuamente rinnovata (quale la scrittura per chi, qui, ne scrive) sarebbe come segnare i punti cardinali del proprio mangiare o dormire etc.. Infine, il miglior modo che un autore può scegliere per veicolare il proprio percorso è, per l’appunto, la propria opera e più rivolto a questa sarà lo sguardo più la focale risulterà esatta. Una prima forma di assenza è quindi mancare rispetto al compito assegnato. Ecco che di fronte all’invito a tracciare una traiettoria relativamente al proprio “fare versi”, chi scrive in questa sede tenta impropriamente di seguire la traiettoria che un verso, il verso di qualunque autore di poesia, fa o può fare.

Qualsiasi percorso presuppone un altrove da raggiungere, uno spazio pensato ma non presente di cui, al limite, si possono indicare le coordinate. Tale “altro dove” viene quindi ad essere una ulteriore forma di assenza tale da causare movimento. Lo stesso valga per il percorso che conduce verso l’altro, tracciabile fino a che questi manca alla ricerca, posto che nel momento in cui l’altro è raggiunto dal proprio sguardo non può dirsi niente che non rischi di essere pronunciato, indebitamente, per voce altrui.

Nel segno di questa duplice forma di assenza, come categorie della poesia si definiscono uno spazio e un tempo che mancano alla propria determinazione, ovvero che, in qualche modo, bisogna conquistare.

Soccorre, in questa ricerca, una definizione che M. Foucault ha dato del non-luogo. L’eterotopia, così la definisce Foucault, è per l’appunto un contro-luogo in cui si realizza il luogo ideale (a differenza dell’utopia) e dove le regole di determinazione dello spazio allo stesso tempo vengono rappresentate e sovvertite (esempi di etrotopie possono essere considerati ospedali e cimiteri o, nel passato, il viaggio di nozze in cui la sposa perdeva la propria verginità, fuori dal cerchio dell’imbarazzo proprio perché in un non-luogo, rappresentato dalla dimensione del viaggio).

Venendo alla scrittura in versi, può essere considerata la pagina una forma di eterotopia, laddove con la violazione del bianco si delinea e perimetra uno spazio (coperto da inchiostro) che prima non esisteva e dove, tuttavia, non si può trovare ferma collocazione nel momento in cui le parole chiamano ad andare altrove (così il noto aforisma di K. Kraus: “quanto più vicino si guarda una parola, tanto più lontano essa rimanda lo sguardo”).

Questo spostamento, rectius scarto, dalla consueta forma di ascolto (inteso anche come “lettura”) viene ulteriormente favorito dall’ostacolo – sintattico, semantico, metrico – provocato dalla di-versificazione del linguaggio. Di conseguenza, per entrare nel solco del testo poetico occorre disporre l’attenzione su un terreno non conosciuto e su tale terreno cercare una mappatura.

Paradossalmente, detto “esercizio” di avvicinamento da parte del lettore – o ascoltatore – sarebbe quanto mai opportuno proprio nell’ambito delle dinamiche della società attuale che, per contro, sembra offrire possibilità sempre più limitate alla divulgazione della poesia. La riduzione e frammentazione del tempo, l’abitudine ad essere attraversati da messaggi brevi ed allo stesso tempo la necessità di pause di sospensione del senso (tempo?) quotidiano sembrerebbero offrire alla scrittura in versi, in particolare al testo breve, la più vasta diffusione (in linea con quanto, relativamente al racconto, si legge nella lezione sulla rapidità di I. Calvino). Motivi vari, che meriterebbero altra e più ampia trattazione, impediscono che tale considerazione trovi riscontro. Qui preme tuttavia tornare agli elementi che caratterizzano il rapporto tra verso e ascolto.

Si deve, infatti, rilevare come, nel muovere ad uno spazio e ad un tempo in divenire, fondamentale importanza assume il ritmo. Se si vuole, infatti, superare il retaggio della vita quotidiana che ci fa tracciare come lineare la proiezione del tempo nello spazio (così H. Bergson), bisogna percepire e ricondursi ad un ritmo che, scrive Brunella Antomarini in un suo saggio, assume valore sapienziale proprio perché tenta di ri-formulare un ritmo a-dialogico e quindi, in qualche modo, “naturale”.

Delineati così i meridiani entro cui si orienta il verso poetico, per chi scrive e per chi legge, viene da chiedersi se tale orientamento possa o debba portare a una direzione. In altre parole se e quale funzione – oggi – può assumere la poesia.

Fermo restando quanto sopra scritto in merito alle potenzialità di sospensione e “respiro” che la dimensione della poesia può concedere all’abitante del nostro tempo, non credo che possa davvero riconoscersi al linguaggio poetico una funzione “civile”, se con tale termine si intende un effettiva possibilità di incidenza o quantomeno di denuncia rispetto alla pieghe del tessuto sociale, e ciò per due motivi.

In primo luogo, ed è questo un dato incontrovertibile, la poesia si rivolge a pochi (anzi, rispetto ad altre epoche, pochissimi) che spesso sono lettori già avvertiti perché essi stessi autori di poesia.
In secondo luogo la poesia, per sua stessa natura, implica uno sguardo trasfigurato dal vincolo della forma che, proprio per questo, rende implicito un allontanamento dal fatto quale esso è.

Tornando alle categorie di spazio e tempo, come sopra definite, credo che l’incidenza della poesia sia oggi da individuare, piuttosto, nelle modalità e qualità della percezione.

Per intendersi, la “dimensione” di una qualunque realtà viene veicolata in miglior modo da mezzi che ne riportano fedelmente connotati (quindi video e fotografia), per di più in tempo reale rispetto a mutamenti significativi della stessa (telegiornali, internet etc.).

Detti mezzi, tuttavia, difficilmente attuano una qualche forma di dialogo con le categorie della percezione. Non vengono, insomma, alterati o toccati in alcun modo i parametri del nostro tempo e del nostro spazio, cosicché l’informazione entra nel corso della quotidianità senza che questa subisca alcuna modifica. E’ così che si genera il germe dell’indifferenza.

Per contro, lo scarto che produce il verso poetico (così come qualsiasi altra forma espressiva che non ricalchi la nostra abitudine alla percezione) fa sì che chi scrive e chi legge possano incontrare il dato, la cosa o l’idea in uno spazio e in un tempo diversi dal quotidiano e, quindi, liberata dalla consuetudine e dal logorio, la percezione non solo ha modo di attivarsi, ma anche di cogliere in modo ulteriore il proprio oggetto.

Ecco, dunque, che la poesia è tutta civile, nel momento in cui muove e si muove verso l’altro scommettendo nell’invito a collocare/collocarsi altrove rispetto al punto di partenza. La scommessa si gioca, in tal senso, proprio sulla ricerca dell’altro, assenza cercata, ombra chiamata a sé e sedotta perché avvenga lo scambio con il corpo e nella personificazione dell’attesa si compia un atto, che anche nella scrittura è sempre atto di “amore” (scrive Mario Perniola, a proposito di Klossowski, che “l’essenza dell’erotismo è perciò l’ospitalità, un vestire l’estraneo come se fosse proprio e il proprio come se fosse estraneo”).

Da questa commistione di sguardi può approfondirsi ed ampliarsi la capacità di “lettura”, tale da generare occhi che osservano in profondità anziché specchi oculari in cui la realtà si riflette così come ci viene presentata. A tanto, o poco, credo che possa servire un verso, tanto più “presente” quanto più libero da altre parole attorno.

(già su Nazione Indiana)

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