Maria Grazia Lenisa: ‘I Credenti’

I credenti

Maria Grazia Lenisa

1968, pp. 58

Edizioni Atermine

 

E’ stato Giovanni Papini, seguito da Enrico Falqui, a riconoscere la peculiarità della bellezza nella filosofia e l’attitudine dell’arte, quindi della poesia, alla ricerca della verità. Prima si era persuasi dell’inverso, ma già Heidegger aveva avvertito che il pensatore «dice l’essere» e il poeta «nomina il sacro»: lo nomina sempre, anche quando non ne abbia l’ aria; e questo avviene sopra tutto quando il poeta sia tale indubitabilmente e si sia costretti a dire: «Qui è la poesia».

Come, ad esempio, nel caso di Maria Grazia Lenisa la quale, talvolta, è sorprendibile nell’atto di compiere un passo indietro, dalla poesia vera e propria al pensiero constatante, proprio del pensatore, ma per obbedire al bisogno, diremmo, di non perdere il conseguito. Chi si addentra in una foresta ogni tanto traccia o incide sulla corteccia di un albero il segno detto «èndice»: 1′ insieme degli «èndici» dà la strada e ciascuno di essi un tratto; anche Maria Grazia Lenisa dice, come per non dimenticare: «Sì». Che cosa ? «Il tempo muore con noi».

Se il poeta non scopre, il suo è un soliloquio; la poetessa comincia, con una siffatta scoperta, e la lirica e la bibliografia nella quale, a un certo punto, si colloca «L’uccello nell’inverno» dove la sorprendiamo che dice:

Alvin Palmer, creatura di Dio,
pelle nera, ma liscia
come la buccia del fico,
Alvin Palmer per la tua anima
bianca come il lino
ti chiamo fratello.

… se io t’avessi incontrato,
sarebbe stato dolce
ridere con te
un riso di denti bianchi,
parlare di viaggi lontani…

Ma di un viaggio lontano non parla con i suoi lettori? Ne parla, per certo, senza proposito; il che lo fa anche «più lontano» come di là da talune cose che occupano il primo piano del pensiero di tutti. Chi ha detto della «donna» e della «zolla» insieme s’ immagina che abbia parlato dopo avere ricevuta questa confidenza di Maria Grazia Lenisa:

La fecondità della terra
mi commosse
e sentii nel mio corpo
ad ogni stagione
germogliare il seme,
gettato nei solchi.
Le spighe diritte
contro il sole
m’accarezzarono il mento
e diedero al mio sorriso
sprazzi d’oro.

Ed io sapevo
come crescesse
la spiga fragrante,
accostando l’orecchio alla terra.
E ne portavo una in seno
a luglio,
e ridevo bruna come i miei campi
agli uomini di mio padre…

Chi ha, inoltre, detto che la primavera può trovarsi in noi anche prima che venga ? Ella si domanda:

Vedrò quest’anno primavera?
Il sole mi frugherà in seno,
china a calmare la sete
dei gerani, come ieri,
come sempre ?
Intanto una piccola febbre
mi consuma e gli occhi si fanno
più tristi e più grandi.
Forse l’amore non entra, s’è chiusa la porta.
O cuore, cuore di fanciulla,
che scalpiti come un capriolo
ai primi giochi d’amore sui prati,
irrequieto, non è giunto ancor marzo,
un po’ di sole t’illude.
E’ febbraio, le notti sono d’attesa per te…

Strano a dirsi: la voce della poetessa batte al nostro orecchio, ma da dove giunge? Maria Grazia Lenisa è respiro di oggi, tuttavia la sua voce fiorisce di un’altra. Oppure la rifiorisce?

Diciamo la voce, non già la parola – e dunque diciamo la musica alla quale Saffo, non vicina né lontana, assona: «Fredda, l’acqua risuona di tra i meli e la schiarita tra gli alberi si colora di rose. Il sopore scende in uno col sussurro delle foglie. Fioriture di primavera costellano i prati; il finocchio respira con l’aria». Ognuna di queste parole offre un’attenzione che è sempre attesa; ed ecco, Maria Grazia dubita «Forse l’amore…», Saffo invoca «Afrodite…».

La poetessa è partita dal Friuli alla volta dei giorni e dei paesi; una volta giunge in Puglia, di là dal cui mare Saffo è vissuta; ma la voce, che ci fa ripensare a quella di Saffo, ha per certo la medesima spinta; vogliamo dire lo stesso cuore – e alla prima scoperta (del tempo che muore con noi), la poetessa aggiunge quella «del sud», ma non quella «del profondo sud» della letteratura americana affamigliata in Italia sopra tutto da scrittori meridionali; è il sud mediterraneo il cui sentimento fa sì che la poetessa non s’impigli nella polemica sociale dove ha importanza la soddisfazione dei bisogni dell’uomo, non la sua solitudine. Sono più sensibili all’uomo coloro i quali fanno cadere il loro accento sulla libertà, incontro a cui si va sempre, in mille modi, di cui il più comune è il viaggio; e non a caso Dante disse: «Libertà vo cercando…». La quale non può darsi che sia quella che non si pensa? per ipotesi il paese più nostro o dell’anima nostra? Dove, nel caso della poetessa, Alceo continua a dire: «Coronata di viole, gentile ridente Saff o…», cui fa riscontro l’esclamazione di Maria Grazia Lenisa:

O fossi io la sicula fanciulla
dal piè danzante, fiore dell’Ortigia,
che alle correnti d’Aretusa
affida le bianche membra…

Si pensa, ascoltando, a una lontananza che arrivi a sconfinarla, sicché i punti delle soste lungo le strade le restano sempre alle spalle come quando, giunta in Vallombrosa (e ai «Canti Vallombrosiani») dice parole nelle quali è chiaro più che in altre il suo sopravanzarsi pur stando lì:

Più lontano si faceva il cielo, più forte
il loro gravitare verso il pianeta ormai spento,
attratte da una buia forza nascosta.
E quando la materia penetrò nell’intima aerea sostanza,
a Dio, tremende, gridarono: «Perché ci hai create?».

Si pensa alle scene lucreziane nelle quali i travolti dai cavalli dei vittoriosi, sbalzati nei fregi dei grandi artisti greci sui frontali dell’Acropoli, gridano proprio: «Perché siamo nati ?»

Aldo Capasso commenta: «Sono versi vigorosi, anzi potenti, ed effettualmente contengono qualcosa di buio»; anche, può darsi, per troppa luce messa nella poesia dalla consapevolezza della condizione umana, della quale è peculiare la gioia, come si sente dalla poetessa:

… e i campi mi accecarono
di luce,
il mio volto
splendette come bronzo
ed io palpitavo tutta
nella mia veste, ondeggiando
quasi una spiga vivente.

Ma della condizione umana non meno peculiare è la sofferenza:

E’ troppo,
questo è dare troppo per il pane…

Già nella nostra condizione è insorta la domanda: perché siamo nati? perché ci hai creati? e la constatazione del troppo costo del pane continua ad allontanare il limite sul quale, tutta via, siamo attesi. La poetessa lo sente di passo in passo.

Per non essere solo l’uomo ama; attrae nella propria un’altra solitudine, facendone una di due – così si crede da taluno; così forse è; nella incertezza camminiamo. Segnatamente cammina Maria Grazia Lenisa, ed è come se ora stessimo insieme con lei per giungere. Certo siamo fatti persuasi da lei: molte cose che lei crede le crediamo anche noi – per esempio, il tempo che muore con noi. Ma dopo, morto il tempo e noi con esso, che avviene? Non giovano le domande ultimative; giova sapere quel che ignoravamo prima che leggessimo Maria Grazia Lenisa: essere la solitudine non invincibile; tu puoi lasciarmi solo, ma che importa se io non ti lascio? le mie parole suoneranno piene di te. Il fiume giungerà al mare, anzi vi giunge sempre; la sua foce è sempre, come la sua sorgente.

E, seguendo la nostra poetessa, ci sembra di essere sul punto di giungere: non sappiamo che silenzio sta scendendo nel grande clamore, e si ode ciò che non si udiva – il fiume presso la foce. Sotto i nostri occhi si aprono le pagine di questo libro «I credenti».

(di Mario Vecchioni)

 


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