Fatto ciò, il soggetto è estremamente indipendente. L’esperienza di senso che si fa – ad esempio – nella totalmente disinteressata osservazione di un paesaggio, viaggiando sul treno per esempio, non include nemmeno un frammento di “altro” (inteso come emittente jakobsoniano “in persona”). Non c’è nessun autore del paesaggio. Si è fatto da sé. Ovviamente: se ci parla è perché arriviamo a osservarlo con occhi “umani”, ossia formati da miliardi di occasioni di senso esperite in un consesso – appunto – umano, e in una storia (personale e collettiva) che include un processo complessissimo di sociazione, di suddivisione inconscia di segnali, di aggregazione di dati e – appunto – occasioni di esperienza di senso, …
Ma poi di fronte a quel che vediamo siamo totalmente liberi e soli. (Certo, entro una “Solitudine troppo rumorosa”, per rubare un titolo a Hrabal).
Sul discorso della decostruzione, continuo a non capire. La decostruzione in Italia non è passata assolutamente. Trovi tanto storicismo, tante storie, tanti narratori: l’Italia, ben che vada, si è fermata anzi si fermò a una (cattiva, spesso) idea di strutturalismo. Almeno questa è la mia impressione. Non vedo proprio nessuno che “smonta il giocattolo” (che – insisto – NON è comunque il lavoro della decostruzione). (Rinvio al precedente commento). E se lo vedessi lo criticherei anch’io, perché non è con una pratica di puro smontaggio che si combina qualcosa.
]]>Sul tema del senso: mi è parso come se tu lo facessi coincidere con una “sensazione”, una percezione che ha il suo fondamento nell’individuo che esperisce una data circostanza etc. O comunque, mi pare di capire che tu inquadri il senso – distinguendolo dal significato, importante! – all’interno del sogetto. Sono d’accordissimo sulla distinzione senso/significato, però credo che non possa esservi senso senza uno scambio: ovvero, il senso trova il suo fondamento sempre nell’altro, mentre io sono quello che lo accoglie. Anche se l’esperienza è mia, se non c’è l’altro l’esperienza non ha alcun senso – oppure, non ho strumenti per ricevere il senso dell’esperienza che è la stessa cosa.
Rispetto alla decostruzione: il simbolo. Per me è veicolo di senso (perché polisemico/morfico) a prescindere dal significato che di era in era gli si voglia dare. Con la decostruzione – che se non è un esercizio di stile o una pippa mentale è molto “costruttiva” – io vedo un problema: a forza di smontare il giocattolo per vivisezionarne la struttura, l’impalcatura, non è che si rischia di rimanere coi pali in mano senza sapere più come rimontarlo (anche in una differente configurazione)? Insomma, la fantomatica “crisi di valori del posmoderno” è molto figlia della decostruzione. Ci tengo a sottolineare che con questo non intendo assolutamente dire che la poesia dovrebbe inviare messaggi o roba simile. Forse però la vedrei bene impegnata in uno sforzo verso la ricostruzione di nuovi possibili e possibilmente variati simboli. Una specie di restituzione di senso.
È pur vero che il tentativo di certe poetiche è quello di includere il lettore in questa costruzione.
La conclusione è: anni di studio 🙂
Luigi B.
]]>Però mi sento di sottolineare una cosa che per me è molto importante e che, a mio parere nessuno sottolinea.
L’importanza di schiettezza, di onestà, di limpidezza, nel fare poesia. L’importanza di verità.
Anche se a volte non ritrovo scelte estetiche vicine alle mie nel Grande Marco Giovenale, però mi sento di sottolineare la sua onestà intellettuale. Eccone una frase/sintomo:
“Non so altri, ma personalmente non ho affatto capito il momento giusto.”
con i miei migliori pensieri,
con grande rispetto,
ma fuori dal rifugio
Riccardo Raimondo
]]>In breve: non c’è un perimetro o luogo elettivo dove il senso abita. Proprio perché di senso si parla al momento del suo passaggio, e come condizione di possibilità del nostro esperire in generale (esperire “qualsiasi” esperienza) e non come zona circoscritta a una determinata “categoria” di robe (tipo: “l’opera d’arte”).
Questo distingue l’estetica (che *non* si occupa solo di arte; che *non* è un’area “speciale” dell’esperire) dalle poetiche, che possono essere tante, e in queste ognuno ha gioco di far quel che meglio crede, offrendo ai lettori/osservatori il suo proprio specifico modo (“di zona”, “di area”, limitato) di circuire cortocircuitare sottrarre edificare esibire quello che per lui è un senso (o un’occasione per goderne il passaggio).
Lo fa attraverso (appunto) una poetica. E attraverso una sensibilità personale che, entro quella poetica, gli fa scegliere una prassi di scrittura (opera) o un’altra.
*
Sul tema della decostruzione invece penso di non aver capito bene la domanda. Decostruire può voler dire osservare le impalcature di una costruzione che si dimostra essere (grazie all’osservazione stessa) meno internamente ‘fondata’ di quanto pensavamo; più aperta a negazioni interne, a deviazioni. “Decostruire” viene spesso assimilato a “demolire”, e questo fa tornare in campo una logica dualista (=”se non si costruisce si demolisce soltanto”) semplicemente inutile, quando proprio va bene.
Uhm, ma termino, per ora. Mille altre questioni entrano in campo. Come fare per navigarci dentro? Al di là del rimettersi al passaggio degli anni (di studio) non saprei come rispondere.
Un esempio di decostruzione (ma ‘pensata’ secondo una poetica che a sua volta non è esterna a una decostruibilità, a una messa in crisi) è nelle sibille asemantiche, per dire. Non so. O nel lavoro dissipativo di alcune scritture installative, monolitiche e inaffrontabili serialmente. Cose che stanno un po’ a cavallo fra testo e scultura, insomma.
]]>credo sia questa l’affermazione che mi ha colpito di più dell’intera intervista: me la segno.
Di tutto il resto, invece, credo che sia assolutamente necessario sviluppare in maniera molto, ma molto seria la questione del web-sottobosco-critica. La mia principale difficoltà è proprio quella di orientarmi nel marasma generale, tra il mainstream polpettone ufficiale, il mainstream aggressivo e frustrato del sottobosco, la roba seria e sconosciuta, gli sperimentalismi venuti male, i critici che latiteggiano, i critici markettari e le recensioni da 4 di copertina sui giornali. Insomma: una faticaccia. A tutto questo va aggiunta la inacettabile impossibilità di leggere tutto quanto viene scritto sul pianeta terra.
Altra cosa che mi ha molto incuriosito:
prima l’affermazione
Il senso non siamo noi a tenerlo acceso, sostengo; accade il contrario: è quello che ci fonda.
con la quale sono assolutamente d’accordo. Ciò che non mi è chiaro è: il senso che ci fonda da dove viene? o, meglio: da chi? (se c’è un chi.
Altra domanda importantissima (per me): lo scrittore/autore può fondare, può fungere da Altro che fonda con un senso? Se sì (ma anche se no), in questo discorso come interviene la “decostruzione” che caratterizza la gran parte delle nuove scritture?
Luigi B.
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