Lezioni di poesia – Domenico Vuoto su Francesco Dalessandro

Con tutte le varianti verbali e predicative del caso, smania è parola ricorrente nei versi di Francesco Dalessandro. La si trova ne L’osservatorio, in Lezioni di respiro e, seppure in forma sinonimica, nella sua più recente raccolta La salvezza.
La smania non è un sentimento vero e proprio. È piuttosto una condizione del corpo e dei sensi, così come pure del cuore e della mente. È stato penoso di urgenza e di allerta in cui si condensano di volta in volta agitazione, ansia, insofferenza. E desiderio carnale che richiede di essere immediatamente appagato. E tuttavia la smania consegue spesso a un sentimento (o a una pluralità di sentimenti), ne è la verifica; convoglia quanto di esso (o essi) è rimasto, sottraendosi all’opera del tempo: echi, fantasmi, detriti. Nella poesia di Dalessandro diventa parola-chiave, innesco di un conflitto tra constatazione disincantata dell’oggi e rammemorazione-confessione meditata e commossa – mai compiaciuta – del passato. Rammemorazione pervasa da una nostalgia degli smarrimenti, degli astratti e materiali furori adolescenziali e giovanili; di una sensualità a tratti estenuata, dell’amore e del sesso già allora minati dall’inquietudine e da un presentimento di disinganno o di cessazione.
La nostalgia, sentimento dileggiato in un’epoca in cui si richiede di “fare” e “guardare sempre in avanti”, è motore costitutivo della poesia. È viaggio verso la terra perduta, verso un possibile senso da affidare alla vita, o “narrazione” dell’impossibilità in parte o in tutto di tale affidamento. La nostalgia nella poesia di Dalessandro ha il compito di raccontare la pena di un approdo negato, l’illusione e la delusione – leopardianamente intese – che ne scaturiscono.
Tuttavia, ne L’osservatorio come nella bellissima raccolta Lezioni di respiro sono delineati (narrati) con puntigliosa precisione anche i luoghi fisici della nostalgia e la loro dislocazione nel tempo e nell’interiorità del poeta. Sono una geografia e toponomastica riconoscibili che implicano viaggi, percorsi, scoperte, epifanie nella città di adozione – Roma – e nel paese natale, Termine. Nel pervasivo celebrato fulgore del Pincio, di piazza di Spagna, del Vaticano, e dei più vicini Pineto e Monte Mario, così come nella bellezza di Termine innevato. C’è da dire che la neve con il suo precipitare felpato, con i suoi silenzi costituisce uno degli esiti più alti e avvincenti di Lezioni di respiro.
La poesia di Francesco Dalessandro è di composta classicità e grande nitore verbale, sia che si esprima nella forma narrativa del poema e dell’elegia distesa, sia che si rivesta dell’agilità epigrammatica dell’ultima raccolta. E però conviene diffidare della pacatezza poetica di Dalessandro. Se non altro, perché ad essa non corrisponde alcuna pacificazione o resa alla realtà. Conviene leggere e rileggere i suoi versi per scoprire come tale compostezza sia profondamente innervata di smania o ansia e di un sentimento del vivere sul quale grava incessantemente una percezione di dolorosa inermità e di sconfitta, di smarrimento e di esilio. Dov’è allora il varco?, verrebbe da chiedersi parafrasando Montale. L’ultima raccolta di Francesco Dalessandro, La salvezza, repertorio di folgoranti osservazioni naturalistiche, (si veda, tanto per fare un esempio, la splendida concisione de L’erba: Perché tenerissima inclina / verdeviva gli steli dal- / l’aiuola ai vetri poi / che fa notte o gela, / la riscopri rinata / per miracolo all’ansia / mattutina); La salvezza, si diceva, non propone, come sembrerebbe dal titolo, vie salvifiche d’uscita. Se di salvezza si può parlare, essa consiste proprio nel sentimento di una improbabile o, quanto meno, impervia salvezza. Che dall’ostinazione (e dannazione) della poesia e del lavoro poetico fa discendere un distacco, una stoica considerazione della vita e delle forme viventi affrancata finalmente dall’ansia e dall’affanno. Dalla smania, appunto.

Domenico Vuoto, “L’immaginazione”, n. 234, ottobre-novembre 2007

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1 Comment

  • Non credo ci siano molti modi di fare poesia, poesia come lavoro che esce dall’autore e arriva al mondo, quindi si scontra con un’infinita produzione anche antecedente. Quella alta, intendo. Dalessandro, pieno com’è di infiniti mondi poetici paralleli o anteriori, riesce ad emergere con un’unicità straordinaria. Classicità tutta sua, intensità solo sue, atmosfera calma o sedata o triste o magari apparente, fatto sta che Francesco si muove “nelle stanze”altri aggiungendo con ammirevole naturalezza “oggetti” suoi. E il bello è(il bello di chi ha uno di quei pochissimi modi di fare poesia)che sembra non preoccuparsi affatto che ci sia o no lo stupore di chi dovrebbe stupirsi molto, invece. Perché quelli “oggetti” sono solo suoi, distinguibili e unici in tutto l’arredamento poetico di fatture secolari. Ha il timbro.

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