La Poesia nella Rete n.3: Samgha – Alessandro Polcri

1. Una tua breve presentazione …

Sono nato ad Arezzo nel 1967. Dopo la Laurea all’Università di Firenze nel 1994 e un periodo alla Fondazione Franceschini (un centro di studi medievali che ha sede alla Certosa del Galluzzo dove ho lavorato a vari progetti di ricerca), ho iniziato il PhD in Letteratura Italiana alla Yale University. Dal 2004 insegno Letteratura del Rinascimento alla Fordham University di New York, città dove vivo.

 

2. Anche tu, insieme ad altri amici, hai voluto avventurarti nell’esperienza di gestire un blog. Con quali obiettivi?

Samgha è una rivista-blog.  Non ha la periodicità di una rivista, ma, come una rivista, è dotata di sezioni precisamente definite e ospita articoli che spaziano dall’intervento breve fino al saggio con note e bibliografia (ma anche video, aggiornamenti sull’editoria, contributi interdisciplinari sul rapporto e sulla reciproca influenza delle varie arti, rubriche specifiche dedicate alla poesia dialettale, alla produzione poetica su New York, al diario saggistico, ai libri fuori stampa da ristampare, e alle scienze). Samgha è nata per una ragione molto precisa: creare uno spazio dove si potesse parlare di libri importanti per noi e non perché suggeriti dalle case editrici e dalle mode del momento. Per questa ragione non abbiamo limiti di tempo e di luogo e, agendo in netta controtendenza, possiamo anche recensire opere uscite molti anni fa. Sono libri che abbiamo acquistato e, dunque, non ne parliamo perché li riceviamo dagli uffici stampa delle case editrici. In altre parole non siamo ‘guidati’ a scriverne (anzi, scoraggiamo gli editori dall’inviarci le loro novità), ma ognuno di noi scrive su libri la cui scoperta è il frutto di una personale ricerca e passione o di un incontro occasionale e significativo. In questo modo, vorremmo fare rinascere l’interesse per la lettura e, soprattutto, per la ricerca personale, convinti che moltissimi libri che non ricevono l’attenzione delle case editrici maggiori o che non sono recensiti sui giornali siano invece ugualmente importanti e vadano inseriti in un nuovo e più fluido canone (comunque, invito a leggere la presentazione di Samgha qui).

3. Samgha si chiama il vostro spazio. Perché?

Come recita la home page della rivista  il nome Samgha è «termine sanscrito che designa la comunità di monaci buddisti». Per me questo suona come un auspicio di libertà e un incoraggiamento a rifiutare i condizionamenti.

 

4. Tu ti occupi di poesia soprattutto in termini di critica letteraria? Sapresti tracciare un breve consuntivo di questa attività?

Mi occupo di poesia antica (medievale e rinascimentale) e contemporanea.  Ho scritto vari saggi di àmbito medievale, rinascimentale (è appena uscito il mio libro Luigi Pulci e la chimera. Studi sull’allegoria nel Morgante, Firenze, Società editrice Fiorentina, 2010) e alcuni sulla poesia contemporanea a cui, tra l’altro, dedico il mio lavoro di condirettore di Italian Poetry Review (rivista della Columbia University e della Fordham University, qui). Scrivo anche poesia (Bruciare l’acqua è il libro uscito nel 2008 a Firenze per le Edizioni della Meridiana, con la prefazione di Alberto Bertoni) e, dunque, sono impegnato sul doppio versante della scrittura e dell’analisi critica.

 

5. Quali strade, secondo te, per la poesia? Qualità…Influenze…. Etc…

Come diceva Ungaretti la poesia è tale quando porta in sé un segreto. Proprio per quel segreto non saprei dire con certezza dove essa si stia dirigendo. Semmai la diffusione di quel segreto la si scopre solo post factum, cioè solo dopo che la poesia è stata letta ed è ormai davanti ai nostri occhi ancora abbagliati dall’incomprensione (e quello dell’incomprensione è un momento tanto necessario quanto fecondo). Tuttavia, a me sembra che la poesia più importante (e il mio è solo un auspicio tutto soggettivo più che l’interpretazione di qualche indizio sicuro) sarà quella meno legata alla quotidianità del poeta, quella, cioè, più filosofica (ma la vera poesia è mai stata non filosofica?) e sempre meno personale (cioè, sempre meno schiacciata sulla biografia minuta) e sempre meno civile e politica (un tipo di poesia che non riesco ad amare molto). Purtroppo, quello che intravedo è ancora una tendenza opposta, con poeti che ti spalancano davanti le loro microstorie insignificanti (con rare eccezioni) spesso raccontate senza alcuna ricerca sulla lingua. Per questo – e sia detto in modo molto sbrigativo –, credo che la poesia più innovativa sarà scritta da chi per esperienza culturale e/o personale, si occuperà di sconfinamenti mentali e geografici, cioè da chi andrà al di là dei luoghi (fisici, psichici e culturali) che lo hanno visto nascere e crescere. Sarà poesia originata da un tipo nuovo di distacco e di ricerca. Diventerà cogente la domanda “dove davvero vive il poeta?”. Dovremmo tornare ad essere, (ma, forse, già lo siamo tutti) clerici vagantes, come nel medioevo, ma con una più fluida percezione delle nostre radici. Una poesia che in un certo senso attraversa i mondi (sopratutto quelli mentali) e che, dunque, della biografia del poeta farà uno dei possibili casi e non il solo oggetto: «you spoke out of the margin» dice bene John Ashbery in You spoke like a child, una poesia che amo molto. Il principio goethiano del «chi vuole capire il poeta deve andare nella terra del poeta» sarà sempre meno condizionante e alcune istanze di produzione claustrofilica o di residenza, come la definisce Roberto Galaverni (Dopo la poesia, Fazi, 2002, pp. 143 e sgg.), ancora oggi presenti (ma sempre meno, devo dire nei poeti per me più significativi), scemeranno lentamente verso un nuova forma di ‘racconto decentrato’. Chi non rinuncerà a descrivere solo il ‘proprio giardino’ non avrà, temo, nulla di nuovo da dire. Ma, di tutto questo parlerò in un futuro editoriale di Italian Poetry Review.

 

6. Come è possibile, a tuo avviso, che uno spazio come il blog letterario possa mantenere una sua dignità, ma anche una sua influenza, nel panorama complessivo della rete?

Occorre un progetto di base molto chiaro, collaboratori liberi dalle mode e dagli schieramenti politici che, al momento, vedo troppo presenti e condizionanti molti spazi nel web e anche riviste di qualità di recente nascita e rinascita. Soprattutto occorre molto studio e competenza. L’influenza viene dalla riflessione e la riflessione dallo studio. Chi non studia non riesce a dire nulla di importante. Quello del letterato è un lavoro fuori moda, ma serissimo e altamente specializzato. In molti blogs scrivono un po’ tutti, nelle riviste accademiche no, sei corretto da specialisti prima di pubblicare (il sistema del peer-reviewed journal è ormai comunemente adottato anche in Italia). Ora è, però, vero che il web ha una sua dinamicità che forse l’ingessatura e la rigidità accademica ucciderebbero se venissero applicate alla lettera. E il blog deve essere un po’ una terra di confine, un avamposto dove l’inaspettato può saltare fuori proprio perché i sistemi di forze che lo regolano non sono tutti controllati e controllabili (dinamiche che, a volte, rallentano l’innovazione all’interno dell’accademia). Vedrei bene un compromesso tra i due estremi con redazioni che vagliano tutto quello che viene proposto, ma aperte al contributo militante di alto livello che in una rivista accademica di italianistica difficilmente troverebbe spazio.

7. Perché la cosiddetta accademia, l’università, i salotti colti della letteratura, si mostrano così poco permeabili rispetto agli influssi della rete e al lavoro, non sempre superficiale, che parecchi operatori stanno portando avanti?

Credo dipenda soprattutto da un pregiudizio che considera il web come il luogo dell’improvvisazione. Ma poi dipende anche dal fatto che molti professori diffidano del web che non sanno ‘navigare’ (è un problema generazionale, insomma). Comunque, le cose stanno cambiando. Certo siamo ancora lontani dall’avere nelle università cattedre di poesia occupate da poeti, cosa che, invece, capita tranquillamente all’estero (e pensare che il poeta laureato lo abbiamo inventato noi e ce lo siamo fatti fregare, ma di questo ho già parlato su Samgha e su IPR). Sono, tuttavia, numerose le iniziative che provano l’apertura ‘ecumenica’ dell’accademia al web. Da ultimo, mi piace segnalare OBLIO = Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca, diretto e fondato da Nicola Merola e Griselda online portale di letteratura del Dipartimento di Italianistica dell’Università di Bologna, ma potrei continuare con altri esempi come Heliotropia della Brown University, oppure The Edinburgh Journal of Gadda Studies. Importante è, poi, il Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna, un caso, credo, unico in Italia.
Non va, inoltre, dimenticato che l’insegnamento dell’informatica applicata alla letteratura è stabilmente radicato nella nostra università con corsi molto seguiti. Per esempio, sono molte le iniziative di archivi digitali degli scrittori gestite dall’università e non destinate solo agli specialisti, come quello intitolato ad Aldo Palazzeschi a Firenze o l’Archivio Digitale del Novecento Letterario Italiano o il progetto dell’università di Trento dedicato alla scannerizzazione di riviste di letteratura ormai introvabili (Laboratorio di ricerche informatiche sui periodici culturali europei). E mi fermo qui, ma lungo sarebbe ancora l’elenco.

 

8. Esiste, a tuo avviso, un divario, una spaccatura, tra il “canone” poetico della rete e quello, diciamo cartaceo, tradizionale?

Sì esiste. Credo che lo studioso di letteratura contemporanea non possa e non debba ignorare il web, dato che ormai il web è diventato il posto dove transita una sorta di canone contemporaneo vivente, fluido e mutante. Facendo un esempio, è un po’ come il New York Times cartaceo e quello online. Il cartaceo (che, tra l’altro, dicono, smetteranno di stampare) lo leggi ed è già vecchio. Sono solo gli aggiornamenti online che ti permettono di conoscere le notizie in tempo reale. In altre parole, se ti vuoi rendere conto delle varie voci e dei molti poeti importanti che ci sono, devi navigare, anzi ‘sguazzare’, nel web. La ragione semplice (ma non è la sola) è che il web è diventato l’unico luogo dove un poeta possa sopravvivere (o durare di più) e venire conosciuto. I libri di poesia girano pochissimo e sono dimenticati subito, nel senso che nessuno li compera e nessuno li legge (questi anni, a mio avviso, sembrano avere definitivamente sancito il totale fallimento del libro di poesia o dell’antologia poetica a stampa che, pare incredibile, circola meno di un testo manoscritto nel ’400). L’autore li regala a 100 o 200 persone, se è ricco e può pagare le copie alla casa editrice. Altrimenti, finito il giro di giostra e avute tre, quattro recensioni, a volte poche di più, è finita lì. Ecco allora che (ri)pubblicare online ti rende visibile e raggiungibile. Il canone in questo modo riesce a sopravvivere dato che l’editoria è una realtà debolissima (quanti, ripeto, leggono le molte antologie che escono a getto continuo e che, tra l’altro, spesso –  ma non sempre –  sono solo raccolte dei soliti nomi o degli amici del curatore?). Il cartaceo diventa un mezzo significativo solo se entri nel novero dei consacrati, se cioè ti dedicano un Meridiano o se pubblichi con Mondatori, Einaudi e pochi altri (ma, poi, anche in quel caso, la sopravvivenza non è sicura). La maggior parte dei poeti scrive per un centinaio di persone se si limita al cartaceo e la possibilità di finire sul tavolo di un critico che conti (ma chi poi davvero conta?) è remotissima e la cosa è comunque quasi inutile (le recensioni servono a poco per promuovere le vendite). Se il critico ‘naviga’ online può fare delle scoperte, se invece si affida solo ai libri stampati la maggior parte delle scoperte gli sarà preclusa, a meno che non riceva a casa tutti i libri che escono (del resto, se volesse comperarli, non potrebbe trovarli in libreria). Insomma, per essere sicuri che esista una seria discussione sul canone occorre che tutti gli operatori abbiamo accesso (e mi rendo conto che si tratta di un’utopia) alla stessa quantità di informazioni (o per lo meno a una sua buona parte) e conoscano tutti gli autori, o molti di essi. In questo senso il web, se ben usato, fornisce molti dei dati necessari per impostare la discussione all’interno della quale, ovviamente, i libri a stampa hanno ancora un ruolo importante (sebbene non duraturo), ma non il più importante, essendo essi, ormai, solo una delle possibilità di diffusione della poesia. Certo, se poi il canone davvero esista e sia rintracciabile e ancora riconoscibile o se sia ora irrimediabilmente ‘assente’ è questione molto complessa su cui, in chiusura, mi limito solo a citare un convegno importante e ricco di riflessioni organizzato alla Columbia University nel 2006: Absent canons/ Canoni assenti, a cura di Paolo Valesio e Patrizio Ceccagnoli, i cui atti sono usciti su Semicerchio 29, 2009.

Sebastiano Aglieco
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5 Comments

  • Non è semplice trovare una via di mezzo tra cultura popolare e cultura “alta” nell’Italia di oggi. La poesia non fa eccezione. Il problema è che dal Dopoguerra in poi si è confuso il concetto di cultura con quello di istruzione. Chiunque, sapendo “leggere, scrivere e far di conto” ha ritenuto di essere in grado di comporre liriche o pubblicare storie incentrate sulle esperienze personali. Secondo me il motivo è semplice: mancando la conoscenza degli “altri”, ossia i veri intellettuali, ci si è buttati sul “sé”, l’unico ambito che si possiede alla perfezione, dando per scontato l’interesse del mondo fuori. Gli eccessi del “sé” sono sotto gli occhi di tutti. Il web ha solo amplificato un processo da tempo avviato. Bisognerebbe avere il coraggio di ripartire da una scuola molto selettiva, che dia a tutti la possibilità di iniziare allo stesso livello, ma a nessuno garantisca di arrivare in fondo, se non a costo di “lacrime e sangue”. Negli anni, temendo che tale impostazione fosse troppo di destra, si è preferito considerare la scuola come un bacino di voti certi, a fronte di richieste sempre meno gravose per chi vi operava. Qual è la conseguenza? Che chi può, per mezzi o capacità, va all’estero. Magari a scrivere poesie!

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