Altre Voci n.14: La poesia attuale non è una gnosi

 

I sepolti 

Sergio La Chiusa

2005, 38 p., ill., brossura

LietoColle (collana Aretusa)

1.

Quando guardiamo le opere dell’arte per scriverne, la reazione del linguaggio è univoca: il testo reagisce sfruttando due indicativi, il presente e il passato. Davanti alle opere non dubitiamo: né della nostra percezione né della possibilità di asserire. Non solo: possiamo essere sia coinvolti nel passato cronologico e/o mitico sia vitalizzati e gratificati, perché compresi, nel nostro essere qui e ora. E ancora: il dialogo con l’arte può stimolare anche una poesia sapienziale, che distilla i fatti estraibili dall’opera. Ciò che è lógos può e deve realizzarsi, per verba, solo in un presente concreto (la nostra vita) e nel presente assoluto dell’aforisma (conosci te stesso, non entri chi non è geometra, ecc.), tanto che la sentenza greca e latina può sottintendere un verbo che deve essere al presente, perché è una forma di docenza assolutizzata e scarnificata, come sono i motti.

Ma la posizione di Sergio La Chiusa (I sepolti, Lietocolle, 2005, con una prefazione di Biagio Cepollaro) non è didattica (la pedagogia rischia di essere «negativa», se il cieco guida gli altri ciechi: Cepollaro coglie bene questo problema); non è nemmeno mimetica. Dalla prima alla seconda sezione della raccolta, La Chiusa passa dalla descrizione (al presente, rigorosa: «c’è qualcosa di irreale qui dentro») al coinvolgimento dentro la rete di Bruegel, dove è personaggio tra i personaggi: se un cieco cade, «abbiamo sentito l’abisso a uno a uno squarciarsi» perché «- non dovevamo fidarci di quella guida / cieca come noi solo più sicura, presuntuosa -» (p. 25). Il cambio di prospettiva è anche verbale: le cinque poesie bruegeliane sono tutte al passato, e hanno in coda una strofa-dichiarazione, più politica.

 

2.

Musée des Beaux Arts (1939) di Auden si basa sulla stessa opera a cui La Chiusa dedica La caduta di Icaro (p. 28). I tempi di Auden sono usati con la stessa forza significativa: «About suffering they were never wrong, / The Old Masters», dove il passato si giustifica con il riferimento a Maestri di un altro tempo, e quindi Vecchi; e quasi al centro, di nuovo, «They never forgot» – non dimenticavano, essi, nel passato in cui vivevano e agivano – che il «dreadful martyrdom must run its course» (deve: in un tempo aforistico, un presente che è sempre valido), e tutta la poesia è un ricamo tra passato e presente: è presente (e al presente) ciò che è sempre efficace, è (al) passato ciò che si riferisce agli Old Masters e al sole e alla nave, perché fu. L’uso dei tempi nella Caduta di La Chiusa è paragonabile alla dialettica presente-passato di Auden: non per emulazione, ma per necessità etica, come è stato nei vaticini sul suffering del Tiresia di Giuliano Mesa. La cultura, non approssimativa, serve anche a (ri)trovare appigli per dire ciò che deve essere detto, in modo incontestabile e urgente.

Non solo: il tema della Caduta di Icaro è «la completa indifferenza di tutti gli spettatori potenziali» e «neanche il pescatore seduto sulla riva si accorge di quello che è avvenuto» (Lewis Namier, England and the Age of American Revolution, MacMillan, London 1963, p. 149); quindi l’osservatore, che è poeta, aggiungerà quello che manca: una coscienza presente o una presenza esatta, che parla in una determinata tensione e in un tempo adatto alla sua sensibilità, coinvolgendosi anche nell’errore (p. 28: «- e non ci saranno testimoni per le ali accartocciate / per le nostre gambe d’Icaro che annegano tra i muri -»). Il filo rosso delle ultime cinque poesie coinvolgenti è il fallimento, per illusione o ignoranza: come ciechi «non dovevamo fidarci»; come costruttori-peccatori della Torre di Babele «asini da soma eravamo – non uomini: / solo ora lo sappiamo»  (p. 26); come testimoni della Passione «andavamo in tanti giocando azzuffandoci / come a una fiera di paese» (p. 27), astanti di un Signore che non abbiamo capìto, perché «in miniatura / tra noi Cristi in miniatura / chi lo vedeva chi»; come uomini tecnologici, «non sapeva il corpo / ch’era troppo pesante per il cielo» (p. 28); come presunti dominatori della terra, «non sapevamo che solo la forca / sarebbe rimasta segnale» (p. 29). Scrivendo poesia, ci coinvolgiamo anche nell’errore: infatti la poesia attuale non è una gnosi.

Cepollaro dice: «La cecità morale e intellettuale paradossalmente denunciate dall’arte ‘visiva’…». Serve un punto di vista esterno: che in quanto tale è dis-umano, a meno che non sia lo sguardo di un Dio pietoso. Per esprimersi, bisogna essere dentro, dove non sappiamo il «il senso di questa distruzione» (p. 13). Ma per salvarsi bisogna essere una di tre cose: o Dio; o dis-umani, fuori, in una mostruosità da laboratorio, come il Principe di Sansevero e Mengele, consci del «senso» e del fine della «distruzione» chirurgica e alchemica; o aperti, dentro la scena, alla risposta ad «un appello più alto», pronunciato da una lingua materna «che spreme il latte dalla capra, nella polvere» (p. 13). Anche la vocazione è impotente: la contrastano l’ignoranza e l’apatia dei sensi, come testimoniano le domande, non retoriche, «non vedi…?» (pp. 12, 13) e «non senti…?» (pp. 15, 18). Non è retorica: sappiamo che non c’è humanitas senza il sentire. Intuiamo che non è grossolano legare il sentire all’uso del corpo, in primo luogo.

(Qui alcuni testi con le tavole di Pieter Bruegel)

Massimo Sannelli
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3 Comments

  • Lessi qualche anno fa – grazie all’importantissimo lavoro svolto da Cepollaro nelle sue E-dizioni – diverse poesie di La Chiusa, trovandole notevoli, e sono contento che si torni qui a parlarne.

    ringrazio Sannelli, più in generale, anche per questi due passaggi, che condivido e ritengo in qualche modo segnalino una prassi possibile “diversa” dalla stanca contrapposizione “caldo”/”freddo” che mi sembra tocchi i problemi della vita, e della poesia, molto debolmente:

    “quindi l’osservatore, che è poeta, aggiungerà quello che manca: una coscienza presente o una presenza esatta, che parla in una determinata tensione e in un tempo adatto alla sua sensibilità, coinvolgendosi anche nell’errore”

    e:

    “Per esprimersi, bisogna essere dentro, dove non sappiamo il «il senso di questa distruzione» (p. 13). Ma per salvarsi bisogna essere una di tre cose: o Dio; o dis-umani, fuori, in una mostruosità da laboratorio, come il Principe di Sansevero e Mengele, consci del «senso» e del fine della «distruzione» chirurgica e alchemica; o aperti, dentro la scena, alla risposta ad «un appello più alto», pronunciato da una lingua materna «che spreme il latte dalla capra, nella polvere» (p. 13)”

    siamo dentro e non sappiamo – ma cerchiamo di capire – il senso di questa distruzione. in una mia vecchia e bruttissima poesia scrivevo di cambiare, in Inferno I, 93, “campar” con “capire”. difatti la domanda, cui continuo a rispondere “no”, è questa: dobbiamo davvero salvarci?

    un caro saluto,

    f.t.

  • Lessi qualche anno fa – grazie all’importantissimo lavoro svolto da Cepollaro nelle sue E-dizioni – diverse poesie di La Chiusa, trovandole notevoli, e sono contento che si torni qui a parlarne.

    ringrazio Sannelli, più in generale, anche per questi due passaggi, che condivido e ritengo in qualche modo segnalino una prassi possibile “diversa” dalla stanca contrapposizione “caldo”/”freddo” che mi sembra tocchi i problemi della vita, e della poesia, molto debolmente:

    “quindi l’osservatore, che è poeta, aggiungerà quello che manca: una coscienza presente o una presenza esatta, che parla in una determinata tensione e in un tempo adatto alla sua sensibilità, coinvolgendosi anche nell’errore”

    e:

    “Per esprimersi, bisogna essere dentro, dove non sappiamo il «il senso di questa distruzione» (p. 13). Ma per salvarsi bisogna essere una di tre cose: o Dio; o dis-umani, fuori, in una mostruosità da laboratorio, come il Principe di Sansevero e Mengele, consci del «senso» e del fine della «distruzione» chirurgica e alchemica; o aperti, dentro la scena, alla risposta ad «un appello più alto», pronunciato da una lingua materna «che spreme il latte dalla capra, nella polvere» (p. 13)”

    siamo dentro e non sappiamo – ma cerchiamo di capire – il senso di questa distruzione. in una mia vecchia e bruttissima poesia scrivevo di cambiare, in Inferno I, 93, “campar” con “capire”. difatti la domanda, cui continuo a rispondere “no”, è questa: dobbiamo davvero salvarci?

    un caro saluto,

    f.t.

  • sono sempre convinto che La Chiusa sia un autore, un valore. e spero che la sua strada continui, non so che cosa abbia scritto dopo questo libro. warmly, sempre, e nulla senza corpo, nulla freddamente
    massimo

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