Non parlar la parola, ma la cosa: Intervista a Gianni D’Elia

 

Dalla sua poesia traspare un inequivocabile riferimento all’opera pasoliniana. In che modo Pier Paolo Pasolini ha influito sulla sua concezione della vita e della poesia?

Pasolini l’ho cominciato a leggere nel 1977, dopo la sconfitta del movimento giovanile in Italia. La poesia della tradizione, il testo fondamentale per l’autore di Trasumanar e organizzar (1971), mi ha chiarito le ragioni della nostra sconfitta: pensavamo di poter fare la rivoluzione senza la tradizione, senza la poesia e la cultura, l’arte. Dopo Leopardi, è la più grande antropologia poetica che sia apparsa in Italia, come vedo nutriente anche per i giovani di adesso, come voi.

 

La figura di Pier Paolo Pasolini suscita ancora oggi animati dibattiti riguardo l’interpretazione di alcune sue opere. Il poeta Davide Rondoni in Bar del tempo battezza la propria generazione come “post-pasoliniana”, ad indicare l’importanza che questo poeta ha avuto nella poesia del secondo ‘900. Cosa ha significato e cosa continua a significare Pasolini per la poesia italiana?

Pasolini rappresenta l’avanguardia della tradizione, ed è per questo già oltre il ‘900, che si è consumato sulla tradizione dell’avanguardia linguistica più sterile, ripetitiva. Dante, Leopardi e Pasolini sono i nostri maestri del presente, poeti d’opposizione, fuori dalla città, eretici, incivili. Nel senso che chiamano la non cittadinanza a farsi critica, coscienza, ipotesi di una nuova utopica città del vero e dei vivi.

 

Come e quando ha iniziato a delineare il suo percorso poetico, attento alla tradizione quanto alla concretezza materiale quotidiana?

Ho cominciato con il diario di lettura, con prose non controllate, nevrotiche, poi sono passato ai versi, in un piccolo viaggio per l’italia, nel 1978-79. Non per chi va è uscito nel gennaio del 1980, da Savelli, ora ristampato da Marcos y Marcos.

 

In che contesto nacque la rivista “Lengua”, cosa si proponeva e come mai dopo anni di prestigiosa attività è stata costretta ad annunciare la chiusura?

“Lengua” nasce dal rapporto con Roversi, poeta bolognese amico di Pasolini, e dal lavoro comune con amici come Katia Migliori, Stefano Arduini, Attilio Lolini. Fu importante anche l’esperienza della rivista radiofonica “Residenza”, con Franco Scataglini, Massimo Raffaeli e Francesco Scarabicchi. Un poeta come Franco Loi, un semiologo come Pino Paioni, ci chiarirono la direzione. Il modello era “Officina”, la rivista (1955-59) di Pasolini, Roversi, Leonetti, Romanò, Scalia, Fortini. Fu il nostro dialogo. Volevamo parlare di critica e di poesia, rileggere il ‘900, mettere sullo stesso piano la poesia in lingua e quella in dialetto, seguendo la linea Pasolini-Contini. Siamo arrivati a parlare di “neo-volgare”, di “interdialettalità della lingua”. Abbiamo studiato, discusso, conversato con poeti e scrittori, da Luzi a Fortini, Roversi, Caproni, scoperto nuovi poeti. Le riviste finiscono per le stesse ragioni, crisi di pensiero, crisi finanziarie, ma le oltre duemila pagine di “Lengua” sono lì, tra l’82 e il ’94. Nel ’97 è uscita anche una prima antologia della rivista, Voci di scrittori italiani (Artemisia edizioni), pubblicata da due amici finlandesi.

 

Quali sono i suoi rapporti o contatti più solidi all’interno della sua generazione poetica ed eventualmente, se esistono, con le nuove generazioni?

Tra i coetanei, ho un ottimo rapporto con Franco Buffoni, che dirige la rivista “Testo a fronte” e tanto ha fatto con la sua collana di poesia contemporanea per i nuovi e nuovissimi autori. Poi con amici più vecchi o più giovani, Loi, Lolini, Roversi, Marisa Zoni, e il giovane filologo Luigi-Alberto Sanchi, umanista e comunista, e un poeta giovanissimo delle vostre zone, di sicuro talento, Enrico Piergallini.

 

In un suo articolo apparso su “Il manifesto” il 10 febbraio 1994 ha accennato una lieve critica nei confronti delle neo-avanguardie poetiche degli anni ’60. Ha mai avuto rapporti letterali con poeti sperimentali come Sanguineti o come Zanzotto?

La mia critica delle neo-avanguardie poetiche non è mai stata “lieve”, né poteva esserlo, stando con Pasolini. Zanzotto è diverso, ha anche donato a “Lengua” un suo testo su Pasolini, ed è stato più volte studiato sulla nostra rivista, anche se la sua ipotesi oggi pare più “scarica” di quella di Luzi, per esempio, o del grande poema progressivo di Franco Loi.

 

Nella sua poesia, specialmente nell’ultimo lavoro Sulla riva dell’epoca, traspaiono evidenti citazioni politiche, a partire dal ricordo degli anni del movimento studentesco, del ’77, della militanza in lotta continua, sino ad arrivare a episodi recenti come l’arresto di Sofri e il processo di “normalizzazione” della sinistra italiana. La sua è un poesia che vuole interagire con il mondo civile o che semplicemente analizza distaccata episodi di vita personale?

Non c’è nessun distacco, ma semmai rabbia, perché storia personale e storia collettiva ancora si incontrino, anche nei testi, come ha scritto della mia poesia il compianto amico francese Bernard Simeone.

 

In una toccante lirica lei scrive: “Ognuno di noi è una riva a cui vengono le immagini del mondo”. Vuole suggerire una condizione umana di frustrante passività nei confronti di un reale che il poeta riesce a possedere solo nella ricostruzione letteraria, trasformando la memoria in simbolo, l’immagine in parola?

Sì, il rapporto tra le parole e le cose oggi ha di mezzo le immagini della riproduzione di parole e cose. Bisogna leggere bene La società dello spettacolo e i Commentari di Guy Debord, pubblicati da Sugarco.

 

In Notte privata si delinea un discorso poetico molto interessante, quello della privazione umana dall’esperienza del reale, quasi che l’intero lavoro descriva un simbolico viaggio all’interno di un Italia talmente mutabile, mutata e mutante da fuggire da ogni comprensione assoluta. La coscienza del circostante si ha a stento, tra le righe di scenette quotidiane tipicamente italiane che appaiono però troppo distanti, come fossero già ricordi nel presente. E’ possibile secondo lei infrangere e superare questa condizione “privata” del poeta e dell’uomo che relega necessariamente il popolo italiano ad uno stato di non-comunicazione?

Il titolo di Notte privata viene dal buio purgatoriale dei corrotti danteschi. Per la copertina scelsi un’invettiva contro il paese berlusconizzato, prima televisivamente, poi politicamente. Bisogna tentare a tutti i costi la comunicazione poetica, senza rinunciare né alla poesia né alla comunicazione. É la sfida di oggi.

 

Il suo continuo domandarsi, che porta, quindi, anche il lettore ad interrogarsi, implica l’esistenza di una risposta o piuttosto sottolinea la consapevolezza che non ci possa essere altro che una serie di consequenziali domande?

Le interrogazioni sono, nei versi, un metodo socratico di sospensione del senso, di insistenza, incarnato dalla metrica spezzata e in un fraseggio sintattico della contraddizione, che secondo Simeone deve a Pasolini e a Fortini il suo modello incrociato di urgenza e di stile.

 

Mario Luzi scrive a proposito della sua opera: “poche espressioni di oggi captano capillarmente il vissuto come lo fanno, per linee furtive e sghembe, per istanti e baleni, le quartine di D’Elia”. In che modo riesce a sintetizzare stilisticamente il reale, il presente quotidiano, all’interno della sua poesia?

Mario Luzi ha scritto in quelle righe una verità augurale, che sottolinea la poesia come discorso vissuto. Luzi e Pasolini non sono poi così lontani tra loro. Anzi, mettiamoli a confronto, studiamoli meglio. Il reale poetico è sempre un discorso sentito, vissuto, uno stato speciale di realtà ordinaria.

 

Pier Paolo Pasolini descrive in Uccellacci e uccellini un’umanità spaesata, priva di coscienza sociale, distante anni luce dalle proprie mète e dai propri orizzonti. Nella sua poesia la distanza tra il presente disincanto e i sogni del passato è una distanza arbitraria, resa tale da quelli che lei chiama “oscuri poteri innominati”, o è piuttosto una naturale leopardiana condizione umana?

Non c’è distanza tra il presente e il passato, perchè è il passato presente che ritorna, proustianamente, in noi. Mi chiedete se è storia, oppure natura, il male? Entrambi, mi pare, pensando al vostro e nostro Leopardi. Ma Giacomo ha scritto La ginestra, che è il più alto poema critico e politico italiano, nel segno dell’utopia consapevole della insanabile contraddizione tra solidarietà e destino biologico. Un nichilismo solidale, supremo ossimoro della vita riconosciuta. “Stolto crede armar la destra”: pacifismo come antimilitarismo.

 

Nella poesia Altre istruzioni lei dice: “e oggi nient’altro che il frammento / sembra ci sia dato per istanti, / tu pure tentalo, se puoi, come tanti / durando un poco oltre quel vento//. Si può leggere in questi versi un legame con la poesia di Fortini Traducendo Brecht, dove lo scrittore oltre ad affermare la fine e l’inutilità della poesia civile, si domanda sull’utilità di questa, concludendo che al di là di tutto bisogna continuare a scrivere anche se la poesia oggi non può più interagire con il reale? Lei appoggia in toto questa visione o ne accetta solo una parte?

Sì, la poesia non muta nulla, ma scrivi, mi pare dica questo Fortini. Tentare la durata, pur sapendo di essere inchiodati all’istantaneo, al seguente che sopprime il presente (la prossima discoteca, la prossima partita). La poesia è un singol-medium, però, un’eresia dentro l’epoca dei mass-media. Un bel match. Ci vuole utopia, coraggio, fiducia nel lettore sconosciuto.

 

Questa struttura frammentaria viene alla poesia perché la società in cui essa vive è frammentaria, o perché oggi la poesia per sue deficienze non può avere altra forma?

Questa struttura frammentaria chiama al raccordo, al poema, alla durata cognitiva, all’interrogazione pemanente, al montaggio filmico delle sequenze vissute. Anche qui, bisogna stare dentro la contraddizione, “non parlar la parola, ma la cosa”.

(a cura di D. De Angeliis e D. Nota , su Pasolini.net)

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