http://poesia2punto0.com/2011/03/02/laria-1/ Tutto (o quasi) sulla poesia contemporanea italiana Tue, 07 Nov 2017 16:31:03 +0000 hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.1 Di: massimo http://poesia2punto0.com/2011/03/02/laria-1/#comment-2523 Thu, 31 Mar 2011 08:54:35 +0000 http://poesia2punto0.com/?p=5669#comment-2523 anche il “coraggio” è in questione. quando ripubblicai – cioè DISTRUSSI, per ricostruire – metà delle mie poesie, correva questo complimento: “hai avuto *coraggio*”. che strano. davvero: che strano. mi dicevo: dov’è il coraggio nel ricondurre una forma alla realtà che *io* sento? in quelle poesie l’io era troppo travestito: infelicità, nevrosi. smettila – mi dissi. e così ho smesso, ho cambiato.

ma il coraggio NON può essere la riscrittura di una forma. il coraggio è vivere a Baghdad, a Kabul, a Scampia; il coraggio è in un volontariato pesante come quello di San Marcellino e San Benedetto a Genova. in fondo noi umanisti vediamo le cose in gabbie che non sono parolibere futuriste ma cerchietti, schermetti, schermini. tantomeno il coraggio è irridere o criticare un critico-scolarca: in ogni caso, la sua potenza è locale, i suoi lettori sono pochi (l’epigramma di Zeichen, in Aforismi d’autunno, su – o contro – Filippo Bettini potrebbe far scoprire ai lettori che Filippo Bettini *esiste*).

questo tempo merita la realtà. l’aria si insinua tra cosa e cosa. il vuoto pneumatico è un po’ mortifero, è la camera insonorizzata…

]]> Di: massimo http://poesia2punto0.com/2011/03/02/laria-1/#comment-2505 Wed, 30 Mar 2011 08:39:52 +0000 http://poesia2punto0.com/?p=5669#comment-2505 ecco una ‘lettera’ di ieri. è piena di io e di nomi: non è necessario che l’io sia particolarmente grande, né che i nomi siano glorie e marmi. basta dire dov’è la vita, poi ci si orienta. senza passione, nulla – e così SEMPRE.

Quarta lettera sull’intensità. Per A dieci minuti da Urano. Poesie di tentata conquista di Carla de Angelis [nb: testo non formattato, mancano tutti i corsivi, che sono molti: increspature della VOCE, più che della RIGA]

1. L’io non è un male, e perché dovrebbe esserlo? L’io lirico – bestia nera, angelo bianco – non ha mai ucciso nessuno, è impolitico e nonviolento: e allora che male vi ha fatto, amici? C’è chi sorriderebbe del «sudore dell’anima». Dov’è il problema: nel sudore? Troppo corpo. Nella cosa innominabile: l’anima? Troppa donna. Il vero problema è l’anima, innominabile: eppure esiste una scienza che si chiama psicologia. La «scienza dell’anima» può essere anche la scienza della farfalla; o anche: il discorso dell’anima, che parla. O anche: il discorso della farfalla, che parla a suo modo: la psyché alata, la psyché vivente, la psyché scrive. E ora Aleksandr Balagura intitola Ali di farfalla un cortometraggio di pura poesia: il racconto di più giovani a Kiev, che scoprono il cinema nei primi anni Ottanta, e qualche fotogramma rimane; poi Aleksandr torna a cercare le bobine, rivede gli amici, uno di loro è morto, si cerca una patria nuova in Italia, ci resta. Ne è nato un documentario di montaggio, come La bocca del lupo di Pietro Marcello. Non a caso sono due documentari su storie private (Enzo e Aleksandr), sulla mutazione dei luoghi (la Kiev comunista, la lontanissima Genova industriale e portuale), sulla ricerca del paese innocente (la casa in collina per Enzo e Mary; Bagno Vignoni per Aleksandr). In questi film il montaggio è grande come l’ispirazione e la regìa è meno forte della storia vera. La Bocca del lupo in particolare è il film di Enzo, non di Pietro.

2. L’io vivente è lo specchio in terra del Dio vivente. Crescendo, può dissociarsi nobilmente dalla scuola, come l’Anima dello Specchio di Margherita Porete: «Io non prego nulla». E così: «Basta domande inutili / analizzare ogni frase // inganni sulle vocali, inciampi sugli accenti».

3. Il sudore riappare sùbito: basta guardare la casa, opera del lavoro. I muratori bevono birre, con i «volti sudati». I sacchi di cemento sono pesantissimi, i detriti sono pesantissimi. Gli umanisti non lo sanno, di solito: quanti pesi portano, e quali? Quando? Infatti non hanno un bel corpo, di solito. La birra dopo un lavoro duro è una benedizione del Dio altissimo. Dopo il muratore, il contadino, sùbito dopo. E Carla ha ragione di dire: «Temo la vita senza emozioni / abiti da comprare // alberi da curare / stoviglie nuove tappeti // pareti da dipingere / appatiti di tavole imbandite». È una vita che fa più paura della morte. Infatti moltissima poesia contemporanea parla della morte, anche senza saperlo: parla sottilmente della «vita senza emozioni», gloriandosene anche un po’. Non si può chiederlo ad una moglie, ad una madre: infatti la poesia «senza emozione» è frutto freddo di maschi, arroccati nella mente. Chissà che cosa prova una donna, una moglie, una madre. Ma un uomo è molto inesperto, sa poco di chi lo fa crescere, di chi gli cresce accanto. Un critico criticò oralmente: «La poesia di Florinda Fusco è surrealismo mestruale». Commento di mia madre, secca: «Digli che anche lui esiste grazie alle mestruazioni di una donna».

4. La vita piena di fatti, la vita che dà la vita ad una figlia – Carla è madre – non ha bisogno di ambizioni e di illusioni. «Porto a spasso la bellezza / eppure bella non sono». E poi: «Non mi tramuta in marmo né in alloro», né scultura né Dafne, nessun particolare Apollo adorabile-tremendo. Il soggetto è la vita, svelata a fine testo. La vita non è facile, e chi l’ha mai detto? Le madri si sono spaccate in due per metterci nel mondo, e noi occultiamo la vita; oppure la cerchiamo fredda e freddina, perché l’uomo ha paura di sembrare una donna. L’uomo ha paura di ciò che è perenne e animale nello stesso tempo, intellettuale e vitale, gentile e selvatico nello stesso tempo (quando Carla sfida il gatto, e ne scrive, è come un incontro tra pari in natura). Difficilmente un uomo sarà molte cose nello stesso tempo [sarà preso in giro dai piccoli piccoli; gli diranno, anche verso il quarantesimo anno: «sei praticamente una donna», come se la parola DONNA fosse un’ingiuria. Non hanno mai visto una donna? E ancora meno l’hanno toccata]. La vita «spalma di olio la strada in salita / spezza i freni in discesa». Ci sono i rischi, ci sei tu. Tanto vale restare, il corpo ha una sua resistenza [e quanto è resistente la Farfalla in mente, l’io vivente]. Il contrario della vita grande è sempre in agguato: «Insolute bocche mendaci / sacrificano angeli // al tramonto stridono / non risparmiano trame». Il contrario del contrario è intenso fino ad una gloria nietzscheana: «di’ al tuo dio che la vita ci piace».

5. Bisogna «chiarificare la melma». La melma è il fango, che Guinizelli considerava immedicabile: il fango rimane vile anche sotto i raggi del sole, il cuore ignobile non sarà mai nobile, ma al cor gentil rempaira sempre Amore. Ora no: c’è anche della nevrosi nel rifiuto di chiarificare, amici. Significa anche: non trincerarsi più in un mistero o in una scuola di scolarchi contro il sottobosco. Chiarificare significa: abbassa il tuo stile e la tua testa se puoi [nobilmente] sedurre ed esaltare [allegramente] un lettore in più – cioè la sua anima. Ali di farfalla, appunto. Esaltare significa fargli godere la sua vita, renderlo orgoglioso della vita. E poi bisogna fargli notare che è vivo: tentata conquista.

]]> Di: massimo http://poesia2punto0.com/2011/03/02/laria-1/#comment-2402 Sun, 20 Mar 2011 12:10:30 +0000 http://poesia2punto0.com/?p=5669#comment-2402 altrimenti l’ANIMA si adagia, povera lei, o si uccide, o non vuole più vivere. poi il corpo le va dietro, perché non ha un’altra sposa e un altro riposo. allora un polittico senza rilassamenti facili, un approdo utile e la pace dopo la tempesta, oppure il mistero di una intensità *formata*. non dico l’uomo comodo, l’uscita del venerdì sera dove una birra costa come 45 minuti di lavoro (call center, ristorante)

il “corpo carismatico” è una mia formula, detta anche ingenuamente [non si tratta di bellezza alla Garko: penso ai segni – rughe tatuaggi cicatrici – sul corpo di Enzo Motta, nella Bocca del lupo]. Chiara Daino la ripete, e lei sa di che cosa parlo, di che cosa *si parla* anche quando sono in gioco delle “piccole cose” [Odradek di Kafka era una piccola cosa, tanto piccola da essere inutile, *quindi* misteriosa: ma bisogna essere Grandi per fare poesia delle Piccole Cose; o grandi o totali e sanguigni]. noi dobbiamo morire, no? non ci sarà un altro 20 marzo fino al 2012, non ci sarà un altro Aldo Clementi come quello che è morto all’inizio di marzo, non ci sarà un’altra Moana Pozzi, un altro Giovanni Testori. questo minuto è già passato, *tutto quello che appare* è UNICO. una ragione di più per *agire secondo la grandezza* [ognuno ha la sua: Danilo Dolci, gigante buono, è forse troppo per noi; ma davvero ognuno ha la sua – come ha il suo corpo, segnato e tatuato di tutto ciò che è: bodies never lie]

il problema delle Tecniche – nomen omen, titolo omen – di Gherardo è estetico; come è estetico quello dei riporti mercificati di Marco Giovenale, come nota Zublena: http://www.polimata.it/dettaglio_079.php . ritaglio soprattutto questo passo:

«l’oggetto dell’esperienza estetica non è il bello in sé, ma la condizione del farsi del senso: un’esperienza – quella estetica – che sia esemplare delle condizioni di possibilità dell’esperienza stessa. Giovenale – come altri compagni di strada di Prosa in prosa, come tanti autori in primo luogo statunitensi a cui si è accennato sopra – radicalizza l’impossibilità teoretica di distinguere un oggetto estetico specifico dell’arte che si distingua da un altro dall’arte».

è una prospettiva che capisco, non importa che io la condivida o meno. faccio finta che il problema – e il punto di vista -non sia estetico. diciamo che è antropologico: quell’umanità è disperatamente in cerca di aiuto, e non sa di chiederlo, non sa come chiederlo; e poi a chi? parla, e scrive, l’ultima scarna avanguardia dei giovani in Italia (il 20% della popolazione italiana ha più di 65 anni, dati Istat 2010, letti e mangiati oggi nella Rete); e i giovani quasi 40enni (et ego!) affondano in un interregno freddino. né gioia né maestà – e io ne ho paura, perché leggo questi testi *da un punto di vista non estetico*

“padron, siam tutti morti!”, come dice Leporello, se chiamiamo *sottobosco* ciò che non siamo non vogliamo, e se ci pare *mainstream* tutto quello che *piace a molti* [e Dio mio: c’è *più di una* differenza tra il rilassante Allevi e Giovanni Lindo Ferretti il reduce; più di una differenza tra Melissa P e Isabella Santacroce!]

ogni tanto riapro Dark Demonia di Isabella Santacroce – e perché non dovrei dire che quella è poesia? e sarà pure mainstream, che cosa me ne importa? più stream che main, secondo me. e le prime righe – tu lettore puoi cercarle – sono memorabili

senza comunicazione, è morte o tristezza. e la morte non può piacere, come la svendita della dignità [per questa svendita ora non siamo più amici di Qaddafi; in poche settimane si passa dai baciamano ai bombardamenti: succede anche nelle migliori famiglie; persino nei rapporti dei poeti]

]]> Di: massimo http://poesia2punto0.com/2011/03/02/laria-1/#comment-2346 Wed, 16 Mar 2011 08:32:28 +0000 http://poesia2punto0.com/?p=5669#comment-2346 grazie, Marco.

e continuo con le TAVOLE GENOVESI, secondo un titolo felice di Eugenio De Signoribus.

LA BOCCA DEL LUPO di Pietro Marcello: film vincente e vincitore, benedetto da Sanguineti e dai critici e dai festival. giustamente. perché giustamente? giustamente dopo un *abbandono* e un cambio di rotta. quale cambio di rotta?

IN PRINCIPIO l’idea di Pietro Marcello era di far seguire Enzo da un’OMBRA, nei suoi attraversamenti: un vero e proprio fantasma, invisibile a tutti, in giacca blu. il fantasma era un ex emigrante: “si era fatto emigrante, non lo è mai diventato”, secondo un pensiero di Pietro. il fantasma riemergeva dal mare di Bogliasco, mezzo nudo, all’alba, riceveva degli stracci e si avviava a Genova. a Genova incontrava Enzo e lo seguiva. a volte lo perdeva; così il fantasma si perdeva in luoghi aperti e pubblici, il grande Mercato Orientale, le bancarelle dei librai in Piazza Colombo. trattenendo il respiro, il fantasma riusciva ad appoggiare la testa alla spalla di sconosciuti inconsapevoli: non notato, non visto, come un invisibile.

quel fantasma ero io. le scene erano molto belle [le foto di Giorgio Bergami, che ci seguiva, possono ancora dimostrarlo], ma non funzionavano. per questo la mia parte è stata tagliata e il film rimontato come è, eliminando moltissima fiction e tornando alla realtà filmata: compresa la lunga confessione di Mary, come in un talk show. GIUSTAMENTE.

non è tanto il film di Pietro Marcello *regista*, ma di Sara Fgaier *montatrice*: il lavoro sul repertorio è enorme. e non è tanto il film dei tecnici e dei produttori quanto la storia, anche epica, di ENZO MOTTA e di MARY MONACO. il film *vero e proprio* l’hanno fatto loro, con la loro esperienza e la loro voce: altrimenti sarebbe fallito, perché la *costruzione angelica* e *fantasmatica* – cioè puramente intellettuale – non funzionava.

dunque: onore a Enzo-roccia, e dolcezza a Mary, che non è più in vita (dolcezza anche a Marino, cioè Siberia, morta anche lei: e la ricordo che citava Virgilio nei vicoli, perché era di Mantova come lei). Enzo, quando lo vedo, mi grida *Ombraaaa!*, e poi si rivolge a qualcuno – Enzo ha tanti amici, tutti sono amici di Enzo – e dice “lui è la mia ombraaaa!”. bene: sono orgoglioso di essere l’ombra di un UOMO. (non a caso alla messa di Natale, don Gallo l’ha chiamato a dire un pezzo della preghiera dei fedeli: ed Enzo non ha pregato, ma ha detto il numero esatto dei giorni *senza Mary*: questa è stata la sua preghiera)

che cosa voglio dire? è molto semplice. la realtà è più grande dei nostri miti – Bresson… Pier Paolo… Sanguineti… La realtà degli uomini può entrare in schemi intellettualistici e formali, ma ne esce violentemente. “sono rimasta colpito” da Enzo, dice Mary nella confesione. rimastA e colpitO, donna e uomo. nessun poeta l’avrebbe scritto. nessuna sceneggiatura obbligava Mary a dirlo. l’ha detto liberamente, secondo un sentire parallelo al suo ESSERE.

sono abituato a considerare il mio corpo come il mio laboratorio: quello che io PROVO, io lo SO; e quello che tu provi, io NON LO SO, se non per empatia e comunicazione. la bocca del lupo si basa proprio sul PROVARE di Enzo e Mary: un vero *sperimentare con la vita*, *sperimentare la vita*.

quello che tu provi è oggetto di arte: cioè una notizia e una tradizione. quello che io provo è la mia vita. io SO di me, e di te ho INFORMAZIONI. per questo parlo sempre di questo corpo-asino. per questo amo la città barbara, il cui nome è PORTA: il banco di prova composito e tragicomico di tutto ciò che può accadere nella vita e di tutti i paesaggi (mare collina pianura asfalto cemento).

dove la poesia non soddisfa – compresa la mia, e per questo riscrivo e distruggo e voglio rinascere – è perché la NOTIZIA prescinde dal PROVARE. non si coglie nessuna realtà anteriore: dunque nessun effetto interiore.

]]> Di: marco ercolani http://poesia2punto0.com/2011/03/02/laria-1/#comment-2337 Tue, 15 Mar 2011 20:45:29 +0000 http://poesia2punto0.com/?p=5669#comment-2337 Melina Riccio è, in se stessa, action poetry.
“L’umanesimo annoia”, è vero, sempre.
Ma la scrittura no, lei resta disumana e tranquilla. Si mette a disposizione di. Celanianamente, si “espone”.
Gli scriventi dovrebbero capire che i loro testi sono solo “partiture” per le voci che li abitano.

m

]]> Di: massimo http://poesia2punto0.com/2011/03/02/laria-1/#comment-2316 Tue, 15 Mar 2011 09:46:00 +0000 http://poesia2punto0.com/?p=5669#comment-2316 c’è sempre il rischio che tutto si riduca a niente, a mente, a colloqui cordiali e freddi, a ricerca di conoscenza e conoscenza della ricerca: teniamoci informati! non c’è niente di male, ma è la morte del furor e la morte dell’amore

a Bologna, due giorni fa, gruppetti di ragazzi *regalavano abbracci* ai passanti: corsa e abbraccio, come farne a meno? eccomi, abbracciami!

il “refrigerio di essere solo” – parole di Pavese – si capisce, ma è il fallimento delle relazioni: “andate le compagnie” [è il 1945: non sono compagnie scialbe da facebook; sono perfettamente reali; eppure: Pavese ci si *scalda* e questo calore non gli piace; che venga il refrigerio]. c’è il rischio che la Tutta Mente diventi Pangloss, tutta lingua: e allora la Mente non vede altro che un sottobosco infelice e provinciale.

ho davanti a me un foglio di Melina Riccio, uno strano mandala di cuori e madonne e ritagli. mezza Italia ha visto le sue scritture, è consolante girare e trovarle. E il parlare in rima di Melina, *che cosa è?* direi che non è un parlare, ma un ESSERE IN RIMA. Melina parla *solo così*. i poeti della poesia poetica diranno: che ingenuità, che sottobosco, che malattia.

OPPURE E’ QUESTA LA POESIA? non tanto trasgredire le forme o innovare il linguaggio o proteggere la tradizione – tutti idoli, in fondo; e in fondo l’italiano è una lingua marginale. la poesia è stata separata dalla psiche – l’antico antichissimo CUORE – ed è stata separata dalle AZIONI. Melina raccoglie fiori e cibo dai bidoni e li offre: se li offre ad Elisabetta comincia “Elisabetta ti do questi fiori per vita perfetta, che finiscano i dolori…” – e così per minuti e minuti. non parlare ma ESSERE LA PAROLA: trasformando la propria credibilità sociale, la propria *figura*. tanto onore e rispetto per Melina.

http://genova.mentelocale.it/25964-melina-riccio-mentelocale-guarda-la-video-intervista/

http://www.blogenova.it/2010/09/02/commenda-di-pre-artisti-fuori-norma/

due discorsi in rima – due *essenze in rima* – di Melina sono in *Sento le voci* di Ercolani e Frisa, La vita felice, Milano 2009, pp. 155, 161. Ad esempio:

SE CAPISCE DOTTORE IL MIO MOTTO
E BEVE D’ALLORO IL DECOTTO
DIVENTA DAVVERO DOTTO
CON FUMO E CAFFE’ VA A DIROTTO
CON POESIA ALLEGRIA CORTESIA
LA INFORMO CHE HO VINTO LA MIA MALATTIA
GRATIS METTO A DISPOSIZIONE
A TUTTI LA VITA MIA
PER USCIRE DALLA FOLLIA
CHE CHIUDE ANCHE IN PSICHIATRIA

in fondo, la poesia è stata affidata solo agli umanisti: quindi *solo* un’arte umanistica, studiata da umanisti, raccolta da studiosi. il risultato è che il mondo si gira dall’altra parte: l’umanesimo annoia. ma tra noia e goliardia [quella volgare e politicizzata di Timi… quella sbracata e simpatica di Monni] ci può essere *qualcosa* – e se non *qualcosa*: QUALCUNO. qualcuno che *metta a disposizione la vita*, che conosca con corpo e amore, che *non sia solo una mente* [e lamento di mente piccola]

]]> Di: Redazione http://poesia2punto0.com/2011/03/02/laria-1/#comment-2248 Sat, 12 Mar 2011 16:08:30 +0000 http://poesia2punto0.com/?p=5669#comment-2248 Ottima questa chicca di Rousselot – materiale interessante che cercherò di recuperare e approfondire.
Resto in ascolto
Luigi B.

]]> Di: massimo http://poesia2punto0.com/2011/03/02/laria-1/#comment-2242 Sat, 12 Mar 2011 09:24:02 +0000 http://poesia2punto0.com/?p=5669#comment-2242 non tutto è logico e filologico. stacco il FILO dal LOGICO e continuo. ecco un altro apporto, una scheda su Leela Marampudi, per il suo libro del 2008. forse tocca questioni più che individuali. è chiaro: “partire dal vuoto” lo può dire solo chi *sa* che cosa significhi; io potrei dire solo, dignitosamente, “partire dalla difficoltà, dalla povertà, ecc.”, ma non dal vuoto. potrei dirlo da scrittore, da narratore, da mitologo; non da *esperto*. e ora, in un altro continente, moltissime persone devono *ripartire dal vuoto*, tranne i morti: con rispetto, è dedicato anche a loro e ai loro morti.

1
Il vuoto è nella persona che «non sa da chi farsi dirigere».
«Sono stata adottata e questo mi porta a non sentirmi indiana né italiana. […] È come se partissi dal vuoto per trovarmi e così poter iniziare a muovermi».
La solitudine «è nell’essere a metà strada».
Il «destino immobile» è una cosa umana troppo umana, per «gli uomini che non vogliono dipendere dalle leggi dell’universo».
Quando Leela afferma che c’è il vuoto, parla del vuoto che è la sua esperienza; quando dice destino immobile si riferisce ad una vera «adozione/rapimento»; quando dice io dice io. L’esperienza è l’esperimento di una forma di vita, e il libro è uno «strumento». Leela parla di sé, con la precisione di chi identifica la propria vita con il proprio laboratorio peemanente: l’una non è senza l’altro, finché si «sperimenta con la vita». Leela spiega la vita di Leela. Io posso solo commentare questa evidenza con altre vite, da Claudel («La séparation a eu lieu, et l’exil où il est entré le suit») a Naipaul (l’India degli antenati «si rivelò una terra estranea»); e con altre vite dell’umile Italia, dopo.

2
In questo libro non «inizia la vita nuova».
Qui c’è il vuoto, preciso e determinato da altri, così come non vi è un, ma il, destino. Rispetto al destino, la Premessa di Leela racconta tutto. Il lettore ne è attaccato sùbito, fino a soffrirne. È possibile che il lettore si riconosca, a modo suo, nel destino immobile: anche se ha due e non quattro genitori, e anche se fosse perfettamente italiano e italofono. Il lettore commosso ripeterebbe a se stesso frasi già sentite: «ed io come te non ho come padre il padre / né come madre la madre» (Alessandro Ceni, I fiumi, 1985), «Io vi sono marziana» (Vivian Lamarque, Teresino, 1981), «nessuno sarà mai grande e forte» (Riccardo Held, Appunti di poetica, 2000). Nel caso di Leela, il destino è immobile; in altre esperienze il destino è coatto, come quello di Goliarda Sapienza; in ogni caso, i due destini comportano una sfida simile, il cui pronome è noi.
Intanto il vuoto continua.
Sta nelle righe tra porfido e porfido, «vuote d’indipendenza». È anche nel passeggino-giocattolo, spinto da una bambina che impersona e subisce il destino.

3
«È come se partissi dal vuoto per trovarmi e così poter iniziare a muovermi». Trovarsi e muoversi sono azioni di chi sta in un luogo. L’adozione internazionale – il principio del vuoto, che non è un luogo – modifica il rapporto con trovarsi e muoversi, e da questa esperienza deriva «l’impossibilità di agire serenamente». Saperlo, senza mentire a se stessi, significa essere il laboratorio, lo scienziato e l’esperimento: nello stesso tempo, qui e ora, che si chiama la vita e in cui avviene la vivisezione.

4
Dove va chi viene dal vuoto?
Il vuoto è tutto, per tutti: «Noi siamo nel vuoto, senza identificarci in una delle due strade l’inizio e la fine coincidono». Allora il lettore abile – e un po’ dissimulatore, grazie alla cultura – cerca sùbito gli addentellati: qualche allegoria, il ricordo di un Eliot per cui «in my end is my beginning», e tutto il resto. Il fatto è che qui si manifestano la vita e il destino di una donna esistente, che ora dice noi.
Io «sono stata adottata», ma noi «siamo nel vuoto», nessuno escluso. La vita in una sola nazione e la permanenza in una sola famiglia non saranno basi sufficienti: né per la felicità né per l’orientamento dopo la nascita. Chi vive da adottato, in un altro Paese – per esempio l’Italia in cui si grida il motto osceno: l’Italia agli Italiani! – è più sensibile alla mancanza di un centro, quindi più consapevole del vuoto. Ora, Leela è stata veramente adottata. Ma io conosco autori che hanno creduto di essere figli adottivi, per non dover ammettere che quel padre e quella madre erano il padre e la madre. Per ipocrisia, non si ammette che vere esperienze costruiscono vere informazioni, a partire dai veri laboratori, non allegorici, di chi sperimenta la vita con la propria vita.
Questo strazio – provenire dal vuoto, o simularne uno, se il presente genitoriale è infelice – ha a che fare con molte vite: quindi con molte buone scritture – soprattutto di donne – che hanno spesso un segnale arcaico. Il segnale è chiaro: gli adottati, reali o immaginari, identificano la scrittura o la lingua con l’ACQUA, che o piove o scorre o «scivola sul vetro / dimenticando la sua coda». Il termine degli orfani, diversi e simili, è diverso e simile, e le sue occorrenze nella poesia contemporanea (Bonito, Ceriani, Salvaneschi) sono atroci: si tratta della NEVE, acqua solida (non scorre) e bianca (copre i colori).

5
Questa è l’arte in cui le linee si orientano e finiscono in un bianco, e il bianco prelude ad un’altra linea, in basso. Non è un caso che i segni della mancanza di serenità diventino un disegno andante. Non è un caso che oggi questi segni siano tanto autocritici quanto metalinguistici: sull’uso delle parole, che io scelgo, si basa la separazione, controllata da me e non immobile/coatta come la prima. Questo è il lavoro dei molti che oggi dicono un onesto noi.
Chi è nato è nato, comunque. Tra i nati, qualche figlio viene anche adottato e rimosso, in realtà e non in realtà: comunque. Claudel è stato chiaro, una volta per tutte: l’esilio ti seguirà. È da queste condizioni reali che l’acqua si stacca.

]]> Di: massimo http://poesia2punto0.com/2011/03/02/laria-1/#comment-2241 Sat, 12 Mar 2011 09:14:45 +0000 http://poesia2punto0.com/?p=5669#comment-2241 e aggiungo ora questa scheda [non formattata e senza corsivi] sul “problema dell’amore nel Medioevo”. ma non si tratta solo dell’onesto Rousselot. si tratta dell’*amore per il problema*: cosa da *amatores sapientiae*

***

Nel 1908 Rousselot non impone un modello univoco dell’amore, ma una bipartizione realistica: amore fisico e amore estatico. D’ora in poi, il «problema dell’amore» medievale aderisce a tutto il Novecento, con giganti e fraintendimenti giganteschi (Valli, Köhler, Bousquet, Lewis, Weil, Moretti-Costanzi, Rougemont, Nelli, Guénon, Pulega, Peter Russell, e altri e altre): non è un caso, perché sull’amore – che è una potenza vincolante e incontrollabile – si giocano questioni più che medievali, in primo luogo la libertà. Apertamente o no, le domande sull’amore riguardano la signoria: chi comanda a chi? perché comanda? quale autonomia spetta al servo? il servizio è dolce, amaro, dolceamaro? l’amore è vita o morte? Apertamente o no, il problema del dominio implica l’origine e il fine della parola, non solo in poesia. Nel Novecento dei giganti, Pasolini filma a Salò il non plus ultra di questa tensione ininterrotta: l’amore è solo sesso, il sesso è sempre violenza, il fascista è sempre libero (e anarchico) perché è perfettamente brutale. Essendo perfettamente libero e brutale, il fascista di Salò conosce un altro lusso sadico: godere delle parole, esattamente come gode dell’orgia e della strage.
Il potere promuove l’enfasi fisica a scapito dell’estasi. Perché il potere – compreso quello del consumismo globale – sarebbe nullo, se non ci fossero molti corpi: ai quali il potere – che in nessun modo è cristiano – si oppone, mentre l’Agnello di Dio accetta di essere corpo, vittima del sadismo, olocausto, cibo.
Rousselot sa, perché le sue fonti filosofiche lo sanno, che «l’amour est tout à la fois extrèmement violent et extrèmement libre: libre, parce qu’on ne saurait lui trouver d’autre raison que lui-même, indépendent qu’il est des appétits naturels; violent, parce qu’il va à l’encontre de ces appétits, qu’il les tyrannise, qu’il semble ne pouvoir être assouvi que par la destruction du sujet qui aime […]. Etant tel, il n’a pas d’autre but que lui-même, on lui sacrifie tout dans l’homme, jusqu’au bonheur et jusqu’à la raison». La normalità dell’amore – fonte della parola – è la doppiezza: dunque la parola può essere multipla, purché sia decifrabile e riconducibile ad un senso vero. Il nostro archetipo lirico è sia il vangelo di una vittima sia la glorificazione di un eletto: Dante è deturpato fisicamente da Amore («a molti amici pesava della mia vista»: Vita nova, 2,3 Gorni), ma lo stesso Amore ne fa estaticamente il suo poeta, azzerando il resto («Pensa di benedicere lo dì che io ti presi, però che tu lo dêi fare»: 15,2; benedire il peso, non maledirlo). Stilisticamente, le «tristi penne» di Cavalcanti possono scrivere sia una lode sia un insulto comico, perché la normalità è questa, per tutti i poeti. Dunque: due condizioni, contemporanee, e due stili contemporanei, simmetrici alla doppia condizione. Ieri e oggi, nelle operazioni del dire l’obbligo si unisce alla libertà, e il «problema dell’amore» ci vincola tutti. In realtà, è l’amore per un problema.

]]> Di: massimo http://poesia2punto0.com/2011/03/02/laria-1/#comment-2215 Thu, 10 Mar 2011 21:18:35 +0000 http://poesia2punto0.com/?p=5669#comment-2215 e sono bellissimi *nella realtà della voce*, nell’*azione*, quei SILENZI. sono la parte angelica del tutto. quando riappare la prima sillaba *dopo*, l’intensità è più forte. la critica criticante fallisce, di fronte all’emozione. l’emozione non è una scienza, a sua volta. quanto a me, il dionisiaco – oggi lo vedo nei filmati di Celibidache – oppure in questo

http://www.youtube.com/watch?v=ZI7MEnElhOc&feature=related

nel canto V dell’Inferno, quando l’ho fatto leggere ad Elisa Calvi, ad esempio: molti silenzi. il nome di FRANCESCA, sillabato, lento… l’esitazione di un Dante che sta per piangere come Cristo davanti a Lazzaro morto, che sta per svenire:

Fran…ce…sca…

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