L’Aria n.1

 

[Questo è il primo scritto che inaugura la nuova rubrica L’Aria a cura di Massimo Sannelli.]

 

l’ANIMA dice: adesso io voglio vivere.
e io dico: la teoria che ti fa parlare è bella, anima. tu vivevi anche prima, anima.
all’ANIMA piace il diario, il dialogo le piace meno.
e io le dico: è vero. non c’è grazia in certi dialoghi, lo so: allora – tre e cinque e quattro anni fa – era anche questione di convenienza, e noi eravamo gli inusuali. ci siamo fatti mangiare e abbiamo mangiato (300 euro al mese, per la vita di allora). ci siamo esposti e ci hanno tolto la pace e ce la siamo fatta togliere. e distruggevamo idoli, perché distruggevamo identità: chi sei tu, per parlare? chi sei tu, quando parli? facevamo domande così, anima. tu non vuoi cantare ma vuoi vivere. e le «dolci rime d’amore»? anche quelle sono morte: erano volte tutte a un mondo triste, che non mangia e ne muore, un po’ godendo un po’ soffrendo. ora io non voglio morire [e la morte non è bella, ma scomposta; non è poesia, ma realtà della posa finale, che il medico registra, il carabiniere fotografa. «questo non è un suicidio», dice il medico: «la posa è troppo innaturale». va bene, non è così che può finire un progetto, e non siamo tanto soli da poter morire, adesso]

[e l’appuntamento non sarà sterile, ma non morderà più nessuno: il tempo dei morsi non è finito, e la bocca vuole indirizzarsi un po’ meglio]. [e nessun laboratorio è migliore della vita presente: ogni centimetro – di pelle – e ogni secondo – della vita privata – servono ad accumulare dati, a stabilire nessi e reti. in fondo, l’anima è una grande puttana, ma è casta. il corpo esce poco, accompagna la sposa in qualche via e in qualche viaggio]. la teoria teorizza e la prassi pratica: non c’è niente di strano. ma qui non si fa più la «scuola di poesia».

la scrittura o scortica troppo o vola basso: l’intensità esagera o manca. oppure: c’è un trionfo sintattico, come nelle Tecniche di basso livello di Gherardo Bortolotti. lì tutto è ben detto, ma il mondo di cui parla Bortolotti è un ritaglio del nostro. è meno che industriale, è precario e innaturale – è un mondo in cui non sorge il sole e non c’è foglia d’erba che viva sotto il sole; il luogo è la città, il nido è un appartamento: «Le testimonianze sembravano provare il contrario ma, in effetti, eravamo vivi. All’inizio della stagione televisiva, quando la sera ci trovava impreparati, senza abitudini, di colpo ci sentivamo respirare, vedevamo la nostra ombra sul muro del bagno. Alcuni particolari irrilevanti ci tornavano alla mente, alcune gaffe, alcuni gravi sbagli commessi nei confronti degli altri. // Frequentavamo distrattamente il nostro corpo, trovandoci spesso nella posizione di chi non crede del tutto a quello che vede. La pubblicità delle cucine sembrava l’esempio di una verità più piena e, a conti fatti, più plausibile».  questo è lo squallore, molto occidentale e molto settentrionale, su cui Bortolotti impone la sapienza della sintassi, le dieci, dodici, quindici parole a periodo, la prima pausa dopo tre, quattro, cinque parole.
l’anima non ha molta pace, incalza:
se questo bagno è il mondo, questo mondo è l’inferno.
se questo mondo, che è il bagno, è l’inferno, questa scrittura è la sua comedìa fedele;
se questa fedeltà è arte, è un’arte infelice. e io non voglio essere infelice – dice l’ANIMA.

Francesca Vitale lo ha scritto meglio di noi: «il sacro è stato violato dai climatizzatori a palla». da poco tempo l’anima ha visto diverse parodie della vita, a teatro: diverse violazioni, in realtà. l’Amleto di Filippo Timi – intitolato alla goliarda: Il popolo ha fame? Diamogli le brioche – era il manicomio e l’avanspettacolo (la donna poco vestita, l’uomo con le pinne, l’imitazione di Lino Banfi e del trans); il Sogno di una notte d’estate di Massimiliano Civica era glaciale e nudo, con gli attori seduti ai lati del palco, come spettatori al cinema, e la piccola troupe dei comici in abiti moderni, e uno si chiamava Merda, un altro Scamarcio, un altro Culo; l’Edipo Re di Branciaroli gettava via la parte da sé, come citandosi, e Creonte declamava, si sbracciava; e accanto al letto di Edipo un uomo stava di spalle, seduto e prendeva appunti: quello era Freud. Freud, veramente. Freud in Sofocle, veramente. ed ecco la morale: o glaciali, ma raffinati, o parodici, ma dilatando i limiti per inserire quello che NON c’è mai stato. e una grande paura della realtà, la paura del rispetto dovuto a ciò che è maggiore di noi.
ora l’anima chiede più musica che scrittura. Rimandi e scoperte di Angelo Petronella, in tre parti serratissime, senza sbavature, la seconda misteriosa, la terza ostica, con il suono continuo di una specie di macchina – quale? l’anima mangia musica, più che parole. parla di sé perché parlo di me, dico LEI per non dire IO, per nascondermi e mostrarmi piangente e ridente, come posso [come voglio: e nella mia FAME immateriale, ora che è risolta quella della pancia]. in questo laboratorio c’è un solo corpo. ma è certo che non posso più frequentare distrattamente il mio corpo, ora. l’anima ha troppa fretta: ha solo lui, come strumento; e io, il corpo, segnato dal nome, dall’identità e dall’età, non ho altro che lei. dove sente l’odore della morte, lei si ritrae, e io mi fido di lei. la forma di questo stile mi difende, perché non è più critica: voglio crederlo. voglio anche divertirmi, scavalcare delle ringhiere (per raccogliere frutti, come l’estate scorsa; spargere tabacco sulla tomba di Edoardo Sanguineti). Così sono contento di fidarmi e contento di eccitarmi.

 

(11 febbraio 2011)

 

opere:

Gherardo Bortolotti, Tecniche di basso livello, Lavieri, 2009 (www.lavieri.it);
Angelo Petronella, Rimandi e scoperte, Die Schachtel, 2010 (http://www.dieschachtel.com)
Massimo Sannelli, Scuola di poesia, Wizarts, Porto S. Elpidio, 2010.
Francesca Vitale, La rosa dei venti, La camera verde, 2009 (www.lacameraverde.com)
Patrizia Bianchi (immagine), Un angelo, disegno su carta rielaborato graficamente

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33 Comments

  • anche il “coraggio” è in questione. quando ripubblicai – cioè DISTRUSSI, per ricostruire – metà delle mie poesie, correva questo complimento: “hai avuto *coraggio*”. che strano. davvero: che strano. mi dicevo: dov’è il coraggio nel ricondurre una forma alla realtà che *io* sento? in quelle poesie l’io era troppo travestito: infelicità, nevrosi. smettila – mi dissi. e così ho smesso, ho cambiato.

    ma il coraggio NON può essere la riscrittura di una forma. il coraggio è vivere a Baghdad, a Kabul, a Scampia; il coraggio è in un volontariato pesante come quello di San Marcellino e San Benedetto a Genova. in fondo noi umanisti vediamo le cose in gabbie che non sono parolibere futuriste ma cerchietti, schermetti, schermini. tantomeno il coraggio è irridere o criticare un critico-scolarca: in ogni caso, la sua potenza è locale, i suoi lettori sono pochi (l’epigramma di Zeichen, in Aforismi d’autunno, su – o contro – Filippo Bettini potrebbe far scoprire ai lettori che Filippo Bettini *esiste*).

    questo tempo merita la realtà. l’aria si insinua tra cosa e cosa. il vuoto pneumatico è un po’ mortifero, è la camera insonorizzata…

  • ecco una ‘lettera’ di ieri. è piena di io e di nomi: non è necessario che l’io sia particolarmente grande, né che i nomi siano glorie e marmi. basta dire dov’è la vita, poi ci si orienta. senza passione, nulla – e così SEMPRE.

    Quarta lettera sull’intensità. Per A dieci minuti da Urano. Poesie di tentata conquista di Carla de Angelis [nb: testo non formattato, mancano tutti i corsivi, che sono molti: increspature della VOCE, più che della RIGA]

    1. L’io non è un male, e perché dovrebbe esserlo? L’io lirico – bestia nera, angelo bianco – non ha mai ucciso nessuno, è impolitico e nonviolento: e allora che male vi ha fatto, amici? C’è chi sorriderebbe del «sudore dell’anima». Dov’è il problema: nel sudore? Troppo corpo. Nella cosa innominabile: l’anima? Troppa donna. Il vero problema è l’anima, innominabile: eppure esiste una scienza che si chiama psicologia. La «scienza dell’anima» può essere anche la scienza della farfalla; o anche: il discorso dell’anima, che parla. O anche: il discorso della farfalla, che parla a suo modo: la psyché alata, la psyché vivente, la psyché scrive. E ora Aleksandr Balagura intitola Ali di farfalla un cortometraggio di pura poesia: il racconto di più giovani a Kiev, che scoprono il cinema nei primi anni Ottanta, e qualche fotogramma rimane; poi Aleksandr torna a cercare le bobine, rivede gli amici, uno di loro è morto, si cerca una patria nuova in Italia, ci resta. Ne è nato un documentario di montaggio, come La bocca del lupo di Pietro Marcello. Non a caso sono due documentari su storie private (Enzo e Aleksandr), sulla mutazione dei luoghi (la Kiev comunista, la lontanissima Genova industriale e portuale), sulla ricerca del paese innocente (la casa in collina per Enzo e Mary; Bagno Vignoni per Aleksandr). In questi film il montaggio è grande come l’ispirazione e la regìa è meno forte della storia vera. La Bocca del lupo in particolare è il film di Enzo, non di Pietro.

    2. L’io vivente è lo specchio in terra del Dio vivente. Crescendo, può dissociarsi nobilmente dalla scuola, come l’Anima dello Specchio di Margherita Porete: «Io non prego nulla». E così: «Basta domande inutili / analizzare ogni frase // inganni sulle vocali, inciampi sugli accenti».

    3. Il sudore riappare sùbito: basta guardare la casa, opera del lavoro. I muratori bevono birre, con i «volti sudati». I sacchi di cemento sono pesantissimi, i detriti sono pesantissimi. Gli umanisti non lo sanno, di solito: quanti pesi portano, e quali? Quando? Infatti non hanno un bel corpo, di solito. La birra dopo un lavoro duro è una benedizione del Dio altissimo. Dopo il muratore, il contadino, sùbito dopo. E Carla ha ragione di dire: «Temo la vita senza emozioni / abiti da comprare // alberi da curare / stoviglie nuove tappeti // pareti da dipingere / appatiti di tavole imbandite». È una vita che fa più paura della morte. Infatti moltissima poesia contemporanea parla della morte, anche senza saperlo: parla sottilmente della «vita senza emozioni», gloriandosene anche un po’. Non si può chiederlo ad una moglie, ad una madre: infatti la poesia «senza emozione» è frutto freddo di maschi, arroccati nella mente. Chissà che cosa prova una donna, una moglie, una madre. Ma un uomo è molto inesperto, sa poco di chi lo fa crescere, di chi gli cresce accanto. Un critico criticò oralmente: «La poesia di Florinda Fusco è surrealismo mestruale». Commento di mia madre, secca: «Digli che anche lui esiste grazie alle mestruazioni di una donna».

    4. La vita piena di fatti, la vita che dà la vita ad una figlia – Carla è madre – non ha bisogno di ambizioni e di illusioni. «Porto a spasso la bellezza / eppure bella non sono». E poi: «Non mi tramuta in marmo né in alloro», né scultura né Dafne, nessun particolare Apollo adorabile-tremendo. Il soggetto è la vita, svelata a fine testo. La vita non è facile, e chi l’ha mai detto? Le madri si sono spaccate in due per metterci nel mondo, e noi occultiamo la vita; oppure la cerchiamo fredda e freddina, perché l’uomo ha paura di sembrare una donna. L’uomo ha paura di ciò che è perenne e animale nello stesso tempo, intellettuale e vitale, gentile e selvatico nello stesso tempo (quando Carla sfida il gatto, e ne scrive, è come un incontro tra pari in natura). Difficilmente un uomo sarà molte cose nello stesso tempo [sarà preso in giro dai piccoli piccoli; gli diranno, anche verso il quarantesimo anno: «sei praticamente una donna», come se la parola DONNA fosse un’ingiuria. Non hanno mai visto una donna? E ancora meno l’hanno toccata]. La vita «spalma di olio la strada in salita / spezza i freni in discesa». Ci sono i rischi, ci sei tu. Tanto vale restare, il corpo ha una sua resistenza [e quanto è resistente la Farfalla in mente, l’io vivente]. Il contrario della vita grande è sempre in agguato: «Insolute bocche mendaci / sacrificano angeli // al tramonto stridono / non risparmiano trame». Il contrario del contrario è intenso fino ad una gloria nietzscheana: «di’ al tuo dio che la vita ci piace».

    5. Bisogna «chiarificare la melma». La melma è il fango, che Guinizelli considerava immedicabile: il fango rimane vile anche sotto i raggi del sole, il cuore ignobile non sarà mai nobile, ma al cor gentil rempaira sempre Amore. Ora no: c’è anche della nevrosi nel rifiuto di chiarificare, amici. Significa anche: non trincerarsi più in un mistero o in una scuola di scolarchi contro il sottobosco. Chiarificare significa: abbassa il tuo stile e la tua testa se puoi [nobilmente] sedurre ed esaltare [allegramente] un lettore in più – cioè la sua anima. Ali di farfalla, appunto. Esaltare significa fargli godere la sua vita, renderlo orgoglioso della vita. E poi bisogna fargli notare che è vivo: tentata conquista.

  • altrimenti l’ANIMA si adagia, povera lei, o si uccide, o non vuole più vivere. poi il corpo le va dietro, perché non ha un’altra sposa e un altro riposo. allora un polittico senza rilassamenti facili, un approdo utile e la pace dopo la tempesta, oppure il mistero di una intensità *formata*. non dico l’uomo comodo, l’uscita del venerdì sera dove una birra costa come 45 minuti di lavoro (call center, ristorante)

    il “corpo carismatico” è una mia formula, detta anche ingenuamente [non si tratta di bellezza alla Garko: penso ai segni – rughe tatuaggi cicatrici – sul corpo di Enzo Motta, nella Bocca del lupo]. Chiara Daino la ripete, e lei sa di che cosa parlo, di che cosa *si parla* anche quando sono in gioco delle “piccole cose” [Odradek di Kafka era una piccola cosa, tanto piccola da essere inutile, *quindi* misteriosa: ma bisogna essere Grandi per fare poesia delle Piccole Cose; o grandi o totali e sanguigni]. noi dobbiamo morire, no? non ci sarà un altro 20 marzo fino al 2012, non ci sarà un altro Aldo Clementi come quello che è morto all’inizio di marzo, non ci sarà un’altra Moana Pozzi, un altro Giovanni Testori. questo minuto è già passato, *tutto quello che appare* è UNICO. una ragione di più per *agire secondo la grandezza* [ognuno ha la sua: Danilo Dolci, gigante buono, è forse troppo per noi; ma davvero ognuno ha la sua – come ha il suo corpo, segnato e tatuato di tutto ciò che è: bodies never lie]

    il problema delle Tecniche – nomen omen, titolo omen – di Gherardo è estetico; come è estetico quello dei riporti mercificati di Marco Giovenale, come nota Zublena: http://www.polimata.it/dettaglio_079.php . ritaglio soprattutto questo passo:

    «l’oggetto dell’esperienza estetica non è il bello in sé, ma la condizione del farsi del senso: un’esperienza – quella estetica – che sia esemplare delle condizioni di possibilità dell’esperienza stessa. Giovenale – come altri compagni di strada di Prosa in prosa, come tanti autori in primo luogo statunitensi a cui si è accennato sopra – radicalizza l’impossibilità teoretica di distinguere un oggetto estetico specifico dell’arte che si distingua da un altro dall’arte».

    è una prospettiva che capisco, non importa che io la condivida o meno. faccio finta che il problema – e il punto di vista -non sia estetico. diciamo che è antropologico: quell’umanità è disperatamente in cerca di aiuto, e non sa di chiederlo, non sa come chiederlo; e poi a chi? parla, e scrive, l’ultima scarna avanguardia dei giovani in Italia (il 20% della popolazione italiana ha più di 65 anni, dati Istat 2010, letti e mangiati oggi nella Rete); e i giovani quasi 40enni (et ego!) affondano in un interregno freddino. né gioia né maestà – e io ne ho paura, perché leggo questi testi *da un punto di vista non estetico*

    “padron, siam tutti morti!”, come dice Leporello, se chiamiamo *sottobosco* ciò che non siamo non vogliamo, e se ci pare *mainstream* tutto quello che *piace a molti* [e Dio mio: c’è *più di una* differenza tra il rilassante Allevi e Giovanni Lindo Ferretti il reduce; più di una differenza tra Melissa P e Isabella Santacroce!]

    ogni tanto riapro Dark Demonia di Isabella Santacroce – e perché non dovrei dire che quella è poesia? e sarà pure mainstream, che cosa me ne importa? più stream che main, secondo me. e le prime righe – tu lettore puoi cercarle – sono memorabili

    senza comunicazione, è morte o tristezza. e la morte non può piacere, come la svendita della dignità [per questa svendita ora non siamo più amici di Qaddafi; in poche settimane si passa dai baciamano ai bombardamenti: succede anche nelle migliori famiglie; persino nei rapporti dei poeti]

  • grazie, Marco.

    e continuo con le TAVOLE GENOVESI, secondo un titolo felice di Eugenio De Signoribus.

    LA BOCCA DEL LUPO di Pietro Marcello: film vincente e vincitore, benedetto da Sanguineti e dai critici e dai festival. giustamente. perché giustamente? giustamente dopo un *abbandono* e un cambio di rotta. quale cambio di rotta?

    IN PRINCIPIO l’idea di Pietro Marcello era di far seguire Enzo da un’OMBRA, nei suoi attraversamenti: un vero e proprio fantasma, invisibile a tutti, in giacca blu. il fantasma era un ex emigrante: “si era fatto emigrante, non lo è mai diventato”, secondo un pensiero di Pietro. il fantasma riemergeva dal mare di Bogliasco, mezzo nudo, all’alba, riceveva degli stracci e si avviava a Genova. a Genova incontrava Enzo e lo seguiva. a volte lo perdeva; così il fantasma si perdeva in luoghi aperti e pubblici, il grande Mercato Orientale, le bancarelle dei librai in Piazza Colombo. trattenendo il respiro, il fantasma riusciva ad appoggiare la testa alla spalla di sconosciuti inconsapevoli: non notato, non visto, come un invisibile.

    quel fantasma ero io. le scene erano molto belle [le foto di Giorgio Bergami, che ci seguiva, possono ancora dimostrarlo], ma non funzionavano. per questo la mia parte è stata tagliata e il film rimontato come è, eliminando moltissima fiction e tornando alla realtà filmata: compresa la lunga confessione di Mary, come in un talk show. GIUSTAMENTE.

    non è tanto il film di Pietro Marcello *regista*, ma di Sara Fgaier *montatrice*: il lavoro sul repertorio è enorme. e non è tanto il film dei tecnici e dei produttori quanto la storia, anche epica, di ENZO MOTTA e di MARY MONACO. il film *vero e proprio* l’hanno fatto loro, con la loro esperienza e la loro voce: altrimenti sarebbe fallito, perché la *costruzione angelica* e *fantasmatica* – cioè puramente intellettuale – non funzionava.

    dunque: onore a Enzo-roccia, e dolcezza a Mary, che non è più in vita (dolcezza anche a Marino, cioè Siberia, morta anche lei: e la ricordo che citava Virgilio nei vicoli, perché era di Mantova come lei). Enzo, quando lo vedo, mi grida *Ombraaaa!*, e poi si rivolge a qualcuno – Enzo ha tanti amici, tutti sono amici di Enzo – e dice “lui è la mia ombraaaa!”. bene: sono orgoglioso di essere l’ombra di un UOMO. (non a caso alla messa di Natale, don Gallo l’ha chiamato a dire un pezzo della preghiera dei fedeli: ed Enzo non ha pregato, ma ha detto il numero esatto dei giorni *senza Mary*: questa è stata la sua preghiera)

    che cosa voglio dire? è molto semplice. la realtà è più grande dei nostri miti – Bresson… Pier Paolo… Sanguineti… La realtà degli uomini può entrare in schemi intellettualistici e formali, ma ne esce violentemente. “sono rimasta colpito” da Enzo, dice Mary nella confesione. rimastA e colpitO, donna e uomo. nessun poeta l’avrebbe scritto. nessuna sceneggiatura obbligava Mary a dirlo. l’ha detto liberamente, secondo un sentire parallelo al suo ESSERE.

    sono abituato a considerare il mio corpo come il mio laboratorio: quello che io PROVO, io lo SO; e quello che tu provi, io NON LO SO, se non per empatia e comunicazione. la bocca del lupo si basa proprio sul PROVARE di Enzo e Mary: un vero *sperimentare con la vita*, *sperimentare la vita*.

    quello che tu provi è oggetto di arte: cioè una notizia e una tradizione. quello che io provo è la mia vita. io SO di me, e di te ho INFORMAZIONI. per questo parlo sempre di questo corpo-asino. per questo amo la città barbara, il cui nome è PORTA: il banco di prova composito e tragicomico di tutto ciò che può accadere nella vita e di tutti i paesaggi (mare collina pianura asfalto cemento).

    dove la poesia non soddisfa – compresa la mia, e per questo riscrivo e distruggo e voglio rinascere – è perché la NOTIZIA prescinde dal PROVARE. non si coglie nessuna realtà anteriore: dunque nessun effetto interiore.

  • Melina Riccio è, in se stessa, action poetry.
    “L’umanesimo annoia”, è vero, sempre.
    Ma la scrittura no, lei resta disumana e tranquilla. Si mette a disposizione di. Celanianamente, si “espone”.
    Gli scriventi dovrebbero capire che i loro testi sono solo “partiture” per le voci che li abitano.

    m

  • c’è sempre il rischio che tutto si riduca a niente, a mente, a colloqui cordiali e freddi, a ricerca di conoscenza e conoscenza della ricerca: teniamoci informati! non c’è niente di male, ma è la morte del furor e la morte dell’amore

    a Bologna, due giorni fa, gruppetti di ragazzi *regalavano abbracci* ai passanti: corsa e abbraccio, come farne a meno? eccomi, abbracciami!

    il “refrigerio di essere solo” – parole di Pavese – si capisce, ma è il fallimento delle relazioni: “andate le compagnie” [è il 1945: non sono compagnie scialbe da facebook; sono perfettamente reali; eppure: Pavese ci si *scalda* e questo calore non gli piace; che venga il refrigerio]. c’è il rischio che la Tutta Mente diventi Pangloss, tutta lingua: e allora la Mente non vede altro che un sottobosco infelice e provinciale.

    ho davanti a me un foglio di Melina Riccio, uno strano mandala di cuori e madonne e ritagli. mezza Italia ha visto le sue scritture, è consolante girare e trovarle. E il parlare in rima di Melina, *che cosa è?* direi che non è un parlare, ma un ESSERE IN RIMA. Melina parla *solo così*. i poeti della poesia poetica diranno: che ingenuità, che sottobosco, che malattia.

    OPPURE E’ QUESTA LA POESIA? non tanto trasgredire le forme o innovare il linguaggio o proteggere la tradizione – tutti idoli, in fondo; e in fondo l’italiano è una lingua marginale. la poesia è stata separata dalla psiche – l’antico antichissimo CUORE – ed è stata separata dalle AZIONI. Melina raccoglie fiori e cibo dai bidoni e li offre: se li offre ad Elisabetta comincia “Elisabetta ti do questi fiori per vita perfetta, che finiscano i dolori…” – e così per minuti e minuti. non parlare ma ESSERE LA PAROLA: trasformando la propria credibilità sociale, la propria *figura*. tanto onore e rispetto per Melina.

    http://genova.mentelocale.it/25964-melina-riccio-mentelocale-guarda-la-video-intervista/

    http://www.blogenova.it/2010/09/02/commenda-di-pre-artisti-fuori-norma/

    due discorsi in rima – due *essenze in rima* – di Melina sono in *Sento le voci* di Ercolani e Frisa, La vita felice, Milano 2009, pp. 155, 161. Ad esempio:

    SE CAPISCE DOTTORE IL MIO MOTTO
    E BEVE D’ALLORO IL DECOTTO
    DIVENTA DAVVERO DOTTO
    CON FUMO E CAFFE’ VA A DIROTTO
    CON POESIA ALLEGRIA CORTESIA
    LA INFORMO CHE HO VINTO LA MIA MALATTIA
    GRATIS METTO A DISPOSIZIONE
    A TUTTI LA VITA MIA
    PER USCIRE DALLA FOLLIA
    CHE CHIUDE ANCHE IN PSICHIATRIA

    in fondo, la poesia è stata affidata solo agli umanisti: quindi *solo* un’arte umanistica, studiata da umanisti, raccolta da studiosi. il risultato è che il mondo si gira dall’altra parte: l’umanesimo annoia. ma tra noia e goliardia [quella volgare e politicizzata di Timi… quella sbracata e simpatica di Monni] ci può essere *qualcosa* – e se non *qualcosa*: QUALCUNO. qualcuno che *metta a disposizione la vita*, che conosca con corpo e amore, che *non sia solo una mente* [e lamento di mente piccola]

  • non tutto è logico e filologico. stacco il FILO dal LOGICO e continuo. ecco un altro apporto, una scheda su Leela Marampudi, per il suo libro del 2008. forse tocca questioni più che individuali. è chiaro: “partire dal vuoto” lo può dire solo chi *sa* che cosa significhi; io potrei dire solo, dignitosamente, “partire dalla difficoltà, dalla povertà, ecc.”, ma non dal vuoto. potrei dirlo da scrittore, da narratore, da mitologo; non da *esperto*. e ora, in un altro continente, moltissime persone devono *ripartire dal vuoto*, tranne i morti: con rispetto, è dedicato anche a loro e ai loro morti.

    1
    Il vuoto è nella persona che «non sa da chi farsi dirigere».
    «Sono stata adottata e questo mi porta a non sentirmi indiana né italiana. […] È come se partissi dal vuoto per trovarmi e così poter iniziare a muovermi».
    La solitudine «è nell’essere a metà strada».
    Il «destino immobile» è una cosa umana troppo umana, per «gli uomini che non vogliono dipendere dalle leggi dell’universo».
    Quando Leela afferma che c’è il vuoto, parla del vuoto che è la sua esperienza; quando dice destino immobile si riferisce ad una vera «adozione/rapimento»; quando dice io dice io. L’esperienza è l’esperimento di una forma di vita, e il libro è uno «strumento». Leela parla di sé, con la precisione di chi identifica la propria vita con il proprio laboratorio peemanente: l’una non è senza l’altro, finché si «sperimenta con la vita». Leela spiega la vita di Leela. Io posso solo commentare questa evidenza con altre vite, da Claudel («La séparation a eu lieu, et l’exil où il est entré le suit») a Naipaul (l’India degli antenati «si rivelò una terra estranea»); e con altre vite dell’umile Italia, dopo.

    2
    In questo libro non «inizia la vita nuova».
    Qui c’è il vuoto, preciso e determinato da altri, così come non vi è un, ma il, destino. Rispetto al destino, la Premessa di Leela racconta tutto. Il lettore ne è attaccato sùbito, fino a soffrirne. È possibile che il lettore si riconosca, a modo suo, nel destino immobile: anche se ha due e non quattro genitori, e anche se fosse perfettamente italiano e italofono. Il lettore commosso ripeterebbe a se stesso frasi già sentite: «ed io come te non ho come padre il padre / né come madre la madre» (Alessandro Ceni, I fiumi, 1985), «Io vi sono marziana» (Vivian Lamarque, Teresino, 1981), «nessuno sarà mai grande e forte» (Riccardo Held, Appunti di poetica, 2000). Nel caso di Leela, il destino è immobile; in altre esperienze il destino è coatto, come quello di Goliarda Sapienza; in ogni caso, i due destini comportano una sfida simile, il cui pronome è noi.
    Intanto il vuoto continua.
    Sta nelle righe tra porfido e porfido, «vuote d’indipendenza». È anche nel passeggino-giocattolo, spinto da una bambina che impersona e subisce il destino.

    3
    «È come se partissi dal vuoto per trovarmi e così poter iniziare a muovermi». Trovarsi e muoversi sono azioni di chi sta in un luogo. L’adozione internazionale – il principio del vuoto, che non è un luogo – modifica il rapporto con trovarsi e muoversi, e da questa esperienza deriva «l’impossibilità di agire serenamente». Saperlo, senza mentire a se stessi, significa essere il laboratorio, lo scienziato e l’esperimento: nello stesso tempo, qui e ora, che si chiama la vita e in cui avviene la vivisezione.

    4
    Dove va chi viene dal vuoto?
    Il vuoto è tutto, per tutti: «Noi siamo nel vuoto, senza identificarci in una delle due strade l’inizio e la fine coincidono». Allora il lettore abile – e un po’ dissimulatore, grazie alla cultura – cerca sùbito gli addentellati: qualche allegoria, il ricordo di un Eliot per cui «in my end is my beginning», e tutto il resto. Il fatto è che qui si manifestano la vita e il destino di una donna esistente, che ora dice noi.
    Io «sono stata adottata», ma noi «siamo nel vuoto», nessuno escluso. La vita in una sola nazione e la permanenza in una sola famiglia non saranno basi sufficienti: né per la felicità né per l’orientamento dopo la nascita. Chi vive da adottato, in un altro Paese – per esempio l’Italia in cui si grida il motto osceno: l’Italia agli Italiani! – è più sensibile alla mancanza di un centro, quindi più consapevole del vuoto. Ora, Leela è stata veramente adottata. Ma io conosco autori che hanno creduto di essere figli adottivi, per non dover ammettere che quel padre e quella madre erano il padre e la madre. Per ipocrisia, non si ammette che vere esperienze costruiscono vere informazioni, a partire dai veri laboratori, non allegorici, di chi sperimenta la vita con la propria vita.
    Questo strazio – provenire dal vuoto, o simularne uno, se il presente genitoriale è infelice – ha a che fare con molte vite: quindi con molte buone scritture – soprattutto di donne – che hanno spesso un segnale arcaico. Il segnale è chiaro: gli adottati, reali o immaginari, identificano la scrittura o la lingua con l’ACQUA, che o piove o scorre o «scivola sul vetro / dimenticando la sua coda». Il termine degli orfani, diversi e simili, è diverso e simile, e le sue occorrenze nella poesia contemporanea (Bonito, Ceriani, Salvaneschi) sono atroci: si tratta della NEVE, acqua solida (non scorre) e bianca (copre i colori).

    5
    Questa è l’arte in cui le linee si orientano e finiscono in un bianco, e il bianco prelude ad un’altra linea, in basso. Non è un caso che i segni della mancanza di serenità diventino un disegno andante. Non è un caso che oggi questi segni siano tanto autocritici quanto metalinguistici: sull’uso delle parole, che io scelgo, si basa la separazione, controllata da me e non immobile/coatta come la prima. Questo è il lavoro dei molti che oggi dicono un onesto noi.
    Chi è nato è nato, comunque. Tra i nati, qualche figlio viene anche adottato e rimosso, in realtà e non in realtà: comunque. Claudel è stato chiaro, una volta per tutte: l’esilio ti seguirà. È da queste condizioni reali che l’acqua si stacca.

  • e aggiungo ora questa scheda [non formattata e senza corsivi] sul “problema dell’amore nel Medioevo”. ma non si tratta solo dell’onesto Rousselot. si tratta dell’*amore per il problema*: cosa da *amatores sapientiae*

    ***

    Nel 1908 Rousselot non impone un modello univoco dell’amore, ma una bipartizione realistica: amore fisico e amore estatico. D’ora in poi, il «problema dell’amore» medievale aderisce a tutto il Novecento, con giganti e fraintendimenti giganteschi (Valli, Köhler, Bousquet, Lewis, Weil, Moretti-Costanzi, Rougemont, Nelli, Guénon, Pulega, Peter Russell, e altri e altre): non è un caso, perché sull’amore – che è una potenza vincolante e incontrollabile – si giocano questioni più che medievali, in primo luogo la libertà. Apertamente o no, le domande sull’amore riguardano la signoria: chi comanda a chi? perché comanda? quale autonomia spetta al servo? il servizio è dolce, amaro, dolceamaro? l’amore è vita o morte? Apertamente o no, il problema del dominio implica l’origine e il fine della parola, non solo in poesia. Nel Novecento dei giganti, Pasolini filma a Salò il non plus ultra di questa tensione ininterrotta: l’amore è solo sesso, il sesso è sempre violenza, il fascista è sempre libero (e anarchico) perché è perfettamente brutale. Essendo perfettamente libero e brutale, il fascista di Salò conosce un altro lusso sadico: godere delle parole, esattamente come gode dell’orgia e della strage.
    Il potere promuove l’enfasi fisica a scapito dell’estasi. Perché il potere – compreso quello del consumismo globale – sarebbe nullo, se non ci fossero molti corpi: ai quali il potere – che in nessun modo è cristiano – si oppone, mentre l’Agnello di Dio accetta di essere corpo, vittima del sadismo, olocausto, cibo.
    Rousselot sa, perché le sue fonti filosofiche lo sanno, che «l’amour est tout à la fois extrèmement violent et extrèmement libre: libre, parce qu’on ne saurait lui trouver d’autre raison que lui-même, indépendent qu’il est des appétits naturels; violent, parce qu’il va à l’encontre de ces appétits, qu’il les tyrannise, qu’il semble ne pouvoir être assouvi que par la destruction du sujet qui aime […]. Etant tel, il n’a pas d’autre but que lui-même, on lui sacrifie tout dans l’homme, jusqu’au bonheur et jusqu’à la raison». La normalità dell’amore – fonte della parola – è la doppiezza: dunque la parola può essere multipla, purché sia decifrabile e riconducibile ad un senso vero. Il nostro archetipo lirico è sia il vangelo di una vittima sia la glorificazione di un eletto: Dante è deturpato fisicamente da Amore («a molti amici pesava della mia vista»: Vita nova, 2,3 Gorni), ma lo stesso Amore ne fa estaticamente il suo poeta, azzerando il resto («Pensa di benedicere lo dì che io ti presi, però che tu lo dêi fare»: 15,2; benedire il peso, non maledirlo). Stilisticamente, le «tristi penne» di Cavalcanti possono scrivere sia una lode sia un insulto comico, perché la normalità è questa, per tutti i poeti. Dunque: due condizioni, contemporanee, e due stili contemporanei, simmetrici alla doppia condizione. Ieri e oggi, nelle operazioni del dire l’obbligo si unisce alla libertà, e il «problema dell’amore» ci vincola tutti. In realtà, è l’amore per un problema.

    • Ottima questa chicca di Rousselot – materiale interessante che cercherò di recuperare e approfondire.
      Resto in ascolto
      Luigi B.

  • e sono bellissimi *nella realtà della voce*, nell’*azione*, quei SILENZI. sono la parte angelica del tutto. quando riappare la prima sillaba *dopo*, l’intensità è più forte. la critica criticante fallisce, di fronte all’emozione. l’emozione non è una scienza, a sua volta. quanto a me, il dionisiaco – oggi lo vedo nei filmati di Celibidache – oppure in questo

    http://www.youtube.com/watch?v=ZI7MEnElhOc&feature=related

    nel canto V dell’Inferno, quando l’ho fatto leggere ad Elisa Calvi, ad esempio: molti silenzi. il nome di FRANCESCA, sillabato, lento… l’esitazione di un Dante che sta per piangere come Cristo davanti a Lazzaro morto, che sta per svenire:

    Fran…ce…sca…

  • La poesia la scrive, la sua aria. Credo che, in un testo REALE, cioè poetico, l’aria sia scritta proprio negli spazi e nelle pause scritti. C’è un testo che ha proprio questo titolo, “L’air”, di André du Bouchet, spaziatissimo nella pagina tanto da ricordare certe poesie sperimentali, ma in quel testo (tradotto in Italia da Lucetta Frisa per un’antica rivista da me curata, Scriptions) il solo esperimento è il tono della voce, le lunghissime pause e gli a capo, come accade anche in altri testi in prosa dello stesso Du Bouchet su Giacometti. Ma, come dire, in certi poeti l’evaporazione dell’io, di baudelairiana memoria, è fondamentale. In altri poeti sembra che sia il contrario, ed elevano monumenti alla loro biografia non sempre rilevante.

  • non è sempre necessario avere *cose* da dire: l’aria è invisibile, nessuno direbbe che l’aria è una *cosa*. aria intonata è la voce. l’Anima chiede musica e musica, ha ricominciato dall’inizio, il suo vecchio primo amore e studium [lo studium – vedi Ugo di San Vittore – *comprende* anche l’amore]. la musica non è monolitica; non solo è legata ai tempi, ma cambia anche da mente a mente. Celibidache dirige e insegna, ma non ama incidere. Bohm incide. nel 1971 Celibidache dirige – il video si trova in youtube – il Bolero di Ravel con la Danish S. Orchestra e non dirige: *incarna fisicamente, anche nel viso* la musica. non si limita a dare gli attacchi: attacca lui. Celibidache diventa uno strumento e un performer: non a caso ha la telecamera quasi fissa su di lui. e si capisce: non *fa*, ma *è* lo spettacolo – anche lui.

    c’è troppa spaccatura tra performativi e non performativi – torno al piccolo campo della poesia. ma una poesia senza voce, un *fare* che rimane mentale e astratto – che *fare* è? in Italia si è troppo martelli, sempre: gli alfieri di qualcosa, gli allievi di una scuola purpurea o nerastra; ma il sogno di un poeta completamente fuso e mangiato dalla musica come Celi – ecco quello che vorrei.

    e io? come faccio a scrivere nelle [mie] poesie che ci vogliono pause di un secondo o due o tre, a volte, tra verso e verso? che c’è una dinamica – come posso esprimerlo? Farei di tutto, pur di NON RINNEGARE la musica e la forza. Potrei inventarmi delle partiture/poesia. Ma è più facile andare dove la poesia è *fatta* – cercare e creare le occasioni; e *mettere l’anima in piazza* – e spaccarla [è bello non dover spiegare, non doversi troppa filologia: queste sono e *non sono * metafore]. altro che cella e isolamento – si diceva questo; e si diceva: freddezza. Odio la freddezza, odio la norma dell’anaffettività. invece: non cella, ma cielo [e aria]

  • ciao massimo, grazie di cuore, tu mi fai capire con altre parti (dovessi dirlo in modo ‘intelligente’: la com-prensione non è un atto cognitivo)
    a volte rimango così perplessa: da una parte sembra esserci l’infatuazione poetica, da una parte la ‘cultura del nullismo’, da una parte la resa (ma poco pietosa) e andare per lo solingo pian…ma a volte capisco, stavolta mi pare di aver capito…
    ti mando un abbraccio caro (grazie anche per le parole su ortore, conosco e riconosco i testi di cui parli – “tutto, per lui, è il passato”: sembra che sia la cosa più vera – e consolante – che abbia sentito negli ultimi mesi:)
    a presto,
    rx

  • incollo qui alcune righe nuove e mattiniere SU MICHELE ORTORE, un giovane giovanissimo. quella differenza, tra esistenza e inesistenza di un kaddish / lacrime, perché negarlo…

    ***

    Tutto quello che normalmente si attribuisce ad una buona storia, qui c’è: il ritmo, i personaggi, un io che non si nasconde, la giusta ironia, Sanguineti e Ginsberg, diavolo e acqua santa, insieme. Ginsberg e Sanguineti insieme, come almeno una volta nella realtà, anni ’60, in una foto che anche la Rete conserva, a futura memoria [queste foto di fuochi opposti sono fatali, e anche comiche: come quella in cui Pasolini e Veltroni appaiono insieme, a Campo de’ Fiori, con due fascini e due destini riconoscibilissimi, fino allo strazio o al sorriso]: i poeti fumano, Allen ha un cappello, due giri di collana sopra la camica bianca, Edoardo è nella sua solita divisa, giacca e cravatta. Davvero: il diavolo e l’acqua santa. Ora, se c’è un miracolo di Dante è proprio quello che Ortore nota, e lascia dire all’anima di Sanguineti, imparadisato o infernato, Dio solo lo sa: «Le nostre due anime, in un corpo solo». Tutto è in tutto, e uno fu tutto. In realtà, siamo chiari: l’esaltazione del corpo, in Sanguineti, è giocosa, ma senza empatia; è pura disperazione materialista, solo altezza d’ingegno e cultura cultura cultura. Allen non era certo l’onniscienza sparsa su 50 kg di carne, ché Sanguineti dell’A.D. MCMXXX aveva «letto tutto» a vent’anni, come Mallarmé e Arbasino. Aveva letto tutto – con idiosincrasie anche insopportabili – ma gli mancava la tensione fisica dell’incontro con l’altro: era solo molto gentile, rispettoso e rigoroso – niente di meno, ma niente di più. Il suo ruolo pubblico era senza carità, con ostentazione: molto semplicemente, ma è un esempio grosso, è inimmaginabile un Kaddish pubblico di Edoardo per sua madre.
    Rifarsi al grande Münchausen significa tirarsi fuori dal mondo piccolo e dalla prosa fredda. Chi si tira fuori per i capelli e vola su una palla di cannone, e mente sapendo di mentire, chi è? È il poeta, nel vero e antico senso: un sognatore che inventa. Non certo il «non riconosciuto legislatore del mondo», secondo l’utopia di Shelley: ma non un perdente. Un giovane autore vede questi uomini «batacchi del mondo», partigiani di una libertà che non si sa che cosa [fu]: li vede in modo sano, perché tutto, per lui, è il passato.

  • Un dialogo ricco e suggestivo.
    Sottolineo alcuni concetti che mi hanno colpito:

    la scrittura o scortica o vola basso
    più musica che scrittura
    inserire quello che non c’è mai stato
    inusuale intensità

    credo che Massimo, quando parla di inusuale intensità, alluda a quanto scriveva Nanni Cagnone: “il poeta soffre di meraviglie”. La sofferenza di uno “sguardo nuovo” su di sé e sul mondo è la premessa per un discorso poetico originale. La sofferenza è un lavoro anche sulla propria felicità. “Senza di me / che vivo e scrivo / con scuro inchiostro” diceva Lorenzo Pittaluga, 27 anni, poeta e suicida. Ecco, leggendo questi versi che non dicono nulla di nuovo né sulla scrittura né sull’anima, io leggo qualcosa di nuovo e di non simbolico, leggo un’intensità urticante, che mi esplode fra le dita. E ho la stessa sensazione di quando ho visto di recente “I cancelli del cielo”, quella di entrare in un mondo poetico dove non perderò il mio tempo, dove inserisco “quello che non c’è mai stato” (come quando si scrive un racconto apocrifo).

    Grazie dell’attenzione.
    Marco Ercolani

  • ciao Re – e grazie… che cosa posso dirti? e poi con quale *certezza*. torno al sentire, e lo mischio alla solita filologia (che però sbatte contro testi che hanno 900 anni, non 20: dei testi ventenni sono solo un lettore). Di Ruscio è autentico, ma la costruzione è potente; come in Rosselli, appunto; e come in Mesa. il rischio dell’intensità lo vedo, lo ‘sento’ – che tutto si riduca a chi ha il tatuaggio più grosso, più lucido, più inusuale…

    …e mi sono chiesto che cosa sia l’autentico e il reale. certo che Gherardo mostra il mondo – cioè: non tutto il mondo, ma la nostra fetta quarantenne e occidentale [tanto per dire: Edouard Glissant – dai Caraibi a Macerata, grande Quodlibet! – NON ha un punto di vista mediterraneo, anzi per lui il mediterraneo è un limite]. e allora mi sono chiesto che cosa sia l’autentico. certo, per me la bruciatura eroica rimane, e la cerco, anche in finsteren Zeiten [questi sono tempi bui]. ma il ‘mio’ non conta. e mi sono risposto così: la costruzione fine e sonora è secondaria; l’io è prima, per forza; penso all’intenzione buia, sotto e dentro – e questa intenzione INTENSA *non vuole essere frustrata*, *piccola*, *anaffettiva*. frustrazione e anaffettività sono bestie nere, penetrano in tutto, in tutti; e di testi simili non mi interessa tanto la retorica quanto l’umanità, non l’estetica ma la psicologia, non l’autore ma la persona: mi chiedo se siano descrizioni fedeli o no, e se lo sono devo maledire anch’io la realtà

    frustrazione anaffettività solitudine sono anche i caratteri dell’Ultimo Capo, lo Specchio dei Tempi: un uomo molto infelice, e *anche per questo* inadatto al potere [è stata un’intuizione lancinante del Sindaco di Bari, in tv: ha parlato da uomo giusto di un altro uomo; non l’ha visto né come fenomeno né come epifenomeno, ma come persona]

  • Per fortuna un po’ d’aria, Massimo, grazie – mi permetto di darla anche ai miei dubbi.

    Uno riguarda l’ “intensità”: mi viene in mente che con un amico ci divertiamo a inventare titoli di libri di POESIA, tipo “Verticalità radianti”, “L’osso dell’essere”, “Rapsodia di apocalissi”, (Ashbery, certo, lo fa meglio: “Arti imbevuti di nebbia”, ecc.); dietro il gioco c’è questa domanda: ma non c’è un malinteso in tutta questa tensione (meccanica?) scambiata per “sentire”? O, forse, più semplicemente, un (auto)inganno? Tutta quella enfasi, indotta e decantata, “intensificherà sempre più e arricchirà l’intera scala delle emozioni soggettive e dei sentimenti privati, [ma] questa intensificazione si attuerà sempre più a danno della certezza della realtà del mondo e degli uomini” (Arendt) – il sospetto è che a corrispondere a certe “intensità” vi sia non già l’avventura, ma solo la postura del famoso “soggetto poetico”.

    Altro dubbio, se è per questo, è sulla “autenticità”. Leggo questo e dico “è autentico”: “Questi diti che battono sui tasti dell’Olivetti sono zampe pietosamente sottili, questo poema romanzato micidiale non ha una fine premeditata, una fine che sarà raggiunta solo con la fine dell’insetto, ogni frase mi spinge all’inseguimento della seguente” – ma che cosa vuol dire veramente “autentico” in quell’espressività anti-lirica e reiterata e volutissima che fa di Di Ruscio probabilmente il più rosselliano tra questi ultimi “grandi poeti”, non è che mi sia veramente chiaro.

    Non fraintendere: dico questo perché “intensità” e (io credo) “autenticità” sono mille volte più utili di “lirica” e “avanguardia”, e, aggiungerei, “poesia civile” e …boh, “resto del mondo”?, però, però… sono anche prede facili, credo, hanno bisogno di essere dispiegate, aperte (quindi, ancora, grazie per l’aria).

    Un’ultima cosa: confesso – se leggo una cosa così:

    oh meditata paura! mente senza concetto!
    oh luna immobile, pozza, buca nel petto
    di tutto; barca nel deserto, palma nel mare,
    specchio, immagine del vero che non appare

    (è Volponi, si sta rivolgendo alla poesia), se leggo questa cosa qui, lo so che è molto bella, lo riconosco, MA è solo attraverso un atto di finzione, di immedesimazione storicistica in quel tempo, in quella posizione, che riesco a dirlo. So bene che a questo discorso forte, maestoso, orante, ecc., non corrispondo *io*, in questo tempo e in questa vita.
    Se leggo questo:

    “Ai margini di uno sterminato sistema di produzione, muovendoci ai livelli medio-bassi del corpo sociale, continuavamo ad accumulare desideri, senso della vita, frasi da dopocena. Grandi quantità di merci attraversavano i nostri giorni, le stanze degli appartamenti da cui partivamo al mattino, per andare in ufficio”

    (Bortolotti, appunto) se leggo questo riconosco qualcosa di potentemente *mio*, lo smascheramento della mia desolazione, chiamiamolo, che non è in sé, “desolazione”. Anzi, è un notevole “divertimento” (vd: non c’è niente di più comico dell’infelicità, il buon Beckett). Certo che vorrei che la mia vita fosse quell’epopea coraggiosa che canta Volponi, ma affinché lo fosse dovrei imbarcarmi, andare in missione umanitaria, fare come Danilo Dolci o quant’altro, altrimenti che “intensità” “autentica” posso dare a quella modalità di scrittura? (ammesso che io riesca a scrivere solo perché lo voglio, naturalmente). Certo che non vorrei che la mia vita fosse quella cosa anonima, prosciugata, desolata, ecc., di bgmole e degli altri personaggi di Bortolotti, ma forse, dico forse, in quel de-vèrtere c’è dell’altro, seguire altre tracce, periferiche, infraordinarie, il “terzo paesaggio” fuori controllo dal capitale

    Sono pazza se questa mi pare una via (di riflessione letteraria civile, chiamiamola così) più interessante (almeno finora) di quella della “nuova poesia epica”? (almeno per come si è espressa finora e qui, s’intende)

    un abbraccio Massimo, bentornato

    renata

  • il rischio del *sentire* è questo: può essere incomunicabile – per iscritto, senza gesti del corpo, senza espressioni del viso, senza bocca. il rischio del *conoscere* è questo: comunica *facendo a meno del sentire*, dando per scontato il sentire. e il sentire può diventare una posa: io sento e quindi so, io sento e quindi so, io sento e quindi so! il conoscere può diventare un bavaglio: io non sono come te! io non so quello che senti!

    tutti e due urlano “sono un poeta”, in modi diversi. nel raccontino di Danil Charms arriva uno e dice: “invece secondo me sei una merda!”. ma non è che a ogni pie’ sospinto appaia McLuhan come in *Io ed Annie*. si naviga sempre a vista, sperando di non perdere la retta via [Dante era avvantaggiato: considerava *se stesso* come la retta via]

    troppe questioni – non dico qui e ora – parliamo in generale, allineando i trattini e vada come vada – troppe questioni si risolvono nell’essere albero d’alto fusto o “sottobosco” [la metafora è infelicissima e umanissima, poi: significa non sapere nulla della funzione del *vero* sottobosco]. troppe cose si risolvono nella banalità del “non sono come voi”, “non siete come noi”, “non dialogar con loro, ma guarda e passa”, “non postate in quel thread”.

    e invece: urgenze serie, su tutti i campi. [per non parlare di ciò che accade nel Mediterraneo; per non parlare dell’*indignazione* che dilaga da un appello, in questo sito, ed è indignazione giusta]. per esempio: che cosa può essere oggi, seriamente, una poesia civile? [e: è possibile farla a prescindere dal carisma e dalla visibilità? un invisibile sociale *può* fare poesia civile? sì, può, ma con quali effetti *pubblici*, se lui non è pubblico?]. e una poesia filosofica? sì, forse [come le scritture dilaganti e altissime di Raffaele Perrotta: ma nessuno lo legge, siamo un circolo esoterico nella città il cui nome è: Ianua, Porta].

    una certa regalità dello scrivere, non separata da un sano lavoro di coltello, più che di lima [l’autore è anche *autoritario*]. Luigi lo ha detto meglio di me e molto bene: “non c’è struggimento, ma desolazione; non c’è dolore, ma annichilamento; non c’è amore, ma necessità di amore”.

    ecco. proviamo a pensare che questa sia PIU’ che letteratura. pensiamo: esiste una comunità umana – nostri fratelli, nostri simili – che *pensa* questo, e *vive* così. che cosa ne penseremmo? con quali armi si vìola il Limbo? come si irrompe nella desolazione di un essere umano? la domanda delle domande, secondo Simone Weil, è sempre questa, una: qual è il tuo tormento?

    ecco. fingo che la pagina di Gherardo non sia letteratura ma la confessione di un amico, un sintomo da cartella clinica, un grido di aiuto – qualunque cosa, ma non letteratura. e se non lo fosse – ma lo è – come agiremmo? annichilimento, desolazione: sono parole grandi, sono situazione che *nella realtà* chiederebbero aiuto. quale umanità e quale vita sta parlando?

    in fondo anche questa ansia dell’Anima è malinconia. a volte desidera – e io con lei – che la letteratura sia letteratura, cioè un atto rituale. altre volte, che sia la riproduzione *coerente* del corpo, cioè un’epidermide [e più è tatuata o nuda o ferita, o comunque svestita, più mi pare *intensa*]. duale fino in fondo, già. e su questo non posso costruire nessuna teoria: a parte tendere la corda dell’arco, mirare, immaginare il colpo giusto, “ex morte vita” e tutte gli aforismi eroici ai quali dolcemente si può credere… *esteticamente*, sempre, è ovvio.

    ***

    in ultimo, incollo un frammento su Pavese, riscrittura di una nota per Radio Alma:

    Nessuno sa chi fu Cesare Pavese. Nelle Piccole virtù Natalia Ginzburg lo ricorda timido e sfuggente, operoso e ozioso nello stesso tempo; Ginzburg dice: era molto attivo, molto inattivo, e noi, in fondo, i suoi amici, non sapevamo neanche se fossimo pigri o operosi. Ma il nostro amico era una cosa e due, in tutte le nuances, ad uso della Casa Editrice e del Partito di Massa (entrambi illudono e deludono l’uomo sensibile: né l’una né l’altro sono fatti per accompagnare chi critica e sa). Guai a chi è solo, anche se la solitudine è il suo «refrigerio», dopo gli amici della serata.
    Se non si cresce più dopo un apice, e se ripeness is all, e se la maturità è già raggiunta, insieme al talento – allora non ci sono due tempi (il tempo caldo e popolare di Lavorare stanca, il tempo tiepido e sussurrato di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi), ma uno. E tanto basta: «Nel mio mestiere sono re», e che cosa significa, se dopo due settimane si muore così? Significa: anche le ultime poesie sono parte di una storia, preparata con attenzione e amore; e poi: chi agisce al livello di un «re» non improvvisa nulla. Sua maestà ricorda che ogni pagina avrà un pubblico, presto o tardi. E se «tutto il mondo è un teatro», metafora chiama metafora: ogni teatro vuole spettatori, ai quali dopo THE END si chiede un applauso (il re è bravo) o il rispetto (il re è grande) o la pietà (il re si è ucciso).

    ***

    sono le 2.39 di questa notte. è marzo, grazie a Dio

  • @ Gherardo: è sulle cose più lapalissiane che si costruiscono gli equivoci più grossi 🙂
    Che nella prosa in prosa vi sia un sovvertimento dell’ordine della sintassi del simbolo (piuttosto che del simbolo in sè) è palese e palesemente cercato – e qui la mia domanda: perché? perché cercare palesemente questo tipo di sovversioine? iniziata 100 anni fa con Rimbaud che però spiegò mi pare molto bene le sue ragioni. Ragioni che lo ridussero al silezio (e quale altra soluzione ci sarebbe potuta essere?) e che oggi, invece, riducono (o cercano di ridurre) al silenzio non la voce ma la passione che in essa si inscrive (e qui mi collego a Massimo – però dopo).
    Anche a me mi pare giusto e naturale che le accezioni di simbolo non si sovrappongano, però questo comporta un problema di comprensione o, per lo meno, un equivoco delle intenzioni (da parte del lettore intendo, dunque mia).
    Per quanto mi riguarda, il simbolo non è reale e non è un in più al reale: è un sostituto comprensibile del reale incomprensibile. Se mi sovverti la sintassi del simbolo mi provochi sorpresa, suggerendomi un ordine nuovo della realtà (e non del reale che al fondo di questa giace e che resta immutato): dunque poesia (a prescindere dalle rime, dai versi, dallo stile e dalle seghe varie). Se, però, mi sovverti il simbolo in sè, utilizzandolo come via maestra e oggettivata per invadermi di reale (luogo in cui non vi è realtà in cui credere, ma solo una fittizia sovrastruttura arbitraria fatta di parole che si svuotano il secondo dopo che sono state pronunciate e che risulta posticcia all’impatto con ciò che con sè porta) mi provochi il vuoto e l’inabissamento in un ordine del discorso che io non posso comprendere (e nemmeno chi scrive lo può) ma posso solo sentire senza poterlo mettere in un discorso prima di me ed oltre me. Ora, io non dico che questo è vietato e nemmeno che è il male assoluto e nemmeno che non è poesia ma forse non è prosa etc. a me di tutto questo non interessa. a me interessa sapere: io in un posto così, senza coordinate, senza miti a cui affidare la genealogia del mio essere soggetto… che cazzo faccio? dove sono? chi sono? perché-chi-come-quando? 🙂
    Nemmeno questo è male, ovviamente. Però mi sento caricato (come lettore e come soggetto) di una responsabilità a cui non sono sicuro di riuscire a far fronte. Come posso costruirmi da me un senso, il significato della mia presenza di fronte al testo, se il testo non è abitato da nessuna presenza? Posso inventarmi ma senza riscontri non v’è soggetto che (r)esista.

    Non sono d’accordo con il fatto che le cose esistono perché non poteva essere altrimenti: questa secondo me è una spiegazione che va bene per il reale, non per i suoi prodotti.
    In ultimo: sinceramente credo sia impossibile per chiunque e qualunque opera l’essere esposti al gioco della produzione e dell’accumulo (ci riproduciamo come esseri umani e questa è solo la punta dell’iceberg della nostra produzione). Se non è così, in che modo non gioca all’accumulo questo tipo di scrittura?

    @ massimo: capisco quello che dici e l’impressione potrebbe essere esattamente questa. Però, almeno per quanto mi riguarda e solo per alcuni testi (una selezione di Prosa in Prosa e Shelter di Giovenale), di “passione” se ne trova – per quanto un autore si sforzi di annullarla, non potrà mai annullare la forza che lo ha mosso a scrivere ciò che ha scritto che attraversa sempre il testo.
    Credo però che sia una passione “diversa” e più difficilmente riconoscibile rispetto a quella a cui siamo abituati o che ci aspetteremmo da un testo: non c’è struggimento, ma desolazione; non c’è dolore, ma annichilamento; non c’è amore, ma necessità di amore.
    Ciò che più apprezzo di questo tipo di scrittura è il fatto di non trasportare nel testo la forza, la passione, la potenza. Queste sono tutte cose che risiedono, nascono e si sviluppano solo nel lettore. Non vi sono richiami nel testo, nè “micce”: il testo funge da luogo “puro” dunque “sterile”, luogo ideale in cui il lettore totalmente inabissato sviluppa la sua personale “passione” rispetto a quel luogo senza elementi di riferimento, senza “gobbo” suggeritore, senza strada aperta da una parola piuttosto che da un’altra. Ma in questo enorme pregio giace anche il “difetto”: nel momento in cui mi viene offerto un luogo in cui sperimentare una passione assolutamente mia da cima a fondo perché priva di riferimenti semiotici, priva di immaginario collettivo, privata di tutto insomma, mi risulta difficilissimo viverla poiché non la so pronunciare, e poiché il testo non mi ha offerto nessun nome da attribuirgli sono nella merda. Una specie di trip: bello quando viaggi coi colori accesi; quando poi i contorni iniziano a sfumare e non capisci più dove diavolo sei nè chi sei e solo semplicemente senti, senti il reale che ti invade senza nessuna sovrastruttura che lo filtri allora son problemi. Questo può comportare a mio avviso delle “resistenze” al testo che impediscono di andare oltre la sterilità della sua struttura e ciò comporta assenza di passione. Oppure, più semplicemente, credo che se si legge questo tipo di scrittura aspettandosi qualcosa da ciò che si sta leggendo, che emerga dal e nel testo che si sta leggendo, pure il risultato è assenza di passione.

    Tutto quello che ho detto, ovviamente, è il riassunto scritto male della mia esperienza assolutamente personale, ergo: non è affatto la verità assoluta 🙂

    Abrazos

    Luigi

  • parlando della realtà – prendendomi la libertà di divagare, perché qui si parla di felicità, e la felicità non ama le linee [non c’è felicità nell’obbedienza a tempi stabiliti e a temi] –

    l’Anima riprende la parola: io amo l’inusualità, altrimenti non amerei la Grosse Fuge di Beethoven, che stride oggi come nel 1825. altrimenti non amerei l’ultimo tempo della sonata 2 di Chopin. e l’inusualità stridente dell’ultimo Beethoven… le sue strane dinamiche… il suo oscillare tra il motivo popolare e orecchiabile e la confusione delle lingue, distruggendo anche le forme (la sinfonia con il coro, la sonata in due tempi con l’Arietta interminabile)… e il Presto della sonata 2 di Chopin che cosa è? una toccata? dov’è la melodia che consola? non c’è: nessun cosmetico da salotto. non sto rimpiangendo l’apple pie e i musicarelli – dice l’Anima.

    l’Anima dice: l’inusualità della potenza *mi piace* e la voglio. ma io – dice l’Anima – NON RIESCO ad *identificarmi* nell’inusualità senza intensità: in un’arte che *appare* priva di passione – forse un’arte che ha deciso di rinunciare alla passionalità e delega il corpo solo alle donne e ai performer. ma intensità e percezione non sono né sessuate né professionali e settoriali: *tutti* hanno un corpo. e allora: o esiste un’intensità diversa – che l’Anima non coglie, che io non vedo, per mia colpa maxima culpa – oppure l’intensità è morta. non sto facendo un discorso puramente intellettuale: a volte mi sento come chi crede nei rettiliani e negli anunnaki. ma davvero, di questa *trasformazione dell’intensità*, davvero, abbiamo paura – io e *lei*, lei un po’ pennuta e un po’ aguzza, stramba…

  • per ordine simbolico, lapalissianamente, intendo l’ordine dei simboli e quindi la loro sintassi (e si noti che ci sono diverse sintassi e diversi livelli in cui queste si dipanano). in effetti, ho l’impressione che, su questa espressione chiave (simbolo) dei discorsi che stiamo portando avanti, non ci sia una completa sovrapposizione delle accezioni che usiamo – ma immagino sia anche naturale e giusto.
    cmq, quello che volevo dire è che il lavoro della prosa in prosa, così orientato alla materialità delle scritture e al ragionamento sull’ordine e sull’accumulo, ha un effetto doppio e solo apparentemente paradossale: da una parte fa saltare gli schemi “normali” dell’immaginario e del simbolico (questo intendo per smontaggio dell’ordine) e, dall’altra, libera nei pezzi che smonta un “in più” di fascinazione, meraviglia, capacità di convogliare senso e immaginario (e quindi in questo senso parlo di liberazione del simbolico). un discorso analogo, è quello che ai tempi faceva giovenale con l’immagine delle allegorie cave.
    per conto mio nel simbolo non appare mai il reale. semmai il moto è sempre contrario: il simbolo si aggiunge al reale, è un “in più” di reale. it’s reality, only better (momus).
    sul perché… non so, mi piace pensa che certe scritture che stanno circolando ormai da qualche anno ci sono perché non si poteva fare altrimenti, perché se si voleva provare a fare ancora della scrittura all’altezza di alcune esigenze che ci abitano, come persone, come lettori, come cittadini, non si poteva che esporsi ulteriormente al gioco della produzione e dell’accumulo.

  • Seguo con l’abbracciare la “tesi” di Massimo. Per un motivo soprattutto: Gherardo, quando dici “la macchina simbolica non è interrotta. anzi, semmai è liberata”, in che modo avviene questa liberazione del simbolo (che io non vedo)? e, se c’è, perché liberare il simbolo? liberarlo da cosa?

    “nella prosa in prosa è smontato l’ordine simbolico, piuttosto, non il simbolo. ed il simbolo si mostra per l’abisso che è” – se ho capito bene cosa intendi per “ordine simbolico” allora mi tocca dire che smontare l’ordine simbolico è smontare il simbolo poiché, in quanto tale, questo è sempre mediato (è nella natura del simbolo l’essere mediato, frutto della mediazione). Se questo si smonta, allora si vede non il simbolo ma la sua cconsistenza, ovvero: il reale! o, meglio, l’assurdo del reale. che non può essere spiegato/giustificato/testimoniato poichñe non c’è più discorso o letteratura capace di contenerlo.

    Che si tratti del dio della tradizione cristiana, della vita in sé, dell’inconscio freudiano, dell’eterno ritorno nietzschiano, della volontá shopenaueriana, dello spirito vitale bergsoniano o di Ciro l’amico immaginario del mio vicino non ha importanza: questi sono tutti nomi che l’uomo ha dato a ciò che ha sempre eluso la sua comprensione: l’essere al mondo.

    I “giochi di specchi” o le “strane torsioni quadridimensionali” stanno alla base del senso dell’esistenza nonostante la loro arbitrarietà e convenzionalità. la stessa natura appartiene al linguaggio stesso: la funzione-necessità di nominare è direttamente proporzionale alla quantità di presenza che inseriamo in un discorso: per questo le cose esistono. Se il rosso è rosso è perché la geologia dell’esperienza umana a sedimentato un significato nell’uomo di qualcosa che prima non esisteva in quanto non nominato: un colore, per esempio. e se questa necessità si è palesata è perché la coscienza per esistere ha bisogno di raccontarsi e ci obbliga a rappresentarci. Ma se lasciamo libero accesso al reale senza creare una sovrastruttura in grado di accoglierlo è come far entrare un rinoceronte in una cristalleria. Allo stesso modo, non vedo come lasciare alla parola il compito simbolico della narrazione senza introdurre un senso da parte di chi la produce possa portare a soluzioni “costruttive” e non “distruttive”.
    Ora, in poche parole, quello che a me personalmente preme sapere è la ragione, il motivo da cui origina questa scrittura: perché? questa è la domanda che io mi pongo di fronte ad un testo: perché è stato scritto? e perché è stato scritto proprio in questo modo? qual è stata la spinta che ha mosso a questa azione i cui risvolti sono quelli che ho davanti scritti in una pagina?

    Luigi B.

  • e la piega diventa sempre più filosofica. ma qui ho poche armi: ho più intuizioni – meravigliose nuvole di Baudelaire – che proprietà intellettuali. ritornando all’io che dice e pensa “mio” giudizio, “mia” idea, ecc.: l’io – l’Anima di questa finzione – non ha terrore della prosa in prosa, ha subìto di peggio [per esempio: sentire freddo è peggio della “prosa in prosa” – esagero, scherzo], e non da ieri; ha veramente terrore del non-dio.

    ateismo significava assenza di [culto di] Dio, mancanza di [fede in] Dio. riconoscere la terribile “radice cristiana” della nostra aiuola significa riconoscere che abbiamo a che fare con il “Dio vivente” dell’Antico Testamento. ammettere che il simbolo è l’*abisso* [parola un po’ allucinante] del Dio vivente che manca significa che *il simbolo non è vivente*, non lo è mai stato, non lo è più, non lo sarà. “la Mente è morta per sempre”, dice una strana e sonora poesia di Quasimodo, verso la fine della vita mortale.

    un tempo si parlava del “timore di Dio”. ora, personalmente – e non dobbiamo essere pochi -, è questo “timore del timore di Dio” a farci paura, a metterci in crisi. e allora non c’è più la bestemmia di Artaud o il martello del “tutto è male” di Leopardi, o la bestemmia e la sborra, unite, della “Philosophie dans le boudoir”; ma un’assenza di Dio che ricorda il Limbo dantesco [*saturo di intellettuali* precristiani]: di qui una scrittura precisa, piena di particolari, esattissima. lì, gli oggetti ci sono e sono molti, li compriamo e li vomitiamo via da noi, diventano rifiuti, molto presto – e questo significa che la loro moltiplicazione GARANTISCE la mancanza di amore. meno unicità e meno amore; più quantità e più simulazione dell’affetto. non si sentirà mai la mancanza di un frammento del molto, se e quando lo perdiamo; la si sentirà per la perdita di una figura unica.

    *per fortuna* la malattia e la morte ci ricordano che le nostre astrazioni cadono presto e bene: la vista di un cadavere turba noi come turbò il giovane principe Siddharta e il giovane Gesù davanti a Lazzaro. l’ordine simbolico esiste, ma esiste *già* il percorso certo dei nostri corpi: allora è come lanciare un uovo contro un muro – il danno non è del muro, nessuna resilienza del guscio

  • però devo dire che a me, per esempio, va bene che siate terrorizzati dalla “prosa in prosa”. mi va bene perché è il terrore, più o meno modulato, il motore che la muove. e non tanto il terrore del simbolo azzerato, perché nella prosa in prosa la macchina simbolica non è interrotta. anzi, semmai è liberata. è proprio il terrore della visione del simbolo.
    nella prosa in prosa è smontato l’ordine simbolico, piuttosto, non il simbolo. ed il simbolo si mostra per l’abisso che è. ed è l’abisso del senza-dio, l’abisso senza dio. dio non parla certo per simboli. sono gli uomini che lo fanno (e ne sono parlati) e ascoltano, anche dio eventualmente, per simboli.
    sappiamo benissimo che il dio, soprattutto il dio vivente della tradizione cristiana, non è un concetto, è (una) vita. e la vita non è tanto quello che sta prima o dopo la letteratura, ma quello in cui sta letteratura, che non può contenerla se non per giochi di specchi, o per strane torsioni quadridimensionali.
    sulla letteratura erotica, chiaramente molti hanno detto e meglio di quanto possa io in questa sede. ma il punto mi sembra proprio la tensione del limite, e quindi il piacere del desiderio ed il desiderio del piacere, da una parte, è l’irresolubile del singolarità, il piacere di ciò che non ha paragone, della fuggitiva, singola istanza della scrittura, della linga.

  • riprendo il filo e dunque:

    la scuola di poesia – un ossimoro, già dal titolo – del sito “la poesia e lo spirito”, e poi il libro che ha lo stesso nome: questa scuola non insegnava niente, era più rimasticatura che proposizione. il poco che proponeva era un rifiuto, molto nervoso e molto nauseato: NON vivere al 5% [Montale], NON celebrare il frigorifero pieno di birre e la periferia padana, NON dissociare troppo [NON dissociare *affatto*!] il corpo dal testo – sembrava una parodia della Legge!

    era irrazionalità, irrazionalità, irrazionalità: cioè un estremo lembo di Novecento [sono nato nel 1973], apparentemente incontrollato, e invece logico [ma di che logica? la logica era nell’uso del corpo – MIO – e dell’esperienza – MIA – come banchi di prova, cavie, prove del nove, tutto quello che si può nominare per dire che usavo i miei sensi, anche contorti, e una certa dose di dolore, perché no?, per RAGIONARE]

    è ovvio che non poteva durare. eppure sono cadute molte illusioni. l’aria ha cominciato a *fluire*: non è la sua *natura*?

    l’impressione che il REALISMO sia più sovrano del previsto è grande. comprende la “prosa in prosa”, che non è tutto, e Bousquet, che non è Dio. quello che [ci] manca è qualcosa che si potrebbe chiamare eroismo, e qualcuno ha chiamato anche “prometeismo”. è strano: si va in Europa con poche monete sulla carta di credito, non è mai stato così economico il viaggio – e più il viaggio si banalizza [nel suo *prezzo*] più il paesaggio diventa O astratto [a malapena si capisce che l’osservatore di Shelter – Giovenale – è romano, che l’osservatore di Total Living – Broggi – è milanese] O domestico, superdomestico (non una città ma un appartamento, non un appartamento ma una – sola – stanza). non è strano? più lo spostamento diventa economico più i testi si restringono. meno le tasche vengono aggredite dal viaggio più il luogo diventa onirico, non posseduto. lasciamo al solo Sanguineti le poesie di viaggio? se un giovane ne volesse e potesse scrivere: farebbe una nuova epica

    il problema delle forme ha i suoi interpreti filologici e anche filosofici. e l’intensità della vita? quella è il problema grosso: perché lì, a pancia piena o vuota, con gli occhi pieni di sonno o acuti – lì non c’è filologia o filosofia che tenga

  • grazie Gherardo, e grazie Luigi… e adesso? sono qui con le mie “piccole cose” [citazione occulta!] a dover dire di ciò che può aver ossessionato anche Kafka. tutto dipende da quel dire fare scrivere senza-dio. per altri è un limite con-Dio, in cui Dio c’è *già*. soprattutto se si ha conoscenza di [e rispetto infinito per] una radice ebraica, il luogo è questo, il paradiso è questo, è ora [esperto di depressione e volontà di scomparire, scrivo queste cose e mi rendo conto che *ci credo*: e l’ANIMA vola al suo superlirico Ginsberg che batte batte batte il suo holy holy holy , e dice che ogni uomo è un angelo]. non c’è semplicemente una letteratura giocosa ‘contro’ una letteratura tragica: la peste nel Decameròn è un peso, il sesso del Decamerón è un giogo leggero come quello cristiano – e il libro è lo stesso. se la felicità fosse vista provata avuta condivisa diffusa esaltata, forse la “prosa in prosa” non esisterebbe nemmeno. ma qui non parlo di una fede in tonaca – e intonacata di bianco, mentre dentro si è marci; parlo di un’intensità, che indìa. e che cosa significa? forse questo: tutto è in tutto, e Bousquet può adorare un bel culo e il buio e la luce [e far dilagare infinitamente questa fede aguzza, di cahier in cahier]. Bousquet è un prosatore in poesia, non in prosa: è fuoco, contamina le mani. forse il limite – il con-Dio o il senza-Dio – è interiore, non esplicito. conta un’intenzione pura: l’antica protonovecentesca “necessità interiore” di Kandinsky. anch’io provo uno specie di terrore per la prosa in prosa: forse si tratta di quella disperazione calma in cui non c’è Dio [ci sono case in cui una persona sensibile *non può* vivere, inizia a soffocare: non è una metafora, ma è realtà; di solito sono case in cui *manca la madre*]

    Ugo di san Vittore, nel Didascalicon, scrive che niente è infecondo [cioè senza senso] nel cosmo. è una pagina del “dito di Dio”, e infatti Illich ci ha fatto caso per la *Vigna del testo*.

    in fondo, scrivo lucidamente con la nostalgia – e a volte la certezza – dell’orgasmo e dell’ubriachezza [anche molesta: il tabacco sulla tomba di Sanguineti l’ho buttato davvero – e abbiamo filmato la scena]. certo, qui, di scienza buona, in me – poca, poca, sempre meno…

  • Innanzi tutto voglio ringraziare – anche pubblicamente – Massimo per aver contribuito, con la sua presenza assieme a tutti gli altri redattori, ad arricchire Poesia 2.0 con un un altro punto di vista. Direi che siam partiti col botto!

    Voglio, poi, ringraziarlo per aver riportato alla luce un discorso a me molto caro e per me molto importante, che è quello sulle “nuove scritture” (così, giusto per dargli un nome che non sia una etichetta). Un Discorso iniziato sempre qui con Marco (Giovenale), proseguito con Giulio (Marzaioli) e – fino ad oggi – terminato con Alessandro (De Francesco). Sono contento, ripeto, che sia riemerso, in modo così sorprendetemente impattante e con parole che oggi si fa un po’ fatica a pronunciare (e a leggere) senza vergognarsi almeno un po’ o senza scadere nel fanatismo pseudo-mistico: anima.

    Ora, lungi da me il voler dibattere sulla questione anima (tutti sappiamo che il cuore è fatto di carne e la carne di atomi e gli atomi di quark etc. – poi ognuno crede quello che gli pare), è un fatto che una serie di sincronie hanno costituito un sistema pensante cosciente che ha ricoperto diosolosa quanti altri strati e sistemi di chissà quale altra natura che dal 1900 soliamo definire inconsciente.
    Per fare in modo che la questione non si complichi (almeno per me), avvoltolandosi su se stessa, credo sia importante soffermarsi sulle due questioni che qui vengono poste:
    “e io non voglio essere infelice – dice l’ANIMA.”
    “deve la letteratura, e la lucidità, la coscienza che sempre implica, rispondere a quel desiderio?”

    Credo di trovarmi di fronte alla “scissione del soggetto” moderno: da un lato l’impulso a salvarsi senza sapere bene come nè perché; dall’altro una coscienza lucida che attraverso la letteratura può non rispondere a “quel desiderio”. Ora, io non credo che la letteratura sia SEMPRE lucida e implichi SEMPRE la coscienza. Credo piuttosto il contrario. Ammesso che sia così, per me è preoccupante che vada intenzionalmente contro un desiderio che fonda l’essere stesso – al massimo CREDE di andare contro, ma poi se si guarda bene esorcizza (?).

    La forma e l’ “intenzione” in letteratura (e nell’arte in genere) non dovrebbero mai coincidere senza che tra di esse non vi si interponga un “racconto”, una narrazione – almeno a mio avviso. La coincidenza di questi due atti è una collisione che, esplodendo, fa implodere il soggetto. È questo ciò che terrorizza di questa “nuova scrittura”: l’audacia che ha nell’avvicinarsi al nulla. Nel momento in cui la parola diventa elemento della sua stessa ontologia, non è più in grado di rappresentare la necessità che l’ha prodotta. In questo modo, la parola si fa oggetto poiché giunge direttamente dal reale, e una parola-oggetto che viene dal reale non è più capace di sorreggere (giustificare?) nessuna realà (cosa ben distinta dal reale). Insomma: non rappresenta più nulla, poiché il suo potere simbolico è andato a puttane. Nel momento in cui il potere simbolico diventa un inquilino dell’olgettina, la parola perde anche l’atto della donazione che la fonda e che contemporaneamente fonda il soggetto nella differenza – unico luogo in cui il soggetto è possibile. Una specie di “globalizzazione” della parola, che smette di raccontare per spalancare le porte all’assurdità del reale. Non spiega, constata; non narra, descrive. Per il momento ancora nomina, ma è una funzione che perde la sua magia (simbologia) e che fa emergere il fenomeno “segnico” della parola in tutta la sua arbitrarietà.

    Ora, tutto questo polpettone per dire che:

    1. Nonostante sia un tipo di scrittura che mi terrorizza, non faccio che leggerla perché sono convinto che a prescindere dalle intenzioni di chi l’ha prodotta abbia qualcosa da dirmi – segno che il mio (ma credo valga anche per Massimo) non è assolutamente un atteggiamento di disprezzo

    2. Mi interessa molto questa “nuova scrittura” poiché credo che sia qui dove bisogna che si batta: in questa scrittura c’è ciò che non c’è, ciò che non abbiamo non perché non lo vogliamo ma perché ci manca, descritto in termini negativi. In una realtà dove il mito è caduto ai piedi di un dio morto, il soggetto si ritrova nel bel mezzo di un gran casino che è sempre meno capace di formulare sotto forma di discorso. E un soggetto sempre più incapace di raccontarsi, rappresentarsi, è un soggetto destinato a scomparire (o a impazzire – il chè è molto peggio).

    3. Credo dunque che sia di vitale, fondamentale importanza continuare a leggere questa scrittura per vedere cosa non ci dice, cosa non abbiamo. E da lì cominciare a ricostruire un “nuovo soggetto” – possibilmente migliore di quello che ci siamo impegnati a distruggere con “lucidità” e “coscienza”.
    La vita è assurda e la parola è arbitraria – e questo è bene che lo sappiano tutti. Però è bello raccontarsi cazzate capaci di spiegarci l’assurdo e in cui, alla fine, si finisce per credere (siano quali siano) e su queste fondare l’umanità. Se mi sto sbagliando, allora è perché non capisco dove sia l’urgenza, la necessità di togliere alla metafora il potere di cambiare il mondo. E se lo si fa, poi, cosa resta?

    Un abbraccio a tutti
    Luigi B.

    P.S.: Gherardo, se ripassi ed hai tempo/modo/voglia, mi dici bene cosa intendi quando dici “natura sempre erotica della scrittura”? Lessi tempo fa un pezzo sul cyberspacio, la scrittura e l’erotismo, ma non ho approfondito. La cosa – se non ho interpretato male – mi interessa.

  • ciao massimo,
    per prima cosa ti ringrazio per quello che dici sulla qualità della mia scrittura. da un lettore raffinato come te, questi apprezzamenti sono davvero lusinghieri. detto questo, arrivo subito al punto, quello della felicità, come giustamente dici, quello di ciò che rimane oltre la letteratura, o che esiste prima della letteratura, l’aspirazione umana, il senso e il desiderio del senso.
    può o, addirittura, deve la letteratura, e la lucidità, la coscienza che sempre implica, rispondere a quel desiderio? ovviamente ad una domanda tanto roboante non ho la faccia tosta di rispondere. per quel che mi riguarda, nemmeno quando questioni simili me le pongo nei vari punti della situazione che mi faccio, sulla mia scrittura, sulla sua presenza / parvenza / assenza nella mia vita.
    mi limito a dire che è proprio sulla disperazione che non posso che costruire la mia letteratura, perché la letteratura, per me, ma per tutti noi moderni (moderni nella sua accezione più ampia, quindi fin dai padri delle letterature nazionali), è il luogo senza dio, del senza dio, è il luogo in cui il limite umano, il limite che compone l’umano, viene a darsi come esperienza (e di qui la natura sempre erotica della (nostra) scrittura). la felicità, il pieno della vita, non sono forse ciò che cerchiamo di vedere da quel limite, non è forse anche nella letteratura il confine da cui ci affacciamo per vedere il profilo di questa regione di completezza, di vitalità?
    sia chiaro che non faccio finta che non esista una letteratura giocosa, una letteratura felice (come dimenticare, e non amare, metastasio per esempio?). eppure continua a rimanere, mi sembra, quella deformazione, quel tragico che innerva, che mutila.
    ecco, alla tua questione rispondo con un’altra questione. ma non è forse il modo migliore per procedere in un dialogo?

  • questo è il primo frammento, e nei mesi ne seguiranno altri: grazie ha chi li ha voluti e grazie a chi li cercherà. queste scritture non saranno più la vecchia microcritica, ma dialoghi (dialoghi *con l’anima*! cioè soliloqui: molto medievali, perché il vero modello è il De arrha animae di Ugo di san Vittore). e l’anima – che cos’è? qui è semplicemente un io più profondo dell’io pubblico: è *colei che non può mentire*, perché *può stare male*. ecco, nessuna illazione critica troppo alta: parlo di stare bene o di stare male.

    e devo evitare un equivoco, fin dall’inizio: la scrittura di Bortolotti è molto bella, ha una tenuta ritmica che ricorda [per esempio] i ritmi genovesi di Marco Berisso. la grandezza letteraria è fuori discussione [e i nuovi testi di Bortolotti su Nazione Indiana sono impeccabili]. ora la questione non è la riuscita o il fallimento, perché questa è arte, a tutti gli effetti: una riuscita. la questione ossessionante è, per me, la felicità, cioè la riuscita [non solo umanistica] dell’uomo. oppure il suo fallimento.

    il paesaggio urbano e l’assenza di natura… che cosa deve fare un’anima ingenua? [probabilmente lo è: l’ingenuità le è shelter e bunker, la sua cultura filologica fa il resto, l’abitua a leggere tutto su un piano inclinato lungo un migliaio di anni]. l’anima nota la *povertà sovrabbondante* del mondo in cui deve vivere: ne soffre, e non c’è cosmetico retorico che possa distoglierla dall’incubo. l’oggettività infelice non è immune dalla psicologia. insomma: di quale *umanità* si parla, nell’epoca dei condizionatori che uccidono il sacro?

    questo modo di ragionare è paraletterario, lo so bene. il fatto è che l’anima sogna sempre il meglio. oppure: una consolazione, l’irreale contro il reale, qualcosa come le promesse di *Summertime*.

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