Semantica e sintassi beckettiana in Gabriele Frasca e Giuliano Mesa – parte 2

 

[di Andrea Inglese già su Nazione Indiana]

(La prima parte dell’articolo è apparsa qui.)

 

3. L’impermanenza dell’essere e l’ascesi del dire

Anche per Giuliano Mesa il dialogo con l’opera di Beckett non è episodico, ma coinvolge procedimenti e risorse fondamentali del progetto poetico. Fin dalla raccolta I loro scritti, uscita nel 1992, Mesa pare elaborare in un suo modo personalissimo una costante della figurazione beckettiana: il corpo smembrato e derelitto. In Beckett il processo di avvilimento e di frazionamento della figura umana segue un percorso complesso, imponendosi però come costante a partire dalle short proses della seconda metà degli anni Sessanta (Imagination morte imaginez, 1965, Assez e Bing, 1966, Sans, 1969). L’avvento dell’arte combinatoria sul piano sintattico si accompagna, in queste prose, ad un processo di scomposizione che investe l’immagine del corpo umano. Questo fase ulteriore della scrittura di Beckett segna anche l’abbandono di alcune ossessioni che erano emerse nella riduzione del soggetto individuale a coscienza pura.

L’interrogazione che tormentava il cogito “innominabile”, costringendolo a torcersi verso la sorgente della propria voce, lascia ora spazio ad una compiuta esteriorità dell’istanza narrativa nei confronti delle immagini che essa stessa evoca. È della possibile costituzione delle immagini che s’interessa ora la scrittura di Beckett e non più della “porosità” del soggetto che di esse è l’autore attivo o il ricettore passivo. Nelle short proses, l’istanza narrativa assume i toni freddi e scientifici dell’esperimento nell’organizzazione del proprio universo elementare di avvenimenti ed oggetti.

L’assunto della smembramento della figura umana viene accolto da Mesa, che costruisce a partire da esso tutta una galleria di disiecta membra raggelate e nitide: dalle “cuoia tirate, fatte secche”(1) alle “dita impoltigliate, fatte lisce”(2). Tale assunto figurativo acquisisce in Mesa una connotazione più apertamente storica di quanto accada in Beckett. Ma l’esperienza della Seconda guerra mondiale non può non suggerire già a Beckett l’idea che la figurazione allegorica e quella storico-realistica finiscano ormai per convergere nell’immagine dell’uomo in generale come corpo derelitto e smembrato. L’integrità e il vigore corporeo non hanno valore che di apparenza, e non solo nei confronti degli esiti di malattia e morte che il destino prepara ad ogni uomo, ma anche rispetto agli esiti che l’uomo stesso ha già preparato e ancora prepara per il proprio simile nelle forme della tortura, dello sterminio meccanizzato e tecnologico, dell’autodistruzione consapevole. E qui varrebbe la pena di mettere in luce gli aspetti del tragico che condizionano tanto l’opera di Beckett che quella di Mesa (3). Di certo, per il primo, il tragico storico del conflitto mondiale e della Endlösung (la Soluzione finale) non sono che conferme di un tragico che si annuncia psicologicamente per riconoscere poi, per così dire, la propria radice antropologica. Il fallimento di società storicamente determinate ripete l’eterno fallimento del singolo uomo.

Questo a mio parere l’ordine della comprensione del tragico per Beckett. Un ordine che certo non annulla la specificità dell’esistenza storica, ma la rende specchio esemplare di una generalità umana che è innanzitutto percepibile in termini puramente individuali. (La mia angoscia di morte è la stessa angoscia di tutti.) In Mesa quest’ordine include gli stessi elementi, ma si realizza attraverso un percorso inverso: è la percezione del tragico storico che si manifesta in primis. Primo dunque nell’ordine della scoperta, e primario nel senso di fondamentale. A costituire il trauma insanabile è la morte non necessaria che l’uomo infligge al suo simile, ancor prima della morte come fatto ineluttabile per ognuno. Ed è a fronte di questo trauma sempre determinato storicamente che ogni fuga verso la generalità o la pura singolarità non fanno che ribadire ulteriormente lo scacco della condizione umana. Restringere o allargare la prospettiva, sperando di aggirare l’avvenimento mortifero, di considerarlo come eccezione storica o anomalia collettiva, non conduce che al riconoscimento dell’anomalia stessa nell’uomo, sia che quest’ultimo si percepisca come tipo o come individuo.

L’attenzione ad una certa parentela “figurativa” tra Beckett e Mesa non deve però portarci a pensare che sia sul piano semantico, come accadeva in Frasca, che vada concentrata la nostra analisi. Innanzitutto in Mesa non vi è fissazione al cogito, inteso come “io” individuale alle prese con il proprio flusso di ricordi e percezioni. E il problema nei suoi testi non è mai quello di “organizzare” la dispersione o di “suturare” con immagini e concetti la discontinuità dell’esperienza. Neppure, però, vi è nulla che richiami il tema della prigionia della coscienza, con il suo corredo figurativo di schermi e ronzii. Certo, anche per Mesa come per Frasca, il soggetto individuale è poroso e disperso, e il cogito ne è solo spettrale e vertiginosa funzione. Ma in Mesa non vi è nessun ricorso al codice sovraindividuale della tradizione lirica, agli istituti metrici come automatismi consapevoli. Mesa, anzi, assume fino alle estreme conseguenze la condizione di dispersione dell’io, rinunciando ad ogni ritorno su di sé. Questa rinuncia alla centralità del cogito lo spinge verso un’accettazione radicale del divenire. Il disfacimento dell’io, però, trascina con sé anche le impalcature ideologiche inconsapevoli. E con esse le ordinarie strutture linguistiche. Nulla, quindi, permane. Nessuna eredità di forme poetiche, nessun già-detto di massa, nessuno stereotipo, sublime o basso che sia. Ma questa discontinuità investe la struttura dell’io e quella del linguaggio, in quanto è spia della discontinuità stessa dell’essere.

Ciò detto, l’accettazione dell’impermanenza non si presenta in Mesa né con i tratti liberatori delle “macchine desideranti” né con quelli salvifici di certe religioni orientali. L’impermanenza dell’essere e del linguaggio è semmai un polo di quell’antinomia tragica che definisce l’universo della sua poesia. Il polo opposto è costituito dell’esigenza etica di verità. L’esigenza etica della verità e l’impossibilità epistemologica di dirla costituiscono la tensione irrisolvibile a partire dalla quale è possibile parlare di una sintassi beckettiana di Mesa. Nella Nota posposta ai Quattro quaderni, la raccolta di versi uscita nel 2000, l’autore scrive: “le date, i luoghi, le dediche (tutte a posteriori, tutte dentro quegli anni e nel loro memorare): tentativi, stolti, di verità, non più di quanto siano stolti i segreti. Il presente racconta il passato, ogni giorno mutandolo: inutile dire, inutile non dire – meglio la finzione dei versi: il loro farsi oggetto, il loro durare, il loro mutare. Fuori di sé…”(4). Ad una prima lettura, queste frasi possono apparire addirittura enfatiche nel loro modo insistente di esibire l’impotenza del gesto poetico. Ma in realtà esse offrono in modo estremamente preciso la chiave di lettura di questo libro. Un libro in cui Mesa, in modo più sistematico di quanto mai realizzato in precedenza, perviene a mettere in atto un proprio modello di quella “syntax of weakness” (sintassi della debolezza), che è stata al centro della ricerca letteraria del Beckett maturo.

È proprio dall’impotenza che dovremo partire. Nei suoi interventi sulla pittura apparsi a Parigi nella seconda metà degli anni Quaranta, Beckett affronta in modo esplicito la questione della mimesi e dell’espressione in ambito pittorico. Ma le sue conclusioni sono altrettanto rilevanti per quanto riguarda la sua specifica arte della parola. In Pittori dell’impedimento, Beckett afferma: “Perché che cosa resta di rappresentabile se l’essenza dell’oggetto consiste nel sottrarsi alla rappresentazione? Restano da rappresentarsi le condizioni di questo sottrarsi, le quali, a seconda del soggetto, assumono l’una o l’altra di due forme”(5).

Non è solo la rappresentazione realistica, il presupposto pacifico di una mimesi del mondo a venir meno, ma anche la possibilità del soggetto di supplire, attraverso l’espressione di sé, alla latitanza dell’oggetto. Per questo, le correnti che dal surrealismo all’espressionismo hanno spostato il baricentro dell’atto pittorico dall’esterno all’interno, dal mondo al sé, non hanno minimamente risolto il dilemma. Infatti, all’impedimento esterno si accompagna un impedimento interno: “Uno dirà: Non posso vedere l’oggetto, per rappresentarlo, perché esso è quello che è. L’altro: Non posso vedere l’oggetto, per rappresentarlo, perché io sono quello che sono. Ci sono sempre stati due tipi d’artista, questi due tipi d’impedimento, l’impedimento-oggetto e l’impedimento-occhio”(6).

Ora qual è la novità della pittura dei fratelli van Velde, amici di Beckett e da lui grandemente stimati? Essi per primi fanno dell’impedimento il soggetto stesso del loro dipingere: “È dipinto ciò che impedisce di dipingere”(7). Ora sappiamo come nell’opera del Beckett maturo l’impossibilità di raccontare ed esprimere divenga una condizione centrale dell’atto creativo, sino a fungere da vero e proprio leitmotiv. Tale atteggiamento è presente anche, e in modo esplicito, nei Quattro quaderni. Ciò espone la scrittura di Mesa, come già quella di Beckett, ad alcuni equivoci maggiori. Di fronte ai testi dei Quattro quaderni si finisce infatti per oscillare tra due estremi: da un lato, si ha l’impressione che la sospensione dei rimandi referenziali corrisponda ad un pacifico e ludico programma formalista; dall’altro, si ha l’impressione di un incombente e catastrofico silenzio, che costringe ad un monotono rito dell’indicibilità. La scommessa, di Mesa, invece, consiste proprio nel dare forma, consistenza, spessore alla ricorrente crisi di dicibilità dell’esperienza. L’impermanenza dell’essere e l’opacità del trauma storico non costituiscono semplicemente la tomba del “senso”, la sua fine, ma lasciano spazio a nuove, fragili forme capaci di provocare e sollecitare un “senso” a venire. Mesa concludeva con questa parola la sua nota: “meglio la finzione dei versi: il loro farsi oggetto, il loro durare, il loro mutare. Fuori di sé…”. I versi-finzione, incapaci di pronunciare il vero(8), acquisiscono però, in virtù della loro forma, la capacità di perdurare, di sfidare con la loro natura di oggetti linguistici un possibile lettore, di richiamarlo così al lavoro del senso.

Vediamo di penetrare in modo più dettagliato nell’officina di Mesa e di tratteggiare alcuni aspetti della sua sintassi beckettiana. Tra i vari procedimenti di sospensione del referente (ma dovremmo forse parlare di spoliazione delle potenzialità figurative degli enunciati), vi è l’utilizzo dell’antitesi come figura-matrice di una gran quantità di componimenti (“resti fermo / mentre ti muovi” [t3, Quarto quaderno], “e stare, questo stare / è l’ombra del suo andarsene” [t3, Terzo quaderno], ecc.). A volte l’intero testo è organizzato per successione di antonimi:

(pensa a che cosa rimarrà,
a quel nulla,
e a tutto che si perde)
(e mentre,
che stai perdendo,
pensa come trattieni
e cosa) (9)

Dobbiamo qui ricordarci della prima pagina dell’Innomable, dove leggiamo: “comment procéder? Par pure aporie ou bien par affirmations et négations infirmées au fur et à mesure”(10). La strategia è duplice, in quanto mentre pone in scacco qualsiasi proposizione dichiarativa, sospendendo ogni forma di rinvio referenziale, manifesta nel contempo il ritmo del processo di enunciazione, a cui la voce è costantemente soggetta. L’oggetto del discorso e il posizionamento del soggetto rispetto ad esso sono di continuo taciuti o denegati, ma ciò che affiora nel testo è la successione di silenzi e di prese di parole, di spegnimenti e di accensioni della voce: “e dopo questo suono, dopo, / dopo torna // come se nulla fosse, suona, / suona ancora” (s, Quarto quaderno) oppure “[un suono / questo dopo // questo / e questo basta]” (r1, Quarto quaderno). In questa prospettiva si può parlare della poesia di Mesa come di una poesia non figurativa, che tende a costruirsi in termini di successione musicale, ma non tanto a livello microtestuale, di singolo componimento, quanto a livello macrotestuale, d’intera raccolta poetica. Non si tratta di ricercare tracce più o meno consistenti di “musicalità” nei versi e neppure di sottolineare un’enfasi dei significanti esibiti nella loro materialità sonora. In Mesa, l’organizzazione musicale sostituisce l’architettura tematica, la successione ritmica delle composizioni sostituisce la scansione metrica dei singoli testi. Ciò impone al lettore un itinerario non prevedibile alla ricerca di schemi e modelli ricorrenti, che nulla però hanno a che fare con gli istituti metrici della tradizione. Se poi riflettiamo ai procedimenti generativi di carattere musicale, dobbiamo innanzitutto considerare gli improvvisi.

Improvvisi 1995-1998
è infatti il sottotitolo dei Quattro quaderni. Nella nota d’autore troviamo questa definizione: “l’improvvisazione genera la propria struttura (quando ormai, il percorso, giunto oltre la sua metà, doveva, per proseguire, porsi una meta, un ordine limitante), poi se ne libera, la attraversa con un solco irridente, ricominciante” (QQ). Mesa ha una solida formazione musicale. Ha studiato composizione sperimentale e suona il pianoforte. Il suo repertorio spazia dalla musica colta al free jazz. Ora il free jazz in modo particolare, e le tecniche d’improvvisazione che esso comporta, sono qualcosa di più di un suggestivo richiamo metaforico nella definizione della sua scrittura poetica. Mesa ha consolidato negli anni un lavoro di ricerca sulle forme non più incentrato sulla dialettica norma – libertà, ma su quella caso – necessità. La necessità, allora, non si configura più come rispetto dei vincoli canonici del verso né tanto meno come espressione di qualche “intima misura”. La necessità s’inscrive nel caso come suo ripensamento, come ritorno su di sé del gesto irriflesso, come opportunità di porsi una “meta” a percorso già cominciato. Ed ecco allora la cura posta da Mesa nella definizione di norme ipotetiche, di possibili “convenzioni” compositive, che permettono di inserire i gruppi di testi dei Quattro quaderni in particolari categorie: “temi”, “variazioni”, “raccordi” e “serie”. Il macrotesto della raccolta cerca di trovare in sé, attraverso un percorso di continuo ripensamento in progress, i propri schemi ricorrenti. Questi schemi possono manifestarsi in modo più o meno perspicuo al lettore, ma di certo gli sottraggono quel riferimento sicuro che è fornito dalla tradizione e dalla sue forme consolidate.

La causalità, nella poesia di Mesa, persegue un’esigenza che non è meramente psicologica. L’improvvisazione, insomma, non è motivata da una fiducia nelle facoltà associative della psiche, capace di “liberare poeticamente” i significati dalle loro gabbie convenzionali e condivise. Non si tratta insomma di produrre altri significati, altre immagini, più “profonde” e “segrete”, rispetto a quelle che ci sono offerte dal linguaggio ordinario. Si tratta semmai di sottrarsi al bisogno di significare, minando la possibilità di produrre frasi di senso compiuto. Questa sottrazione si ottiene frantumando la sintassi, abolendo le forme verbali finite, cancellando il soggetto: dell’enunciato rimane un residuo figurativo e la pura forza conativa dell’enunciazione. Nulla di definitivo deve essere detto, nessuna massima deve chiudere e definire concettualmente un’esperienza, nessuno scenario elementare della frase deve permettere d’identificare attori, azioni od eventi. Vediamo i primi distici di “variazione 3” del Terzo quaderno: “come se fosse niente ed è così / se fosse altro ed è lo stesso // se andasse, no, se non andasse / non capisse, capisse che non è”. Il componimento si apre con una proposizione subordinata, di cui è stata soppressa la reggente. Il soggetto è implicito e indeterminato. Il modo verbale finito oscilla tra il congiuntivo ipotetico e il presente del verbo essere. Il secondo verso, che riflette la struttura sintattica del primo, introduce la coppia di antonimi “altro / stesso” in funzione di parte nominale. Il secondo distico esibisce nuovamente una subordinata priva di reggente, dove l’antinomia nel primo verso si realizza attraverso la figura della correctio, mentre nel secondo attraverso il chiasmo.

Queste succinte osservazioni vogliono semplicemente evidenziare l’alto tasso di lavoro retorico sull’enunciato, che nel contempo è ridotto ad un minimo grado figurativo e semantico. Ogni componimento della raccolta diviene allora traccia di questo gesto insopprimibile del dire, dell’enunciare, della rottura del silenzio. È un gesto saturo di tensioni, di potenzialità retoriche, ma nello stesso tempo è un gesto reticente e scettico, che si vanifica nelle sue pretese più solenni: la nominazione del mondo, la descrizione della realtà, la dichiarazione di una proposizione vera. Guido Caserza, nella sua postfazione ai Quattro quaderni, ha colto pienamente la portata della strategia testuale di Mesa: “la negazione investe ora l’intero potenziale semantico. Il soggetto poetico sa che cosa non nomina, lasciando sospeso in un’attesa di senso ogni possibile e eventuale referente” (Il naufragio dello stile, QQ). Tutti i procedimenti operati da Mesa mirano a liberare la parola dal suo spessore semantico e dal suo rinvio referenziale. Qualsiasi elemento linguistico promette una verità, non in sé, ovviamente, ma come particella verbale inseribile all’interno di una frase, di un giudizio: un’asserzione sul reale o sul possibile. È contro questa natura “rappresentativa” del linguaggio, che Mesa costruisce la sua poesia. Il sogno della “verità” non abita solo il discorso scientifico, ma anche quello quotidiano e persino quello poetico. Si tratta di un fantasma sempre presente, e mai del tutto ricusabile: la verità è “eticamente” necessaria, anche se nei fatti il discorso che pretende di dire il “vero” è sempre discorso parziale, di parte e della parte più forte. Ma di fronte al fantasma di potenza che ogni enunciato porta in sé, come possibilità di dire la verità conclusiva, i testi di Mesa vogliono opporre un discorso indefinito (sospensione dei nessi referenziali e astrazione delle immagini), non finito (incompiutezza grammaticale e sintattica della frase), inconcludente (perpetuo ritorno del gesto enunciativo).

Abbiamo fin qui messo in luce le ragioni e le forme della “sintassi della debolezza”, così come si manifesta nella poesia di Mesa soprattutto dai Quattro quaderni in poi. Ma in conclusione dobbiamo anche sottolineare uno degli effetti “in positivo” della sua ars poetica. In questo lavoro di sottrazione continua, emergono non solo dei minimi figurativi che sollecitano una grande pietas (“qualcosa deve sporcare il vetro. anche / con poca spesa. / una bava di lumaca, un giallo di fumo.” [v4, Secondo quaderno]), ma anche della frasi del linguaggio più comune e ordinario, che si caricano di un’attesa semantica intensissima. Si legga l’esemplare chiusa dell’ultimo componimento della raccolta, quarto passaggio e dopo (Quarto quaderno): “[domani moriremo, amore mio – / avremo ancora caldo e sete / e freddo e fame e tutto il resto: resta]”.

 

Note.
1)“nella calca miserrima / delle cuoia fatte secche” da Per la racchiusa, in I loro scritti, Torino, Geiger, 1978.
2)“così come dev’essere. dita rugose sopra / dita impoltigliate e fatte lisce” da chissà. Poesie 1999-2000, Napoli, d’if, 2002.
3) Per una disamina del « tragico » in Mesa e in altri poeti italiani contemporanei si veda il saggio di Alessandro Baldacci, “Il disprezzo del rimedio: (ri)pensare il tragico”, in Parola plurale.
4)Giuliano Mesa, Quattro quaderni, Lavagna, Zona, 2000, p. 77. D’ora in poi QQ.
5)Samuel Beckett, Pittori dell’impedimento [1948], in Disiecta. Scritti sparsi e un frammento drammatico, traduz. e cura di Aldo Tagliaferri, Milano, EGEA, 1991, p. 191.
6)Ibidem
7)Ibidem
8)“(di più falso non cè nulla / che il voler dire il vero)”, t1, Primo quaderno.
9) s, Terzo quaderno.
10) Samuel Beckett, L’innomable, Paris, Minuit, 1953, p. 7.

(Fine.)

(« Semantica e sintassi beckettiana in Gabriele Frasca e Giuliano Mesa », in Tegole dal cielo , vol. I, L’“effetto Beckett” nella cultura italiana, a cura di G. Alfano e A. Cortellessa, Roma, Edup, 2006, pp. 163-176.)

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