Parlando la lingua del paradiso: una conversazione con Gabriele Frasca

 

[di Federico Platania su www.samuelbeckett.itscarica qui il pdf]

A gennaio 2008, è uscita per Einaudi «In nessun modo ancora», quella che nell'universo beckettiano è conosciuta anche come "la seconda trilogia" (la prima, è noto, è quella costituita dai romanzi «Molloy», «Malone muore» e «L'innominabile»). Quella che segue è una conversazione con Gabriele Frasca, che ha curato il volume e ha firmato la traduzione delle tre prose brevi («Mal visto mal detto», «Compagnia e «Worstward Ho») che lo compongono.

 

Avevo molte domande da porti su queste nuove traduzioni beckettiane, ma la tua prefazione al volume è così ricca di informazioni che vi ho trovato già molte risposte. Però non mi dispiace certo approfondire alcune questioni in modo più diretto. Comincerei dall'incipit di Compagnia: «Giunge una voce a qualcuno nel buio. S'immagini». Quest'ultimo imperativo nell'originale inglese è di una essenzialità glaciale (imagine). Come tu fai giustamente notare, la versione francese si ammorbidisce in un infinito (imaginer). Ma il tuo «S'immagini» è spiazzante, altero. Altre volte mi è capitato di percepire, nelle tue traduzioni, una sorta di vestizione della nudità della parola beckettiana. Ti va di parlarmi di questo approccio?

La tua sensazione è giusta: quando si volge l’inglese dell’ultimo Beckett in un’altra lingua, in specie se romanza, si ha sempre la sensazione di rivestirlo di una sintassi più articolata (prova a tradurre, che so, Company in spagnolo…), perché in questi testi l’autore ha sfruttato a pieno la tendenza analogica dell’inglese. Anzi persino troppo a pieno, e dunque ben al di là dell’uso. Non è una lingua scarnificata all’osso: va letteralmente fino al midollo, ed è dunque, a scanso di equivoci, un processo di formalizzazione (in minore se vuoi, ma comunque un procedimento formale). Con una lingua romanza questo è pressoché impossibile, come dimostrano le stesse traduzioni di Beckett. L’unico che io conosca che ha tentato una cosa del genere con l’italiano è Antonio Pizzuto; ma, consapevolmente, per cercare il midollo della lingua ha dovuto ricorrere a delle vertiginose costruzioni infinitive, trasformando al contempo quasi ogni sostantivo in un verbo, e dunque andando all’opposto delle spinte analogiche, perché l’italiano è una lingua assai dispendiosa (come lo spagnolo, e più del francese). Quello che ho appena detto, ribadisco, vale per l’ultima produzione di Beckett, e non per tutta l’opera, perché se pensi a un romanzo come Watt, per fare l’esempio più eclatante, allora ti assicuro che le volute retoriche e sintattiche di quell’inglese possono mettere a dura prova persino un frequentatore dell’asianesimo secentista, e a tradurlo si rischia di svestirlo più di quanto non lo si rivesta. Magari è in questione la famosa «rivelazione», con tutto il suo corredo di progressive strategie in levare, perché per giungere al paradiso dell’inglese ricondotto al midollo, Beckett se l’è dovuto fare in francese il suo purgatorio. L’inglese di Beckett, diciamocelo a scanso di equivoci, è sempre più, quando è lingua dell’originale, «magniloquente» del suo francese (che suona invece, quando è di prima stesura, un po’ «canagliesco», o quanto meno picaresco), anche dopo la conversione all’estetica dell’«impotenza» (basta dare un’occhiata a From an Abandoned Work, e persino a opere drammaturgiche come Krapp’s Last Tape e Words and Music). A un vero e proprio inglese rasciugato (dall’asianesimo all’atticismo stile Giusto Lipsio, per restare dalle parti della retorica del discorso eloquente), Beckett giunge solo in questi testi, e in maniera eclatante in Worstward Ho. Per quanto riguarda l’incipit di Company, la mia scelta è stata per così dire forzata, dal momento che l’imperativo di una lingua romanza aggiunge quella marca di numero che l’inglese non ha. Imagine può tradursi «immagina» e «immaginate», oltre a suonare incredibilmente «sostantivo» (siamo all’opposto del procedimento di Pizzuto). Ora, sia il singolare che il plurale non potevano, in fase di traduzione, che essere scartati, come mostra inequivocabilmente la soluzione eletta da Beckett quando ha volto il testo in francese. Company, ce ne accorgiamo sùbito, attribuisce la seconda persona singolare a uno degli elementi in gioco (alla voce, cioè, che giunge a qualcuno nel buio), e tradurre «immagina» avrebbe così ingenerato una spiacevole ambiguità che avrebbe disperso in un colpo solo l’intero paradosso con cui si dichiarano le dramatis personae del testo. Tradurlo con «immaginate», come se fossimo ancora dalle parti di Imagination morte imaginez, avrebbe invece immediatamente convocato una «compagnia» che l’opera, perché è questo esattamente il suo scopo, allestirà invece solo progressivamente. Chi avrebbe dovuto immaginare, in questo invito a farlo in prima battuta tutt’insieme? I lettori, convocati così irresponsabilmente in prima scena? Il povero cristo nel buio e l’altro canchero che crea il tutto per compagnia (e di cui fra l’altro a quell’altezza ancora non sappiamo nulla)? Il rischio, nel tradurre con la seconda persona plurale, sarebbe stato quello di anticipare alcune soluzioni che il testo propone (e scarta) solo in maniera progressiva, smentendo, come se non bastasse, quella forza erosiva che riduce poi la compagnia in un assolo. Beckett, quando si è dovuto tradurre in francese, ha avuto ovviamente lo stesso problema, e l’ha risolto con quello strano infinito conativo. La cosa divertente, è che diversi francesi da me invitati a esprimersi sulla funzione conativa da attribuire all’infinito, mi hanno dato risposte diametralmente opposte. C’è chi ha detto che una sfumatura del genere è molto forzata, e chi al contrario l’ha dichiarato un uso sostanzialmente legittimo. La questione è più semplice di quello che sembra (ha dunque meno a che fare con gli strati di lingua letteraria frequentati dai miei interlocutori, tutti manco a dirlo university men, al pari del signor Watt): in imaginer può molto anche l’omofonia con imaginez (c’è chi la sente, insomma, e chi no). L’italiano «immaginare» non offre questa scappatoia. E in più, Beckett non disdegna le frasi infinitive in Company, innestate in costruzioni oggettive e soggettive che si sciolgono grazie alla strana sintassi del periodo che regola il testo (che scavalla solitamente il punto fermo, che non è più un segno di interpunzione ma una notazione musicale che indica dove fare pausa). Pensa ad esempio a una costruzione come: «Qualche raro suono. Che benedizione averne per ricorrervi. Di tanto in tanto. Nel buio e nel silenzio serrare come alla luce gli occhi e ascoltare un suono [to close as if to light the eyes and hear a sound]». Il senso di quell’infinito è chiaro: «Che benedizione (sarebbe) serrare come alla luce gli occhi ecc». Ma prova solo a tradurre imagine con «immaginare», e dimmi poi se quella sfumatura conativa non finisce col diffondersi in tutto il testo. Cioè: prima vi ho detto di immaginare, ora vi dico si serrare gli occhi, e via così, con un effetto Cecchetto, passami la trivialità, assolutamente devastante per la comprensione del testo. Il mio problema era dunque quello di mantenere il senso imperativo e non attribuire un numero alla persona, cosa che si ottiene facilmente in italiano utilizzando l’impersonale del congiuntivo esortativo («s’immagini», appunto), che non è altero, a mio parere, perché anche se non lo trovi più fra i nostri scrittori del «parlo come mangio» (ma che diete in bianco s’impongono costoro!), finisce che v’incappi anche solo se leggi, per restare nell’arte culinaria, un ricettario di cucina («si prendano tre uova… si mescoli il tutto… si serva caldo»), o un libro che descrive esperimenti scientifici per principianti (che non sono testi alteri, anzi). Ma ciò non basta: per scegliere il congiuntivo esortativo dovevo essere certo che rientrasse nell’usus scribendi di Beckett, in specie nelle sue opere più o meno coeve e in prima stesura in francese. E naturalmente c’è, basta dare un’occhiata ai pochi appelli alla collaborazione del lettore che si trovano ne Le Dépeupleur, tutti, per l’appunto, al congiuntivo esortativo. Quando si traduce, bisogna porsi tante questioni. Anche l’inversione incipitaria è nata per questo. «A voice comes to one in the dark. Imagine» è un esametro giambico. Potevo fregarmene, ma sarebbe stato, io la vedo così, un bel tradimento, perché il ritmo di un testo non è un orpello, è una marcia in più. «Giunge una voce a qualcuno nel buio. S’immagini» è un endecasillabo seguito da un trisillabo sdrucciolo. Se dici l’endecasillabo tutto d’un fiato e fai pausa prima del congiuntivo esortativo, ottieni un effetto di sospensione che rimanda (appena un po’) allo straordinario ritmo pulsativo dell’originale (e alla struttura endecasillabo + quinario esplicitamente eletta da Beckett per la versione francese).

 

Partendo da un'immagine di Lacan, e passando per Joyce, proponi il seguente ragionamento: se la lingua è un parassita che ci anima, la lingua di Beckett è un parassita che si innesta sull'altro parassita, per liberarcene. Forse ho semplificato eccessivamente la tua intuizione, ma anche in questa forma la tua tesi conserva la sua originalità. Mi sembra che tu sia il primo a vedere nella lingua di Beckett una forma di guarigione, laddove altri hanno visto semmai una patologia del linguaggio, una condizione terminale della parola (si è parlato di «parola dell'impotenza» contrapponendola alla joyciana «onnipotenza della parola»).

La lingua di Beckett è senz’altro una forma di guarigione dal parassita del linguaggio, come lo è del resto la lingua tutta dell’arte del discorso, o letteratura, o come altro vogliamo chiamare questa pratica che innesta contemporaneamente il veleno e il suo antidoto. La letteratura, avrebbe detto Deleuze seguitando Nietzsche, è clinica, e se non è tale ti ammazza, magari non nel corpo ma nella carne, dicendoti qual è il posto che devi occupare, e invitandoti a restartene buono lì a trascorrere il tempo. Tempo perduto. Con Beckett, fortunatamente, il tempo è tutto da perdere, e dunque da guadagnare e disperdere (è il metodo «broadcasting» della parabola del seminatore), perché gli esercizi che t’impone per sentirti il parassita, per scoprire insomma che nel tuo assolo c’è una compagnia, se mai solo per dileguarla, sono esplicitamente di tipo catartico. Non si esce come si è entrati da un testo di Beckett, mai. La sua «parola dell’impotenza» alla fin fine è più joyciana di quello che si creda, perché è in realtà una sorta di, passami il gioco, «onnimpotenza della parola». Del resto, come scriveva nell’Innommable, non si tratta di fare il processo alle parole, perché queste non sono più vuote di ciò che trasportano: vale a dire il senso, anzi, per dirla giusto con Joyce, «the original sinse», il peccato originale della prima donazione di senso. Imparare a sentire l’estraneità del linguaggio, a capire insomma che è solo il parato tutto decorato di una parete fredda e muta, è imparare a sopravvivere a tutti i guasti che l’innesto della parola suscita in ciascuno di noi. Sul lettino degli analisti, di quelli se non altro che non si prendono la briga di infarcirti di archetipi e complessi, su questo Lacan aveva ragione, non si fa praticamente altro: qui c’è questo vuoto muto, dovrebbe indurti a comprendere il buon analista (e come vedi sto scomodando Worstward Ho), e qui c’è questo fosco che ti consente di chiacchierarti il vuoto e fare le tue brave immagini, comprensive di te stesso che immagini. Ne esci peggiorato al punto da sentirti finalmente in vita. Non c’è forma, lo sappiamo, che non sia una «forma d’avversione» in grado di mettersi di traverso al flusso del linguaggio che ci attraversa, e che non operi pertanto per un processo di cattura: e quando una forma agisce come una «macchina da preda», più che da presa, beh ti afferra, t’informa, e ti tiene quel tanto che ti lascia alla fine trasformato.

 

Torniamo alle traduzioni. Su Peggio tutta tu sei esplicitamente cauto. Dichiari che la tua traduzione di Worstward ho va considerata alla stregua di un'interpretazione e di un invito alla lettura dell'originale. In cosa è stato diverso, rispetto alle altri parti della seconda trilogia, il tuo impegno con questo breve testo, che lo stesso Beckett etichettava come intraducibile?

L’ho detto solo per Worstward Ho perché era un debito che avevo con Beckett (che ha fatto in tempo a dare uno sguardo al mio primo tentativo di traduzione), ma lo penso per tutti gli altri testi di In nessun modo ancora, e per tutti quegli altri che ho tradotto, e persino per tutte le traduzioni. Tradurre è sempre invitare alla lettura dell’originale, anche se l’invito verrà come suol dirsi declinato. Il problema di Worstward Ho è essenzialmente morfosintattico. Badiou dice che in questo testo è come se Beckett fosse giunto al quid della lingua inglese, e non ha torto: lo ha proprio stanato il parassita, non c’è che dire, saltando a piedi uniti nella logica. E nella matematica. Altro che lingua scarnificata! È la carne dentro l’osso che salta fuori. Se dovessi descrivere le regole formali cui soggiace questo testo, potrei cavarmela con una boutade, del tipo: «è come se avessero chiesto a Tacito di spiegare gl’infiniti attuali». Ma l’effetto catartico di cui ti parlavo è qui a dir poco devastante. La lingua è quella del paradiso (di Dante e di Cantor): dire l’indicibile. È una meraviglia! Sarebbe bello se fossi riuscito a renderne solo l’ombra.

 

Sono sincero: la scelta di tradurre il titolo Worstward ho con Peggio tutta non mi ha mai entusiasmato. Hai vagliato altre formule? E se sì, perché le hai scartate e hai scelto proprio questa?

Ho cercato titoli come Watt faceva con le parole, provandoli e riprovandoli neanche fossero cappelli. Nessuno andava bene. I motivi per cui alla fine ho scelto Peggio tutta, li dichiaro nell’introduzione (si trattava di salvare l’«allegoria della nave»). Non è un’ottima soluzione, ma non sopporto di lasciare un titolo in originale come si fa ora con i film americani. Se si traduce un testo, occorre che sia tradotto nella sua interezza. È lo stesso problema che ho avuto con titoli come mirlitonnades o Stirrings Still. Così van le cose coi giochi di parole. Quello che vale per i titoli, vale per tutto il resto. Se trovi un gioco di parole all’interno dell’opera, che fai? Lo espungi? Lo riporti così com’è? No, provi a rimediare, e poi ci metti la nota che riporta il gioco originale e spiega il tuo lavoro. Sono testi assai complessi quelli di In nessun modo ancora, e ho lottato fino alla fine per avere il testo a fronte. Ma l’editore è stato irremovibile: «la collana non lo prevede», mi è stato detto. E dal momento che, come sai, questo libro rischiava addirittura di non uscire…

 

Restando su questo testo, una cosa più di tutte mi ha colpito. Tu hai tradotto una delle frasi di Beckett che amo di più («Ever tried. Ever failed. No Matter. Try again. Fail again. Fail better») scegliendo per la parola ever, che può essere tradotta sia con sempre sia con mai, questa seconda accezione. Una decisione diametralmente opposta a quella operata da Roberto Mussapi per la sua versione italiana di Worstward Ho che uscì con Jaca Book nel 1986. Tutto questo preambolo per farti una domanda che può sembrare maliziosa ma che nasce da una mia sincera curiosità: quanto ha pesato – e pesa – nelle tue fatiche di traduttore beckettiano, il lavoro di chi ti ha preceduto?

No. Non ho scelto «mai». In realtà ho optato per «nient’altro mai» (attenzione: mai e sempre si congiungono, come in «sempre mai»). Anche Worstward Ho funziona con quella sintassi che scavalla il punto fermo di cui ti parlavo per Company, anzi fa un uso addirittura a tutto campo di questo espediente ritmico-formale. Il testo difatti dice: «All of old. Nothing else ever. Ever tried. Ever failed ecc». Cioè: «Tutto solito: Nient’altro mai. Mai tentato ecc». Cioè: «nient’altro mai tentato… nient’altro mai fallito». Che vuol dire esattamente «sempre». Cioè: non ho tentato, e fallito, nient’altro che questo, per tutta la vita… eppure non basta… occorre tentare di farlo di nuovo… e meglio. Ed è questa la mira dell’opera, fare meglio, cioè peggio (perché si tratta di accapigliarsi col reale), ciò che è stato già infinitamente fatto. Quanto al mio rapporto con le traduzioni precedenti, posso dire di aver sempre avuto il massimo rispetto per la versione di Watt di Cesare Cristofolini, che con gli elementi che aveva a disposizione all’epoca credo che abbia fatto miracoli. Quella di Franco Quadri di Murphy non l’ho presa in considerazione perché condotta sulla successiva traduzione francese, non sull’originale inglese. Per Worstward Ho (e per Company) ho l’impressione che le traduzioni di Mussapi siano state eseguite un po’ di fretta (e, c’è da giurarci, magari a causa dell’editore che avrà fatto pressioni), e risultano alquanto oscure, talvolta addirittura criptiche. E con alcune incertezze un po’ pericolose. Tradurre in alcune sue occorrenze il verbo to prey (cioè: predare) come fosse to pray (pregare!) sarà, non dico di no, questione di fede, un lapsus di fede. Ma nessuna fede può anteporsi a quella che un traduttore porta al testo. Sempre che non sia stato il proto, con tutto la roba che la casa editrice gli dava da stampare, a non lasciarsi all’epoca prendere dalla forza dell’abitudine

 

Con questa tua nuova traduzione alcuni importanti testi beckettiani tornano finalmente nelle librerie. Non voglio costringerti a polemizzare con l'Einaudi, ma non sembra strano anche a te che all'attenzione palpabile da parte di un selezionato ma attento pubblico e di una critica meno dormiente del solito, corrisponda, riguardo a questo grandissimo del Novecento, una sorta di stitichezza editoriale in termini di volumi, uscite, reperibilità in catalogo?

Il problema è che Einaudi detiene tutti i diritti di Beckett, ma al momento non sembrerebbe sapere che cosa farsene. Come mi è stato detto più volte: «Beckett non vende». Il selezionato pubblico di cui parli, lo sai, da solo non basta, se ogni titolo deve (come accade in Einaudi per ingiunzioni padronali) assicurare un venduto molto alto. Non esistono più in Italia gli autori di bandiera, quelli che si pubblicano perché dànno senso a un catalogo. Così, da noi, si trova poco e niente in libreria di Beckett (e di tanti altri autori che, solo se passi le Alpi, t’accorgi che hanno le pile sui banconi). Non discuto le scelte editoriali dell’Einaudi, hanno già i loro guai, non dico di no. Sarebbe soltanto auspicabile che, se proprio di Beckett non ne vogliono sapere, cedessero i loro diritti a un altro editore. Detenere tutti i diritti di un autore e non pubblicarne l’opera o è una pazzia, in termini strettamente commerciali dico, o è un’operazione di politica culturale quanto meno dubbia, al limite dell’assassinio culturale. Detenere tutti i diritti di un’opera non significa, con i buoni auspici dei generosi campi semantici di una lingua, trasformare il malcapitato autore in un detenuto. Nella fattispecie, ritengo che sia solo una sorta di indecisione fra due linee di condotta, quella tipicamente einaudiana, decisamente in disgrazia, e quella conseguita alla (stile)liberazione che ha reso l’Einaudi più user friendly e, come dire, «scapricciatella», e pertanto consona alla politica culturale dell’attuale proprietario della casa editrice.

 

La mia esperienza di lettura di In nessun modo ancora è stata molto emozionante. Considero Compagnia e Mal visto mal detto tra le cose più belle che Beckett abbia mai scritto. Anche Stirrings still (o Fremiti fermi, se preferisci, ma mi devo ancora abituare a questo titolo…) è un testo che ha dentro una forza incredibile. Sono dunque stato quanto mai felice di rileggere tutte queste opere in una nuova traduzione così curata, firmata da qualcuno che Beckett lo ama in modo evidente. Ora, questa domanda potrà sembrarti banale, ma secondo me è cruciale: qual è il tuo rapporto – da semplice lettore (ammesso che tu riesca a scindere in te il tuo io-lettore dall'io-scrittore e dall'iotraduttore), da Beckett-addicted, vorrei dire- con i testi raccolti in questo volume?

Per tradurre mi serve essere scrittore e critico, all’unisono. Ma il rapporto che ho con questi testi è del tutto emotivo, come sempre quando si ha a che fare con dei capolavori. Letti singolarmente brillano ciascuno di una propria forza peculiare. Letti in successione, poi, sono un’autentica esperienza di conversione. La prima volta che lessi Worstward Ho, a partire da quell’incredibile incipit al medio, credo di aver fatto letteralmente un salto dalla sedia. Non ci sono altri precedenti che non siano gli ultimi canti del Paradiso. Ci pensi? La stessa intensità, la stessa dichiarazione d’impotenza per giungere al limite estremo della lingua. Per fare che? Che ci porta a fare Beckett al limite stesso della finitezza di ogni lingua? Nel foschimassimo fosco a vastità di distanza ai limiti del vuoto illimitato dello spazio hilbertiano? Semplice: ci allestisce pezzo dopo pezzo uno spalto di materia cerebrale riprodotta con l’aria e il respiro, e ci invita da lì a una fugace occhiata sugl’infiniti attuali. Il paradiso è qui, il paradiso è questo. Come specie, siamo sempre stati in grado di produrlo. Quanto a me, per avermi fatto capire tutto questo, non lo ringrazierò mai abbastanza, il signor Beckett.

 

L'ultima domanda riguarda te direttamente. Come ho detto prima, oltre ad essere un traduttore, sei anche uno scrittore. E un poeta. È appena uscito, per l'editore Sossella, Prime, un volume che raccoglie una selezione delle tue migliori poesie composte nell'arco di trent'anni. E ora hai dato il via a Dai cancelli d'acciaio, un progetto letterario che prevede la presenza di un gruppo di sottoscrittori-committenti. Di cosa si tratta, esattamente?

No, non parliamo di me. Questo è il sito di Samuel Beckett, e ti si deve ringraziare per averlo pensato e organizzato. È uno strumento utilissimo per gl’italiani che vogliono accostarsi a un’opera così significativa, e così in qualche modo occultata. Per chi avesse voglia di capire che cos’è Dai cancelli d’acciaio, e quale tipo di operazione politico-culturale sto proponendo con questo romanzo, che per l’appunto non è solo un romanzo ma una convocazione, può dare un’occhiata al sito http://www.lucasossellaeditore.it/viaggi.html


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