Fabio Franzin. Dopo la fabbrica, grandine e neve.

 

dalla Prefazione di Manuel Cohen

I.  Nel rapido volgere di un decennio, segnatamente dall’esordio nel dialetto veneto d’origine dell’area opitergino-mottense avvenuto con El coeor dee paroe (prefaz. di A. Serrao, Zone, Roma, 2000), la versatile e ricca vena di Fabio Franzin lo ha imposto all’attenzione della critica come una tra le personalità più sicure, motivate e vitali della attuale stagione neodialettale e della generazione poetica a cui appartengono anagraficamente quegli autori nati negli anni ‘sessanta’ sia che si prenda indistintamente in esame il versante in lingua sia quello in dialetto.
     Elettivamente e intimamente poeta di natura e di paesaggio, che, a differenza dell’iconografia preziosa e della cartografia paludata, oleografica, cara alla vulgata vernacolare, intende il luogo abitato come vita, parte in causa emotiva, conoscitiva e mai esornativa, che elargisce, che dona o che toglie e porta via.
     Paesaggio da intendersi come esperienza o, nondimeno, come metafora di una condizione sia essa dell’essere, del tempo, o interiore: da questo derivano anche le striature accorate, certe tonalità elegiache, venate di malinconia per quanto avuto e perduto, o a volte patetiche, ma anche le nuances impressioniste, la proliferazione di tropi quasi per filiazione endogena al dialetto stesso, le metafore, le metonimie e le similitudini afferenti al mondo di natura, ai campi semantici botanico-vegetali, o, ad esempio, alla terrestrità insita nel microcosmo del muschio, uno degli elementi assurto a luogo-simbolo, tra i più elettivi o chiarificatori della sua poesia; un elemento di humilitas, più modesto e più inerme, della sfera terrestre.
     Al suo abbrivio, la parola di Franzin ha preso le mosse da motivi, istanze e morfologie espressive manifestamente tradizionali, attinenti all’oralità e a radici sociali mai sconfessate, in cui in un processo di mimèsi viene ad innestare il proprio vissuto alle cose del mondo e al quotidiano della koinè diálektos.
     Un inizio, lo diremmo, il suo, marcato da un dato di voluta nudità naturalistica in cui il reperto lirico registra il tempo e il luogo, fissa le coordinate spaziali e temporali in cui agire ed essere agito. Letto in questa ottica, Franzin si inserisce elettivamente nel solco della tradizione lirica del Nord-Est italiano di Marin, del più limitrofo Pascutto, di Saba, di Giacomo Vit, e la fa propria, la assume, nella coabitazione e nell’esercizio di agnizione di unA couche di riferimento, nella duplice valenza territoriale e linguistica, la cui appartenenza a un socioletto, o alla possibile, fluttuante traccia identitaria, si dà per una accezione riparatrice, o comunque, confortatrice della vacanza di umanità, della perdita di memoria, sia essa famigliare, antropologica, di civiltà rurale, di natura tout court, o di una sua remissione; ma per questa come per altre questioni, rinvio il lettore alla fondamentale prefazione di Edoardo Zuccato, L’equilibrio perduto e il conforto della parola, a F. Franzin, Mus.cio e roe. Muschio e spine, Le Voci della Luna, Sasso Marconi, 2007.
     La parola di Franzin deriva impellentemente da un vulnus, una ferita, una offesa privata, riverberante altresì una offesa dimidiata e comune, domestica e sociale, e non parrà un caso quello di ritrovare il lemma nei Canti dell’offesa, i versi poematici e civili scritti in lingua e di prossima pubblicazione. Una parola chiamata a testimoniare di una umanità di vinti, pudìca della propria modesta condizione, e dove più di un ideale richiamo va al friulano Amedeo Giacomini, alla predilezione per una umanità marginale, periferica, esclusa dal banchetto della Storia.
     Franzin ha declinato le parole dell’offesa a cominciare dal nucleo germinale della esistenza sua propria, dalla madre, o dal padre a cui dedicherà la prima sezione della raccolta Pare, Padre (prefaz. di Bepi De Marzi, Edizioni Helvetia, Spinea, 2006). Una offesa che parte dai «confini dea vita», dove il succedersi di morte e nascita appare come la convergenza parallela di una vicenda segnata dall’impossibilità dell’incontro, e che assume in sottotraccia le valenze destinali di una Stimmung.
     Come in Pare, dunque, il libro che potremmo intendere come il suo più ‘privato’, quello del dolore e del lutto paterno, ma anche quello della gioia del vivere la propria genitorialità, l’esperienza soggettiva riverbera e si relaziona con la sfera sociale; così, secondo le modalità più consone all’autore, il racconto in versi delle storie e delle ‘vite non illustri’ di anziani, amici e conoscenti che animano la scena di Motta di Livenza, in Mus.cio e roe.

II.  Ma l’esigenza di raccordo e di narrazione, e, per inciso, la narratività è un elemento non trascurabile, un registro della poesia di Franzin, a tal punto da enuclearsi come un dato della quiddità del suo stile. La sua capacità di racconto che, per le evidenti tracce di oralità, ricorda la tradizione dei cantastorie, e il romanzo popolare e rurale, le scheggiature di esistenze e fabulae, sarà il motore del complesso meccanismo che aziona il continuum poematico di Fabrica, Fabbrica (Atelier, Borgomanero, 2009, rist. 2010), uno tra i più sorprendenti e interessanti libri dell’ultimo decennio, generato dalla personale esperienza lavorativa, ampiamente segnalato con favore dalla critica, e insignito di vari riconoscimenti. Qui, l’incontro con una umanità ferita, precarizzata nel lavoro e negli affetti, mortificata nelle aspettative, in balìa di ricatti o vessazioni del ‘capo’ o del ‘parón’: padrone, un appellativo che ormai suonava strano, desueto, praticamente scomparso dalle agende politiche e dall’informazione generalista come pure dall’immaginario della sterminata middle-class terziarizzata; una realtà operaia svilita dalle dinamiche lavorative, e che viene accolta nei testi di un vero e proprio Spoon River contemporaneo.

     Dopo anni di sostanziale rimozione della weiliana Condizione operaia, e di più sostanziale latenza del filone della letteratura industriale, dopo la grande stagione di Ottiero Ottieri e Paolo Volponi per intendersi, il marchingegno narrativo inanellato nelle strutture strofiche seriali e pentastiche di Fabrica, concatenate da nessi narrativi, semantici e figurali, restituisce in tutta la sua evidenza una congrua rappresentazione dello scenario e del paesaggio della fabbrica, con i suoi mezzi, le sue merci, e i suoi attori.
     Costruito secondo uno schema rappresentativo che anche visivamente riproduce e mima la catena di montaggio, Fabrica porta a compimento un processo di dislocazione e sovrapposizione al contempo, realistico e figurale, tipico di Franzin. Si tratta di una vera e propria capacità di trasporre, di travasare e di accostare, attraverso similitudini e analogie, sfere e campi semantici e tematici: come accadrà anche in seguito, in una plaquette uscita di recente, per la libera associazione di senso suggerita dal richiamo omofonico favorito dall’anafora (sempre…sempre) e dalla rimalmezzo (eucarestia…carestia):
“Pan e paròe // l’é senpre stat ‘l mé past, / ‘a mé eucarestia; senpre / l’é stat carestia de schèi / tee mé scassèe, caro Dio” [Pane e parole // sono sempre state il mio pasto, / la mia eucaristia; sempre / è stata carestia di soldi / nella mia vita, caro Dio]
(Siénzhio e orazhión, [Silenzio e preghiera], prefaz. di Franca Grisoni, Edizioni Prioritarie, Motta di Livenza, 2010);
o come nei versi che appaiono tradotti per una edizione slovena e ambientati alla Stazione di Topolò:
“Fra ‘pière’ e ‘paròe’ // de diverso l’é sol dó vocài. // Qua, da un a cheàltro nome / ‘e stesse che l’à ‘a paròea ‘amór” [Fra ‘pietre’ e ‘parole’ // di diverso ci sono solo due vocali. // Qui, da uno all’altro nome / le stesse che contiene la parola ‘amore].
(Rožni venec iz tišine [Rosario de siénzhi], a cura di Michele Obit, traduzione in sloveno di Marko Kravos, Ed. Koderjana, Stazione di Topolò, 2010);
o, ancora, come accadeva per l’immagine della sigaretta tenuta stretta dalle dita della mano paterna e che per analogia gli ricorda la penna che il facitore di versi, Franzin, tiene tra i polpastrelli (Cfr. Pare, op. cit.), o il ricordo del muschio essiccato che per associazione rinvia all’episodio in cui la madre fu vittima del fuoco (Cfr. Mus.cio, op. cit.) come ben evidenzia nel suo intervento Edoardo Zuccato, che così rileva:
«[…] l’ampiezza dello spettro della scrittura di Franzin, che si intuisce anche solo osservando con attenzione il susseguirsi delle sezioni di cui si compone il libro. Il movimento generale, infatti, è un allargamento progressivo della prospettiva, da fatti personali a eventi collettivi, dalla poesia lirica amorosa a quella narrativa, dall’autoanalisi alle storie familiari e ai ritratti di personaggi. Ѐ curioso che proprio in dialetto si trovi questa varietà in un singolo autore con più frequenza di quanto non accada in italiano, in cui i poeti tendono quasi senza eccezione a “specializzarsi” in un genere, in un modo, uno stile solo».
     In Fabrica, quello che altrove era allargamento progressivo di prospettiva, diviene progressiva focalizzazione e restringimento: se negli altri libri la rappresentazione prevedeva un contesto di paesaggio, o una ambientazione da esterno, qui di contro s’incunea all’interno, si avvita a sè, circoscritto dentro i muri del capannone della ditta, legato al nastro trasportatore della pressa, nella registrazione dei rumori meccanici e nelle tonalità dei grigi che si oppongono ai suoni e ai colori di natura. Muta la vicenda e muta il paesaggio. Muta la scena e muta la prosodia.  Persino il ritmo si fa cadenzato da sequenze ora dattiliche o percussive, ora serialmente iterative e ossessive, come e specie nella seconda e martellante sezione. Persino il lessico, davvero congruo a dire di una realtà di meccanica e di merci, offre al dialetto autoctono che qualcuno vorrebbe teso a una fissità inalterabile e impossibile, una sponda di rinnovamento e apertura attraverso il ricorso a linguaggi specifici e settoriali, tale da accorciare le distanze dell’autore dal coté più linguisticamente innovativo, contaminato e sperimentale della sua area linguistica: Calzavara, Cepollaro, Zanotto e Zanzotto. Tutta la terminologia tecnica e l’armamentario, in una parola, la strumentazione della realtà della fabbrica, entra d’autorità con il suo frasario nei versi di Franzin (chi volesse, potrà leggere alcune argomentazioni che accompagnarono l’anteprima del libro in: M. Cohen, Fabio Franzin. La franca lingua di ‘Fabrica’, «Atelier», anno XIV, n.53, marzo 2009).
     Accanto alle macchine, al loro svolgimento seriale e ripetitivo, sono le vite di uomini e donne, parvenze di una umanità degradata di cui il nostro sa tratteggiare dinamiche sociali e aspirazioni, solidarietà e cinismo, travolta da un meccanismo-istinto di sopravvivenza, di delazione o sopraffazione. Con Fabrica, un’opera complessa, non limitata alla naturalistica nudità della rappresentazione, bensì innervata a una complessità di problematiche e di rapporti interclassisti e interetnici, che non si esimono da un confronto dialettico con il presente, con le questioni del lavoro precario, le problematiche relative all’immigrazione, alla convivenza tra lingue e culture differenti, alla tolleranza e al pregiudizio razzista. Fabrica si apre e si chiude indagando il circospetto mondo del lavoro, fissato da tempi di produzione, pause e orari, circoscritto da pareti di grigio cemento modulare.
 
     III.  I versi di Co’e man monche, che qui il lettore potrà leggere, derivano le proprie premesse e le precipitano quasi dirottamente da Fabrica. Ѐ possibile intendere questa nuova suite in versi dell’autore, come l’emanazione o la possibile seconda parte del libro edito nel 2009.
     In realtà, a ben leggere, la ricognizione cade ora sui luoghi e sulle persone, verrebbe da dire, le vittime, del dopo la fabbrica; il titolo, di per sé, anticipa, condensa ed enuncia programmaticamente un testo che ha nei motivi dell’urgenza, dell’angoscia per il futuro, della allure apocalittica il suo nervo scoperto. Dopo la fabbrica, come dire di un inaspettato tramonto-tsunami a Nord-Est; come dire della fine di un sogno consumistico-cementizio, come dire di una grande depressione economica abbattutasi sull’Occidente industrializzato, sul Giappone, e più di mezzo mondo.
     Ma l’orrore è nel paesaggio, impresso nel vuoto dei capannoni dismessi, nei lunghi inquieti testi deambulatori senza meta, senza orari, per le vie del paese o della città; gli stessi testi che l’irruzione del discorso libero diretto ha resi più franti, sincopati, desultori, mentre le parole e i toni hanno perso l’elemento elegiaco delle prove iniziali. Co’e man monche, registra i sentimenti e il dolore di un mondo che non tiene più, tra elementi di critica politica e sociale, tra bollette da pagare, mutui, e stipendi che sono finiti.
     Lo choc della chiusura della fabbrica, il licenziamento, l’agonia della cassaintegrazione, il senso di colpa per quello stare inermi co’e man in man, solcano la tetra e aprospettica scena presente. Alla serialità delle strofe pentastiche di Fabrica, succedono ora strutture variate e variabili, in prevalenza strofe in quartine, o sestine, a voler quasi tentare di arginare l’inarginabile degli eventi. Alla galleria di personaggi memorabili di Fabrica, subentra il freddo di ombre spesso senza nome, inghiottite nel buio, scorte traslocare frettolosamente, scorte rinunciare a ogni sogno, in una tragedia tutta contemporanea che ha per nome Mòbii/Mobiità, mobilità che occupa lo spazio siderale e drammaticamente epocale di una condizione. Le due sezioni conclusive, El corpo dea crisi, Prose del tricoeór, declinano ulteriormente tra sfacelo fisico, malattia corporale e morale, la situazione in atto, spalmata sull’ansia presente. Una grandinata distruttiva ha accolto e accompagnato la chiusura della fabbrica e la fine del lavoro. Poi una abbondante nevicata ha coperto il mondo delle merci, le cose, e gli uomini. Come nel progetto, di un freddo perenne.
     Con questo nuovo maturo e sofferto lavoro in versi, Fabio Franzin ci restituisce pienamente, consapevolmente, la testimonianza in presa diretta, anche l’urgenza, o quasi un testamento, e una attestazione della poesia che si posa con il suo carico di umanità, sulla malandata scena contemporanea. D’ora in poi, non si potrà non tenerne conto, non ritrovarsi in questi versi di delusioni, di aspettative mortificate, di ansia sul presente, di impossibilità di futuro. Di vera, concreta, onesta poesia.

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