La divisione della gioia
Italo Testa 2010, 100 p., brossura Transeuropa (collana Nuova poetica) |
di Rosa Pierno
Che il paesaggio sia natura a cui l’uomo ha impresso le proprie forme e che, per traslazione, l’ambiente con presenze industriali reclami una diversa sistemazione categoriale, non estetica, anche se comunque di natura percettiva, sono le contrapposte pareti all’interno delle quali l’ultima prova poetica di Italo Testa “La divisione della gioia”, Transeuropa Edizioni, 2010, batte come un pendolo perenne. La propensione a intravedere pur anche in ambienti degradati, dominati dalle torri di scarico dei gas di combustione e dei carroponti il rosa acido dell’alba o le foglie cadute sui tetti ondulanti è la sfida che Italo accoglie, poiché terreno di progettualità, ambito da cui ripartire per riflettere e realizzare. E tutti conosciamo il portato e il valore di una tale posizione nell’ambito del dibattito contemporaneo, costituendo, pur nella sua intricatissima complessità, il cono dell’imbuto di qualsiasi riflessione sul nostro stare al mondo.
Italo Testa è capace di una discesa negli inferi delle nostre periferie più digradate, ove i quartieri si propagano dalle industrie come fossero i suoi tentacoli, non solo per esperire uno degli ambienti umani più ostili, ma soprattutto per cogliere quali siano gli elementi recuperabili, su cui ancora si possa fare appiglio per risalire la china, per individuare presenze naturali e modalità di recupero, al di fuori di qualsiasi atteggiamento vittimistico e staticamente affossato nella percezione del proprio malessere. Forse, questa, una delle espressioni poetiche più vitalistiche e propositive che ci sia capitato di leggere. Rigenerative, poiché il progetto si realizza concretamente a partire dalla propria elaborazione sensoriale e dalla propria capacità riflessiva: “e con la luce che irrompe sui viali / sciama il disgusto, e può avvicinarsi / il tuo fiato a quello degli altri / che affilano i talloni contro i pali / uguali, sempre, sotto queste spoglie alle poiane in agguato tra le valli”. Imperioso richiamo alla necessità di non allontanarsi mai da un ambiente naturale, di cui persino poche avvisaglie, come lo sterno che s’abbassa alle fermate dell’autobus, è in grado di riportarci, quasi divenisse simbolo universale, a un’esigenza che non dobbiamo mai dismettere o svendere, reclamando a chiare lettere l’impossibilità di privarci della natura, di un ambiente in cui il nostro rapporto con essa non sia rescisso, non divenga abbietto rinunciare.
La denuncia di Italo Testa è tal punto urlante, che egli in preda a una visionarietà edificatrice scorge pecore nelle cisterne bianche, vede grano e papaveri intorno ai pilastri di cemento e laghi nelle pozze d’acqua dietro alle betoniere. D’altronde, quando “ fra i tralicci / una bava di luce snoda / filamenti e trame vegetali” non è lontano dalle ricerche più innovative che si conducono in architettura per individuare forme costruttive derivate dalle forme naturali, nel tentativo di rinsaldare il legame con quella natura di cui facciamo parte, con cui non possiamo recidere il cordone se non cadendo in una condizione di malessere. Tant’è che Testa effettua una dichiarazione di appartenenza al mondo animale: “immune al mondo, freddo e ostile / striscio nel buio senza meta / con l’avambraccio irto di squame / uncino il fianco di una preda” che non consente irresponsabili vie di fuga.
In ogni caso, se esiste un problema di sguardo nella poesia, in quanto modalità di ricostruzione per non ricevere nulla di già incrostato, per eliminare un senso che non ci appartiene e ricominciare utilizzando le parole come moneta che non sia fuori corso, che abbia un valore di scambio concreto nella nostra esistenza, consentendoci il ritorno a un’osservazione della realtà da cui trarre nuove direzioni progettuali, Italo Testa ci fornisce una poesia in cui le parole come lievito danno luogo all’attivazione di un processo, che coincide con il farsi stesso della poesia: “L’armatura scoperta del cemento / e il groviglio rugginoso dei tiranti / come un reticolo di vene monche /slacciate nell’aria / mandava un lampo intermittente / nel crepuscolo di giugno, sui vetri / del treno un’efflorescenza di sale abbagliava il mio male”. Col che viene a concludersi la dimostrazione di quanto persino la propria individualità (riconoscimento dell’io) passi per il riconoscimento dell’ineludibilità della natura, del suo imprescindibile concorso nella definizione del sè e abbia come strumento fondante la poesia: progetto di vita e progetto dello stare al mondo.
“La divisione della gioia” è ricerca effettuata nella profondità del proprio essere attraverso la relazione con l’altro e con le cose, condotta attraverso lo sguardo, in una discesa senza sconti e senza risparmio, mostrandoci quanto nulla della nostra esistenza sia autenticamente esprimibile senza il loro concorso: “o nella luce artificiale / di un neon credere che la notte / non sia notte, il verde non scintilli / immune da ogni nostro sguardo, / le merci esposte nel silenzio / di una vetrina siano lo sfondo / del nostro tranquillo sovrastare, / del dominio saldo della specie:”, il che è lo stesso che dire che sono le parole, e le rinnovate parole, che tali elementi mettono in connessione, a creare, di fatto, ciò che siamo, l’unico modo che abbiamo di essere, di condividere.
La divisione della gioia
di Italo Testa
(estratti )
da: Cantieri (sezione I)
romea, mattina
qui ho appreso la luce sciolta sugli scafi al mattino
il bordo incandescente e l’anima buia dei rami,
qui ho imparato a dissipare gli occhi, la bocca, il fiato,
a calarmi all’alba dentro a un vestito di brina,
qui ho vegliato sui fossi le canne inanimate nel bianco
la frontalità ignara di pioppi eretti come ceri,
qui ho imparato a distinguere nel manto uniforme del giorno
l’intonaco di case insaponate nella nebbia,
qui ho perduto nell’acqua il tuo pegno raschiato dal cuore
e in un pomeriggio ignaro ho confuso i corpi e i volti,
qui ho consumato gli occhi sul volto lucente del mondo,
qui sull’argine alto mi sono inumato nel freddo.
Da: La divisione della gioia (sezione II)
Un luogo qualunque
…o nella luce artificiale
di un neon credere che la notte
non sia notte, il verde non scintilli
immune da ogni nostro sguardo,
le merci esposte nel silenzio
di una vetrina siano lo sfondo
del nostro tranquillo sovrastare,
del dominio saldo della specie:
e quando nelle insegne luminose
che ritmano i grani dell’asfalto
hai visto il segno certo, il richiamo
ribattuto da ogni nostro passo,
o in una vetrina, controluce
hai scorto sul ripiano le pose,
le ossa spigolose del suo corpo
segnarti senza più un riparo,
come il giorno che stesa sul letto
ti sei girata, tranquilla, e hai visto
le grate che spartivano il vetro,
e alzandoti di scatto hai detto
che non sarebbe successo niente,
che tutto era ancora intatto
e mentre ti guardavo in silenzio
sei sparita nell’angolo cieco:
allora ho visto che nulla torna,
che la fragilità ci insidia
dall’interno, dentro le giunture,
s’insinua nelle vene, riveste
la piega opaca dei discorsi,
allora, chiamandoti in disparte
a fianco del letto avrei atteso,
la pelle a toccare il marmo freddo,
che tutto fosse tornato a posto,
il braccio nascosto tra le gambe,
la luce sulle mie cosce nude,
la mano a coprirti il pube:»
da: Delta (sezione III)
lo stacco
saltavo, ancora
inarcavo la schiena
d’un soffio mi levavo
sull’asta tesa
rovesciando la testa
nella luce affondavo
fermo a mezz’aria
con un colpo di ciglia
recidevo i contorni
la pista, i blocchi
dallo sfondo acceso
riversato sugli occhi
nell’aria tersa
eri ferma, tra tanti
sulla terra battuta
le tue cosce lucenti
e tornite dal sole
nel mattino di vita
che il mondo ci offriva
tu mi guardavi scendere
cadere sul tappeto
riaprire gli occhi
volgerli in alto, al cielo
senza vedere niente
per un momento
poi, a poco a poco i tigli
gli spalti in penombra
i tuoi fermagli
brillanti nei capelli
gli altri alle tue spalle
così lontani
dove eravate stati
in quell’istante cieco
dopo lo stacco
e la torsione in volo
dove sarete quando
cadrò senza arrestarmi
sul telo verde
dove mi attenderai
con il tuo sguardo aperto
saprai aspettarmi?
Italo Testa è poeta, saggista e traduttore. Ha pubblicato la silloge Luce d’ailanto (in Decimo quaderno di poesia italiana, Marcos y Marcos, 2010), l’e-book Non ero io (gammm.org, 2010), il concept canti ostili (Lietocolle, 2007), la raccolta Biometrie (Manni, 2005) e il poemetto Gli aspri inganni (Lietocolle, 2004).
Sue poesie sono state tradotte in inglese, francese, spagnolo e tedesco. Autore di saggi sul pensiero contemporaneo, è co-direttore della rivista di poesia, arti e scritture «L’Ulisse».
Credo che il 2010 ci abbia regalto un discreto numero di buoni testi e questo dovrebbe farci ben sperare.
Tra le librerie che hanno la pretesa di riservare una benchè minima attenzione alla poesia il libro si deve trovare, transeuropa è distribuito dallo stesso gruppo delle librerie feltrinelli : pde distribuzioni…ma questa è un’altra storia
la casa editrice…non la conosco
si trova il libro o va richiesto direttamente alla transeuropa?
.grazie .aggiungo ai preferiti