Memoria del chiuso mondo Eugenio De Signoribus 2002, 48 p. Quodlibet (collana Quodlibet) |
di Andrea Cortellessa
La Dialettica tra utopia di un Aperto e condanna al Chiuso è il diagramma psichico del poeta di Cupra Marittima.
«Credo che la poesia non sia solo memoria e malinconia, ma anche presentimento…, un mare di emozioni e percezioni, davanti al quale il testimone è nudo… il linguaggio poetico è il tessuto che cresce su di lui; è la sua veste». Traduco dal francese le risposte di Eugenio De Signoribus a Martin Rueff, sul numero 109 della rivista «Po&sie» (nelle quasi seicento pagine di questo fascicolo e del seguente si trova ?in attesa di quella di Enrico Testa, nella «bianca» Einaudi ?la più affidabile antologia della poesia italiana contemporanea; che provenga da Parigi la dice lunga sull’umorale sciattezza, e/o clientelare tendenziosità, delle altre che macchiano l’ultimo biennio: accuratamente evitando di far posto, per esempio, proprio al nostro autore). qui che si sono lette per la prima volta, con emozione, le sette lasse di Netpasso del millennio che inaugurano il suo ultimo Ronda dei conversi (Garzanti «Poesia», pp. 140, € 17,50). In quella risposta si sintetizzano non solo temi e posture della sua produzione più recente ? quella che l’ha fatto definire a Giorgio Agamben «il più grande poeta civile della sua generazione» ?, ma anche ossessioni che tramano sin dall’inizio, sotterranee o subacquee, il percorso del romito di Cupra Marittima Libro fondamentale, questo (ancorché meno compatto dei precedenti Istmi e chiuse, 1996, e Principio del giorno, 2000: in barba agli antologizzatori, fra i capolavori degli anni novanta): proprio nel riallacciare il registro corale dei «restanti umani» a un piano ‘privato’, fortemente psichico, da ultimo dissimulato sin quasi all’invisibilità. Non è mera «memoria e malinconia» quella della splendida quinta sezione, Stazioni nella vita di una ronda la quale non trova la sua unità nella fattura della «veste» (vi si alternano, così definiti dall’autore, «versi,nonversi e quasiprose») quanto nella sequenza ‘biografica’: dalla nascita «al silenzio / d’una bellica soffitta» allo sguardo che «abbrivida» nello spingersi Oltre passando per immagini di scuola, vocazioni spettrali (la nonna che «si cavava l’occhio di vetro e lo poggiava nella trasparenza del bicchiere sul comodino»), persino amorosi Deliri?Idilli, migrazioni e militanze, purgatoriali Ricordi, tracce, infine analitiche Identificazioni… Autobiografia, sì: non fosse che «Io» è un Evelylnan.
Per questo, «Io» si declina come ronda: soggetto appunto plurale, che si caratterizza per un’inquietudine motoria ? cioè linguistica ? la quale non fa altro che muoversi sul posto (sempre girando, cioè, attorno allo stesso luogo). I Conversi sono coloro che, anziché stare, giungono; cioè i provenienti: «un filo sottile l’esistenza ne lega / di coscienza e vasta pietà». Torna insomma il grande tema di Principio del giorno. degli spatriati da tutte le guerre e tutte le carestie, che incutono ?rrornflcivife?fortezza occidentale» di Istmi e chiuse. Di fronte all’aperto di un mondo esploso, non più ricomponibile, si rinserra nevrotico il «civile occidentale»: «nel fortino abbarbicato», nel «rinchiuso formicaio» del suo «chiuso mondo». Sono versi, questi ultimi, della plaquette Memoria del chiuso
mondo, appunto, scritta in una notte d’angoscia del 2001 (ai tempi della Giustizia infinita sull’Afghanistan) e pubblicata l’anno seguente da Quodlibet. Episodio singolare, che avevo sottovalutato anch’io come un ‘a parte’ (in effetti non figura nella silloge presente) ma che si fa leggere, ora, in tutt’altra luce. Quel rimpicciolirsi del tragico (nella cantilena di ottonari, nei diminutivi a pioggia), dolente memoria delle Ariette del Golfo di Fortini, giustapponeva alla tragedia universale un ostinato infantilismo, quasi uno spettrale pascolismo di ritorno; ma era riduzione necessaria: i «cento occhi bambini» avevano davvero ? scriveva Andrea Cavalletti ? un «carattere dialettico»: nello «svelare il contegno dell’assassino».
Cominciava a venire in luce quanto è sotteso alla parabola di De Signoribus ? e che ora Ronda dei conversi mostra più visibilmente. Basta tornare alla prima delle Stazioni, Di qua dove la nascita alla «lingua» è accompagnata da uno sporgersi a scrutare (o «smicciare») «l’altro mondo» ?non quello di qua, appunto ? «per una bassa feritoia»: e il «fuori» appare, «in ginocchio» (come in preghiera, cioè), «come un suolo straniero>. Mentre alla fine del libro «a fatica s’arriva al lucernario / per doversene allontanare». È come se dalla finestrella di un Finale di partita si scorgesse, a sorpresa, una qualche Terra Promessa; per poi però dover distogliere gli occhi da tanta luce. Proprio la dialettica fra l’utopia di un aperto e la condanna irredimibile al chiuso è il vero diagramma psichico di questa poesia: «l’uno, l’esposto da sé’>, si claustra nella ‘chiusa’ caratteriale del »pudore I…) che un ego timido e fiero / m’ha incarnato come a protezione». Quest’»anima reclusa» vive tale <‘interiore tenda» come «sudario d’eternopresente»: come sacco soffocante, cioè (straziante l’immagine del «cucito nell’interno sé»), che isola dagli altri: dal noi, appunto, che solo può salvare. La concentrazione (la ronda, moto che circonda) ?esistenziale, stilistica, etica ? non è altro, infine, che «annicchiarsi» in «infantile abito»: quello cui si è condannati dalla «madre>’. Non stupisce che il poeta sogni l’Uscita in una luce franca, frontale: nel piano splendore delle «parole smante» (cioè sprotette, inermi’) di una «neutrale lingua». Ma sa con certezza, altresì, che la sua scena non può che restare filospinata: perché è il ‘<male» ?individuale, storico, cosmico ? che «stecca tutti gli accenti / sballa le riconnesse rime / sgobba il vocabolo reale». Sa bene, cioè, che la «lingua di nostalgia» non può che «deviarla». È questo il suo sacrificio: e noi ? tanto più deboli, tanto più facili ? non possiamo che essergliene grati.
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