Anche per le poesie vale la regola delle polpette: per farle bene ci vuole tempo, e poi se son venute bene durano. — Valentino Zeichen

Parola ai Poeti: Gianni Ruscio

di Redazione


Qual è lo “stato di salute” della poesia in Italia? E quello dei poeti?

Di solito ci si chiede quale sia lo stato di salute di qualcosa quando questo qualcosa sia definito seppur indefinibile, e quindi, quando questo qualcosa esista. Io credo che la poesia in italia esista solo in quanto stato di uno stato che si autoassiste: ma parlare di uno stato di cose che è già stato, che è appunto già esistito una volta, e che quindi non è stato mai, mi porta alla domanda della domanda, ovvero, si può dire che questo condizione che permette a qualcosa di sussistere, esista? Non ontologicamente, ma praticamente, la questione secondo me perciò è un’altra: esiste la poesia in italia? E se si, da quali poteri politci deve sfuggire per potersi rendere manifesta? Certo, si rende manifesta in quel sottobosco di scrittori che la praticano, in cui io mi riconosco, ma per me questa manifestazione è sintomo di un declino al quale non si può sfuggire, e allora io mi riconosco un poeta solo nell’accezione che mi descrive come non-poeta. Io sono un non-poeta, voi sapreste rispondermi quale sia lo stato di salute di un non-qualcosa? La merda che ci circonda non è mai stata così poco nutriente, e da questo non-nutrimento io credo si debba, per necessità interiore e sociale, partire. Così, personalmente, mi ricaccio nell’abbandono e nella sperimentazione sonora, che è l’unica via di accesso ad un significato che non può più essere, perché sono andati perduti gli oggetti ai quali si riferisce. Io sono un soggetto-oggetto, uno strumento, ed è in questo modo che vivo la mia vita, la poesia della mia vita, cercando disperatamente di capire quale sia il desiderio, l’abbandono della volontà, la passione che muove il mio deserto, in cerca di un deserto che sia il deserto dell’altro in cui riconoscermi e nel quale creare o cercare di rendere informe tutto ciò che c’è di codificato, come mosso da una forza invisibile che mi chiede a sua volta: si può ripartire dal verbo e dall’afonè per cercare uno stato comune in cui poter rendere non-salute al nostro mostro più terribile, ossia, l’avanguardia, l’emancipazione dal nulla, la perdita del vuoto e il relativo dubbio che dovrebbe essere fondamento di ogni atto? Io non lo so, ma qualcosa sto cercando, il guaio è, che nel mio non voler sapere, questo qualcosa ha trovato me, ed io non posso più liberarmene. La poesia ha attecchito dentro e sopra di me il mio stato di salute, ed io lo sento come quello di un  perseguitato; perseguitato da quel famoso qualcosa che si può comunicare solo senza comunicarlo, diventandolo. Così alla fine io sono diventato il porno di questa voglia della voglia di una salute che non solo non è , ma che uccide il poeta contemporaneo, fagocitato dal suo bisogno quotidiano di trovare un senso a qualcosa che nella relazione con gli altri non può trovare, e che quindi lo isola, non nel senso “canonico” del termine, ma che lo isola persino da se stesso, facendo si che questo sia l’unico modo di soddisfare il proprio respiro, la propria fame e la propria sete, acquietata da un amore che rende solo chi lo prova, e lo prova nel più profondo antro della sua superficie inagibile. Quella della creazione impossibile. Bisogna fare l’impossibile…

 

Quando hai pubblicato il tuo primo libro e come hai capito che era il momento giusto? Come hai scelto con chi pubblicare? Cosa ti aspettavi? Cosa ti ha entusiasmato e cosa ti ha deluso?

Quando ho pubblicato il mio primo libro non ero ancora nato, l’ho pubblicato con un editore a pagamento che solo ora mi rendo conto di quanto mi abbia fatto del male. Mi sono fatto del male, ma ho una buona scusa: avevo l’esigenza di pubblicare non per me, ma per una persona che non c’è più, e alla quale nella mia immaginazione avrei reso giustizia solo se avessi fatto per tempo quello che la mia Persona smarrita avrebbe fatto per me. È così che ho decretato il mio tempo giusto, se di tempo e di giusto si può parlare. Quindi non ho scelto, ma mi sono fatto scegliere, ahimé. Proprio per questo non mi aspettavo nulla, visto che le mie esigenze erano di tutt’altra natura, e devo dire che nonostante tutto non mi ha affatto entusiasmato vedere il mio nome sulla copertina di un libro, ma anzi, mi ha deluso. Un’animo sensibile non può possedere nulla, figuriamoci possedere un proprio libro, in tutti i sensi.

 

Se tu fossi un editore cosa manterresti e cosa cambieresti dell’editoria poetica italiana? Cosa si aspettano i poeti dagli editori?

Dell’editoria italiana cambierei tutto. Perché troppi scandali, almeno per me lo sono stati, hanno fatto capolino laddove dovrebbe esserci pulizia, onestà e purezza.
Tutto è diventato commerciabile. Non esiste più la cura e la terapia del libro. Gli editori italiani sono colpevoli di questo grande dramma, e lo sono consapevolmente colpevoli. Io da un editore mi aspetto che si interessi al mio caso, che ci si confronti sul tema poesia, che si cerchi di dare spazio e tempo a coloro che hanno impeganto loro stessi e la loro esistenza inutile verso uno scopo più alto: quello della condivisione delle proprie emozioni. Poi è vero, la poesia è fatta di codici estetici, di modelli, ecc. ma questo non vuol dire che dalla mancanza di ciò non possa nascere una riscoperta e un mettersi in gioco del tutto inaspettato, sia umanamente, che storicamente. Ciò che spesso penso è: che palle! Basta. Voglio la possibilità di provarmi e di provarci, e di ascoltare. Un editore raramente ti ascolta, e questo io anelo con tutte le mie forze, che vadano al diavolo, che brucino tutti, perché vorrebbe significare che finalmente qualcuno ha iniziato a disimparare, a decomporre, a voler ricominciare tutto “da tre”.

 

La poesia di domani troverà sempre maggiore respiro nel web o starà in fondo all’ultimo scaffale delle grandi librerie dei centri commerciali? Qual è il maggior vantaggio di internet? E il peggior rischio?

Io credo che siano auspicabili entrambe le cose. L’una prendendo vita dalla morte dell’altra. Un disconoscimento dell’identità del libro. Dare una forma diversa, o lasciare che si formi da se un altro mezzo. E internet è l’emblema di questo processo, anche se non credo che si possa campare di questo. Il peggior rischio è quello di morire sotto un ponte, da clochard, un rischio che io ho messo in conto e che devo dire mi alletta e mi affranza più di qualsiasi altra cosa.

 

Pensi che attorno alla poesia – e all’arte in genere – si possa costruire una comunità critica, una rete sempre più competente e attenta, in grado di giudicare di volta in volta il valore di un prodotto culturale? Quale dovrebbe essere il ruolo della critica e dei critici rispetto alla poesia ed alla comunità alla quale essa si rivolge?

Esatto. È proprio questo il punto. Il valore di un prodotto culturale, saper fare critica, intesa nel senso natìo del termine. Questo dovrebbe essere il ruolo del critico, non essere attaccato ad inutili nostalgie che tutti abbiamo. Il coraggio di guardare avanti. È questo che manca. Perché davanti, appunto parlando di cultura, almeno in italia, non c’è nulla. I prodotti culturali di oggi… ma che cosa sono? Dico, basta guardarsi un attimo in giro, anche se io ho smesso di farlo… e forse è da questo che non dovrei scappare. Forse è l’unico modo di creare una comunità sempre più competente e attenta, ma non competente di poesia, ma di vita.
Competente dell’incompetenza. Il ruolo di un critico dovrebbe essere questo appunto, saper cogliere le esigenze che stanno dietro a qualsiasi operazione artistica. Inutile parlare della comunità alla quale essa si rivolge, perché quella comunità in realtà molto spesso rischia di diventare un elite, e da quella elite quasi sempre ci si ritrova confinati. Certo è un modo per difendersi, ma è anche la denuncia del fatto che non si sa più cosa vogliano dire parole come “rivolgersi”, “comunione” ecc. la poesia è l’unica realtà, insieme a poche altre, che sfugge all’assoggettazione, che rende liberi, e che quindi può creare le condizioni per far sì che un essere umano si dedichi alla cura della propria individualità (e non del proprio individualismo), mettendo al servizio di tutti qualcosa che è in tutti, ma che nessuno sa più riconoscere, perché l’uomo, pur essendo attratto dal migliore, dal più semplice, quasi mai sa autogestire queste potenzialià, finendo sempre per cadere nei buchi più neri. Per me il ruolo del critico dovrebbe essere questo. Non più legnosi giudizi su questo o quell’altro, ma saper mettere in comune delle cose, da poter risultare accessibili. Per fare questo, purtroppo, le persone vanno educate a volersi bene, e quindi a voler bene alle cose che di prezioso “hanno”, tra queste cose vi è la poesia, che è partigiana, e che non morirà mai. Un prodotto culturale presentato come resistenza. I critici dovrebbero essere dei condottieri della poesia, in breve, e non altro.

 

Il canone è un limite di cui bisognerebbe fare a meno o uno strumento indispensabile? Pensi che nell’attraversamento della tradizione debba prevalere il rispetto delle regole o il loro provocatorio scardinamento?

Mi rifiuto di rispondere alla domanda. Così risponderei. Ma non sono così saccente, ne così cretino. La mia umiltà mi impone di venire scalzo nella tradizione, ma di non restare scalzo anche quando ci si avvicina al presente. Certo, il modello di qualcosa serve per porre dei limti, e quei limiti sono fatti per essere scardinati e giungere alla codifica di nuovi limiti da scardinare, in un processo dialogico, e non costrittivo, ottuso, o che non tiene in considerazione l’altro, il diverso. Da questo solo io credo si può giungere ad uno scardinamento intelligente di quei limiti. Credete che sia stato abbastanza esaustivo? Scusate la retotica ma, a volte, sono solo le cose ad esserlo, e io non c’entro niente.

 

In un paese come il nostro che ruolo dovrebbe avere un Ministro della Cultura? Quali sono, a tuo avviso, i modi che andrebbero adottati per promuovere la buona Letteratura e, in particolare, la buona poesia?

La buona letteratura, la buona poesia… ma che vuol dire? Io credo solo nel capolavoro. E ognuno solo può essere il capolavoro di se stesso, entrando in ciò che fa sapendo che un giorno sopraggiungerà la morte, sacrificandosi per questo, potendolo rinnegare, magari, pur non perdendo la propria in-coerenza. Tutto nasce dal suo opposto. Dateci buona poesia, sapremo riconoscere da noi cosa è arte e cosa no. Cosa è di per se stesso, e cosa no. In breve, buona poesia non è buono. Un ministro della cultura, infatti, non dovrebbe pensare più al mediocre, ma all’eccelso, e l’eccelso è eccelso, e vuole essere talmente tanto lasciato in pace, che può essere solo accettato da tutti. Non nello snaturamento di sé, ma per quello che è e basta, quindi per quello a cui non dovrebbe pensare, per quello che lo snaturi. So che potrebbe sembrare che queste risposte non abbiano senso. Ma è proprio così. Io mi parlo addosso, perché è l’unioco modo irrazionalmente logico che ho per rispondere a queste domande. Utili ma scontate. Affatto banali, se si pensa al ruolo dell’intellettuale d’oggi (idioti di domani). Io scrivo poesia. Io la scrivo per i deboli. Non mi interessa nient’altro. Questo farei se fossi Ministro. Abolirei il ministero della cultura, e ne costituirei uno della merda. Se rimarrà in giro qualche mosca bianca, allora avrà voluto significare che non esiste la buona poesia, ma solo la poesia. Che non esiste la buona letteratura, ma solo la letteratura. Incomprensibili entrambe, anche per il più grande genio. Anzi, soprattutto per lui.

 

Quali sono i fattori che più influiscono – positivamente e negativamente – sull’educazione poetica di una nazione? Dove credi che vi sia più bisogno di agire per una maggiore e migliore diffusione della cultura poetica? Chi dovrebbe farlo e come?

I fattori che più influiscono sono sempre uno: la politica. Io credo bisognerebbe intervenire tanto per le strade quanto per i cieli. Dovremmo farlo noi, prendendo se stessi, le proprie gambe, la propria mente, la propria pancia, e andando in giro a regalare se stessi nel momento della poesia.

 

Il poeta è un cittadino o un apolide? Quali responsabilità ha verso il suo pubblico? Quali comportamenti potrebbero essere importanti?

Il poeta, il poeta. Uffa. Che noia. Si parla di una cosa importante, finalmente. Quindi il poeta è ciò che decide di essere, si costruisce per cause a lui sconosciute, ma che lo rendono consapevole almeno di una cosa: essere come tutti gli altri, fallibile come ogni altro essere umano, quindi cittadino del mondo, questo si. O un apolide. Che differenza fa?
Responsabilità: le maggiori possibili, le più grandi, quelle che ti schiacciano a terra se vedi che i soprusi vincono sulla pietà. Ha la responsabilità di essere compassionevole nei confronti di coloro per i quali scrive. Ha la responsabilità di non essere in sede quando lo si cerca. L’unico comportamento importante che io vedo è quello di sensibilizzare il mondo a cui arriva, per renderlo cosciente del fatto che il potere tende a toglierci tutto. Il poeta, con il suo dolore, credo possa riuscire ad esprimere questa situazione comune. Essere utile al resto. Essere egli stesso un resto. E far vedere che si può non cadere nei tranelli del buon senso, del buon senso comune intendo, rendendo possibile il fatto che ogni uomo abbia una dignità da difendere, e che questo “ogni uomo” se ne accorga. Essere sempre in “direzione ostinata e contraria”. Rispettare i fragili. Rispettare le minoranze. Imparare ad accogliere il diverso dentro di sé.
Di questa energia è dotata la figura di cui sto parlando. Non attraverso il suo essere dentro un sistema, ma cercando di trovare la religiosità che si interseca in ogni dove, sempre e quando. Senza perché, perché i perché saranno l’ignoto, l’inconscio, e la scoperta di sé. Come?
Per esempio, come faceva De André…

 

Credi più nel valore dell’ispirazione o nella disciplina? Come aspetti che si accenda una scintilla e come la tieni accesa?

Credo nel fatto che esistano due momenti che vanno a braccetto nella vita di un poeta. Quello dell’ispirazione, in cui egli si abbandona a quell’immagine, a quella sensazione, a quelle entità, a quella carne, a quella vita o morte, al quel mistero che lo percorre nel momento dell’istante sacro. Insomma il momento in cui la materia si fa viva e si affaccia al non-io del ricettore. E quello in cui la materia diventa forma. In cui diventa suono, ritmo, atto e gesto creativo, in cui la materia diventa reale, nel suo momento altamente profano, ma essenziale e fondamentale, della perpetuazione di ciò che siamo stati. Ci sarebbero giorni e giorni da dedicare a questa domanda, per vocazione e per evocazione.
Ma so che per alcuni le mie potrebbero sembrare solo seghe mentali, piuttosto che l’unico mododi rendere giustizia ad un argomento così delicato. E quindi di un argomento così delicato, che mi denuda, non parlerò oltre.

 

Scrivi per comunicare un’emozione o un’idea? La poesia ha un messaggio, qualcosa da chiedere o qualcosa da dire?

Un emozione e un idea. La poesia è poesia. Un messaggio è un messaggio. Chiede sempre, come il piccolo principe. Se la si accudisce ti può ridare la vita, e ti può restituire la memoria di tutto quello che è stato, e che sarà sempre, senza esserlo mai più.

 

Cosa pensano della poesia le persone che ami?

La odiano. O la amano. Ma io non so cosa pensano. Perché non parlo di poesia. Mai. E con nessuno. E non so nemmeno cosa ne pensino le persone a me care. Mi limito ad alimentarmi degli effetti eterni che questa ha sopra di essi, effetti a volte anche devastanti, o miracolosi. Ma non saprei dire altro, davvero, mi dispiace molto, chiedo scusa.

 

Sei costretto a dividere il tempo che più volentieri dedicheresti alla poesia con un lavoro che con la poesia ha davvero poco a che fare? Trovi una contraddizione in chi ha la fortuna di scrivere per mestiere? Come vivi la tua condizione?

Questa è una domanda davvero interessante. Io faccio mille lavori per pagarmi gli studi, e alla fine non mi rimane il tempo per studiare. L’anno scorso sono restato fermo e chiuso dentro casa, anche scordandomi di bere e mangiare, per scrivere. Per dedicarmi a me stesso, e quindi alla mia poesia. Credo che l’ispirazione arrivi quando meno te l’aspetti, e che si sussegua in momenti di silenzio molto lunghi, silenzio nel quale la tua esperienza legge a sua volta le informazioni necessarie per metabolizzare ciò che ci rende unici da ciò che ci circonda. Quindi io credo che il rapporto sia davvero molto ambivalente, anche se certamente, dopo quel periodo medioevale, è sicuramente indispensabile isolarsi da tutto e da tutti per fare i conti con i pezzi di anima e corpo che escono fuori da te stesso. Quindi sì, è vero che mi dedicherei solo alla poesia, e il mio lavoro mi priva di questo piacere, ma questo piacere esiste solo perché è differito, solo perché esiste una condizione che gli dà senso.
Io non divido il mio tempo, mi limito a viverlo, e mi riesce anche assai poco bene.
Senza la vita che ti dà, la poesia forse, almeno dentro me, non esisterebbe. Forse esisterebbe nella mia fantasia, ma io e la mia fantasia siamo la stessa cosa, io vedo davvero quello che scrivo, non lo sottopongo a nessun tipo di metamorfosi, a nessun tipo di trasformazione, o trasfigurazione, sono io stesso la trafigurazione, sono io stesso a chiedermi pace.
Credo che sia una contraddizione chi scrive per mestiere perché scrivere per me non è un mestiere, o solo l’unico mestiere. Esiste il rispetto della propria vena. E del proprio sangue e del proprio sperma. Come si fa a venire 139 volte al giorno se non si è sotto eroina? Io vivo la mia condizione come chi sa conservare il gusto di scrivere la notte, ma consapevole che per esempio, domani mattina, (e sono già le 4) dovrò svegliarmi alle cinque per attaccare a lavorare. Infatti mi scusi Ermini, ma non ho il tempo ne di rileggere, ne di sapere cosa ho scritto (che non mi interessa poi tanto, poiché ho scritto nell’improvvisazione totale) e nemmeno il tempo di correggere errori di battitura, mi scusi. La rispetto ed è per questo che il mio questionario ha valore solo se preso per intero per quello che è!

 

Cosa speri per il tuo futuro? E per quello della poesia? Cosa manca e cosa serve alla poesia ed ai poeti oggi?

Per il mio futuro non spero, cerco di osare. Per quello della poesia non spero nulla, solo di poter rimanere suo amico quando mi abbandonerà. La poesia della vita.

 

(Alcuni concetti espressi in questa sede sono riconducibili a Carmelo Bene e José Saramago)

 


 

Gianni Ruscio è nato a Roma il 7 dicembre del 1984. Da giovanissimo è stato ammesso al Conservatorio di Musica “S. Cecilia”. All’età di 15 anni, col suo violino in spalla, ha girato l’europa come artista di strada. Ha lavorato per Greenpeace. Ora è un laureando in Letteratura Musica e Spettacolo all’Università di Roma “La Sapienza”, e segue un corso di formazione in musicoterapia presso la Fedim.
Ha tenuto una performance teatrale scritta e interpretata da lui, con il patrocinio del Comune di Roma, dalla quale ha tratto la sua raccolta di poesie: “Nostra Opera è Mescolare Intimità”.

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