Letture Critiche: Paolo Fichera, ‘Nel respiro’

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Ora il calice è versato,

la luce indietreggia

il seme bianco bevuto carezza

bianca alla pelle resa.

Insepolto al grido il racconto

fiero in archi scinti, screpola

la spada l’angelo-cielo,

fissa la pupilla nella sponda e la schiena

a macchie fissa in marmo

orrore di carità e spoglie lente

la vena erosa, tu sei il germoglio

il figlio caduto nel grembo

in trapasso di battito, mano e vena.

[…]



Così inizia “Nel respiro” di Paolo Fichera. Un libro di 50 pagine scritte, diviso in 3 parti principali nel respiro, nel sangue, nel battito con un’ultima parte in prosa l’urto il flusso la fame il nido. Le prime tre parti sono il nido della stessa poesia, stessa forma, stesso flusso continuo, seppur in ascesa. Un continuo susseguirsi di metafore che fanno nido a densi e fitte voci, a forti dolori, amori, istanti intensi, vivi.

Il tutto è accompagnato da estratti di altre voci, tra cui colpisce uno di Emilio Villa “E non c’è origine prima della fine”. Già questo estratto basterebbe per spalancare la porta al flusso per venire risucchiati poi interamente nel suo vortice.

Un libro intenso, vivo, mite. Comprende l’insieme di quei grandi silenzi della vita, appesi tra l’inizio e la fine. Qui, la fine è verosimilmente inizio e l’inizio è un continuo andare oltre. Vi sono continui dualismi, padre-figlio, morte-vita, dare-ricevere.

Così, troviamo un incipit già colmo, come se l’inizio sapesse già la sua fine. “Ora il calice è versato”: quanto successo è già un calco, impronta ormai fissa sull’anima, fa già “seme”. Così il poeta raccoglie la perdita, quella del padre, conscio dell’impronta che tale perdita avrà nell’anima, non tanto silenziosa quanto una scossa che si forma come gemito dentro e non sa smettere. Troviamo quindi incalzante il susseguirsi di versi intensi, volti e riavvolti in parole chiave come sangue, sepolto, battito, vena, marmo umano, morte, soglia, figlio, padre, figlia, madre. Questa perdita, si fa grido. Il poeta raccoglie dell’abbandono il dettaglio, la forma di questa morte tormentata e dal volto troppo a lungo sospeso. Un capezzale, un figlio ed una figlia, una madre che sorvegliano il padre ed attendono rassegnati la sua fine. Una fine violenta, cruda, amara che disegna il padre non più come un uomo, ma quasi fosse un bambino da nutrire, un uomo arreso alla morte senza la possibilità della lotta, conteso alla fine in un “letto” che “ha sbarre”, un “organo indifeso agli abbracci”.

Così a p. 12


[…]

la figlia bacia la fronte del padre

nell’ultima sera, poi la notte

impone il vento grigio, il fiato aperto

[…]

la mano sul petto del padre

l’incesto bianco di fiato,

il pigiamo aperto, la maglia bianca

definita dalle costole del padre

bassorilievo di marmo umano

e umano silenzio nelle costole

rese alla mano vicine e il battito

della madre è pianto, lacrima

vena primordiale del cuore sua parola

[…]


Qui, la morte diviene vera; il corpo prende la forma del “marmo”, il dolore diviene solco dentro, diviene grido, silenzio. Non vi è più battito e nella mancanza di quel battito, le mani si fanno vicine. La figlia dunque, bacia il padre; un bacio, per il poeta, incestuoso per l’intensità, l’amaro che dentro trascina con peso. Ed il corpo del padre, non sembra neanche corpo, ma è già ossa, “costole […] di marmo umano”. Il poeta quindi non è poeta, ma resta sempre figlio, figlio del dolore, figlio non più sorpreso della morte, ma rassegnato ad essa. Non è solo figlio del padre, ma anche figlio di una madre che nel pianto, raggruma un amore “primordiale del cuore”. Lui, come figlio perde un padre, lei tiene un pianto colmo di disperazione e senso di solitudine.

La poesia qui, diventa sempre più nido di un dolore incomprensibile, un dolore che sempre più percuote, sfibra. Il dolore è un filamento, la “carne scava l’ombra del trapasso”. Ed il figlio qui, prepara il padre al trapasso. L’accompagna come se il poeta-figlio fosse qui il padre, ed il padre fosse un figlio.

Così a p. 14


[…]

ora la casa è un’unica crepa

[…]



Il dolore si fa crepa che assorbe tutta la casa, la sfalda di ogni filamento, la snoda. La casa, priva del padre, non rimane quasi più casa. Diviene roccia, non più nido, più non protegge. Figlia, figlio e madre, sembrano essere tutti legati al padre e singolarmente, sembrano non esistere. Per il poeta-figlio, la mancanza del padre sembra creare una crepa irreparabile non solo nel suo mondo, ma nel mondo di tutti loro, tutti insieme.

I versi che susseguono accompagnano la visione di questo padre “marmo umano” che non restituisce più il gesto “ti prendo la mano che non mi dai”. Un accompagnamento lungo e doloroso, fatto di riti e gesti spirituali e sacri, riti dei vivi per i morti, e riti dei vivi per i vivi; tutta una “devozione di pietre”, come se il poeta nella morte non riconoscesse più il padre, che ora, tra i versi diviene “pietra” o “marmo”. Il padre quindi non è più corpo, ma ossa “nelle carni di Dio”. E vi si mostra dunque tutto il rito di accompagnamento al trapasso, rito che racchiude il perdono, misto a devozione, misto al credo non del figlio, ma del padre.

Così a p. 24

[…]

caro padre, la tua mano,

la vita tessuta come l’incanto

lo sguardo alto, il cielo alto

e quieto, l’armonia del ferro

padre mio, mio compagno

[…]

ti chiudo gli occhi

ora che il nervo

premuto a premere

[…]

vagina e lacrima

il seme umido

il cuore germe di mio figlio

[…]



Arriviamo qui ad un punto cruciale dell’intera raccolta, alla svolta che dà al libro una piega diversa: prima la morte ed ora la nascita “il cuore germe di mio figlio”, qui proclamata ed implorata.

Il figlio dunque, nella morte del padre raccoglie i frutti del seme e diviene padre lui stesso. Vi è dunque l’amore per il padre e l’amore per il figlio. Un rapporto che diviene più stretto ora, perché il figlio stesso è padre e riconosce quindi il valore del sentimento, ora in senso più stretto, più vivo.

Si fa viva, nella nascita, la figura della madre-moglie, portatrice del dono d’un figlio, nel momento più intenso e doloroso come la morte del padre.

La morte dunque coincide con la nascita. Un dualismo densissimo e doloroso, intenso in ogni sua forma. Addirittura il poeta-figlio implora la nascita, quasi per liberarsi della morte.

Il nocciolo diviene ora questo dualismo: la preparazione del padre al trapasso e nel grembo, l’attesa inaspettata del figlio. Un dolore che muta e crea un argine tra pianto per la morte e pianto per la vita. Il flusso si condensa nel ciclo, in un cerchio che pare chiudersi perfetto.

Crudi, tra i versi, i numeri della tomba del padre, un tonfo al cuore che dentro il susseguirsi dei versi, danno l’idea non più marmorea del corpo, ma della sua fine, anzi, della sua liberazione. Pure il poeta qui, diviene quasi liberato dal dolore.

Così a p. 22


[…]

sono fisso nel segno

e non sento il dolore

neanche la terra ora

innesta alla terra il dolore

[…]


Il cuore del poeta-figlio dunque diventa raso, cancella ogni forma di pensiero e muta tutte le voci, le sgroviglia nella confusione dell’anima, cerca di respingerle, abbandonarle, dentro quella “crepa che smuove”. E nel solco che il dolore ha lasciato, il poeta-figlio non vuole più sapere nulla, si sente orfano ed accetta con rassegnazione la perdita, non solo del padre, ma di un compagno, di una presenza divenuta sempre più vicina.

Arriviamo quindi alla seconda parte del libro “nel sangue” dove il poeta incarna la ragione. La metafora qui diviene consapevolezza, a tratti freddezza, ed in altri una preghiera continua, lunga, fitta. Non vi è più dolore, ma consapevolezza. Il poeta-figlio non è né figlio, né padre, è un uomo consapevole che la vita ha inizio e fine, consapevole di ogni sentimento umano che diviene gesto, protezione, casa, famiglia, ma anche sogno, cenere e muschio, urlo.

Ma qui il poeta-figlio incarna il padre, un padre premuroso all’attesa.

Così a p. 35


[…]

resto con te ciglio d’eros in te

ora madre che ogni respiro

[…]

bacio la fronte che sa di candela,

innocente, distolgo la preghiera

assaggio roccia, acqua: convoco i morti

e la loro neve, curva la brace

del bianco, soffoca in braci ogni vena

e calco la mano sul seno

imprimo un’orma di montagna

[…]


Parte questa, introversa, densa, tormentata, dove il poeta-figlio ormai privo del padre si concentra sulla funzione della famiglia, la radice, il sangue. Evoca continuamente colei che è madre, la madre di lui figlio e la madre di suo figlio, moglie.

Tra questi versi la pietà della prima parte del libro, lascia spazio all’amore per il suo sangue, colei che in grembo porta il sangue, interrogandosi quindi sulla sua stessa funzione di figlio.

Incisivi i versi p. 34


[…]

tra la mano la pietra ermafrodita:

i tre sessi:

esposti tra la nebbia come denti

[…]

ora qui il bianco irrora bianco

notte rantoli ti tengo la mano

[…]



Arriviamo dunque al culmine, alla terza ed ultima parte di questa intera poesia divisa in 3 parti, nel battito, dove raffigurata non è più lo sconcerto per la morte, ma la nascita, la vita, il grembo fatto figlio. E qui il poeta-padre, non più poeta-figlio, s’arrende alla vita, al dono che pare immenso, quasi intoccabile ed inviolabile.

Così a p. 37


[…]

il nemico cade

porgi la mano

il guscio

amalgama

fin dentro la regola

che il lupo sa e svela alla mano –

[…]


e continua a p. 38


[…]

accolgo

il dovere che resiste

ai vagiti, traccia

la fiamma che perdura nella bocca

come goccia ferita

[…]



Così intenso da far male. La nascita, la vita, indescrivibile qui è resa così viva, palpabile. Ci si immerge nell’amore, nella fiamma, nella sua bocca di pianto di gioia, nella gioia stessa.

Così a p. 39

[…]

l’abito della festa

ai piedi dei cherubini

come insegne le mani

[…]


La morte sembra lontana, ora è la festa il preludio, l’intimità del gesto d’amore. Ed il poeta-padre s’identifica col figlio, col sangue, che ora fa famiglia.

Così a p. 40


[…]

l’identità germoglio

riaffiora

nel tempo presente

[…]


Perché nel figlio e nella nascita, si ricorda quello che c’è stato. Si può osare quasi e dire che vi sia stato il sacrificio del padre suo, di lui poeta-figlio, per il figlio suo, di lui poeta-padre.

Quasi implora il figlio che lo perdoni dell’essere lui poeta-padre così inesperto all’arrivo di tale dono. Il tutto gioca tra le immagini di questo poeta-padre “angelo e marionetta”, di questo miracolo della nascita del figlio, così intoccabile, così mite.

Così a p. 43


[…]

e tu sii

in pace di grazia

la spada e l’angelo

il viso intarsiato dalla voce

la morte depone

un grido scandito da acque nere

senza altro onore che la verità

delle mani, lo

sbriciolarsi delle ombre

nei covi, nell’

ossessione

[…]


ritornando poi di nuovo alla figura della madre-moglie a p. 46


[…]

un calore che la neve crede acqua

e madre e ghirlanda

[…]


e p. 47


[…]

in te

stille di versi fusi dal silenziosa

[…]

abbi cura di me

lascia la ferocia che non morde

[…]

immergi la mano nel rovo

strappa all’acqua ciò che depone

[…]

e tu

fissa nei miei occhi un nido


Una serie di innesti, piccoli tratti che racchiudono piccole immensità del cuore; radure intere di questo nuovo sentimento, del quale, la madre-moglie è resa e vista come un nido.

Suggestiva e bellissima l’ascesa, il calco di questa fine che dona l’inizio, il sacrificio per la vita nuova.

Conclude quindi il poeta con una piccola voce in prosa, l’urto il flusso la fame il nido, a p. 49, poco più di una pagina, che non sembra far parte del libro, ma ne scarnifica il senso, quasi lo giustifica, lo chiarisce. Chiarisce l’identità della parola e della poesia stessa che qui è viva, rende lui uomo, umano, vivo.

Un libro completo e complesso che tocca ed attraversa proprio grazie al dolore, l’amore più grande, quello del figlio e per il figlio. Un libro sulle identità della famiglia, le figure che ritornano di padre-figlio-madre-moglie-sorella. Tutto un cerchio che si chiude nell’amore per la vita stessa.

L’angoscia, la disperazione, la perdita vengono quindi viste come un atto necessario della vita, per riconoscere la presenza della vita fatta germoglio, della rinascita stessa nella voce del figlio suo, poeta-padre.

Nella complessità del volto della famiglia, il poeta si misura con se stesso, con la propria forza nel dolore e nell’amore, con l’appartenenza al gruppo della famiglia vista come un nido, forza, casa.

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