Marina Pizzi in tre atti


di Giacomo Cerrai

Atto I

La poesia di Marina Pizzi costringe ad un’arte ormai in disuso, quella della rilettura, poiché la prima cosa da fare è non cedere alla tentazione di restituire una serie di sensazioni di tipo impressionistico, di fronte alla densità dei versi qui pubblicati, che ti travolge. C’è da dire che se c’è un’arte che per sua natura deve essere non solo letta ma anche e soprattutto riletta (e poi detta, recitata, cantata e magari urlata al vento, da soli o in compagnia), quell’arte è la poesia. Ma tutto questo necessita di penetrare nella materia di cui è fatto il testo che stiamo leggendo, nella densità di cui stavamo parlando, che, va detto, somiglia molto a quella che si crea nei buchi neri dello spazio, dove la gravitazione è così forte che neanche la luce riesce a sfuggire. Perché? Ad esempio quella di Marina è una poesia senza armamentari classici del poetare, senza metafore o con metafore irriconoscibili, dove la lingua è così serrata da apparire totalmente nuova, senza i legami grammaticali che permettono quei “vuoti” semantici che danno respiro al verso. Intendiamoci, qui si parla della metafora classica, quella aristotelica, in cui, “quando si confronta A con B, B è tanto diverso da A da sorprenderci…e nello stesso tempo B è comune, familiare almeno quanto A” (J.F.Nims). E’ ovvio che “mandorle nere del fiume cocente” è una metafora, cos’altro potrebbe essere dato che si parla di poesia la cui essenza stessa è il traslato. Ma qui non c’è niente da confrontare perché le cose si sustanziano di ben altre qualità alla sensibilità del poeta, sono letteralmente qualcos’altro. Non ci sono enjambements, spesso il verso è compiuto in sé, e in sé limita e chiude, nella sua cadenza serrata, il suo significato definitivo. Tutto questo (e altro) determina infine una sensazione di estrema compattezza materica e forse anche una prevaricazione nei confronti del lettore, a cui il poeta non lascia spazi di manovra (o di interpretazione, in senso attoriale del termine). E’ come uno spartito drasticamente impuntato, dove persino le pause, se esistono, non sono lasciate all’arbitrio di una scansione diversamente ritmata. Difficile sottrarsi all’impressione che Marina Pizzi tenti, con grande padronanza di mezzi, un vero disfacimento del corpo verbale per ricompattarsi (non solo la poesia, ma anche se stessa) in qualcosa di completamente diverso, che non è una diversa realtà, ma la realtà disvelata, in tutta la sua drammaticità. Da un altro punto di vista una autentica contemplazione della morte, una specie di cornicione (questo sì metaforico), su cui scrittore e lettore sono seduti perigliosamente insieme. E tuttavia la realtà rimane qualcosa di ineffabile, come il nome di Dio…non ci resta che leggere una vera poesia da meditare.

Atto II

Devo ricredermi, almeno in parte, rispetto a quanto avevo scritto nel primo post di Marina Pizzi. Avevo parlato di chiusura, di compattezza, di estrema densità. Mi sembrava che ci fosse una lacerazione tra bisogno di espressione e timidezza o gelosia forse un po’ criptica nel farsi capire, anche se è vero che questo a volte appartiene alla natura stessa della poesia, in particolare quella di Marina. Avevo anche riconosciuto in verità che la complessità stilistica e semantica era in sé una rappresentazione della drammaticità del reale. Non so cosa, ma qualcosa deve essere successo, qualcosa è cambiato. Almeno, questa è l’impressione leggendo “La giostra della lingua il suolo d’algebra” […] . O forse, più semplicemente, è cambiato il mio approccio nei confronti di questi versi, che mi sembra di vedere ora con occhio anche più affettuoso. Anche qui rimane evidente il tentativo di destrutturare e ricomporre in continuazione la realtà, attraverso un anarchismo linguistico che però riesce a creare dal magma forti pennellate, anche qui il non detto svolge una funzione rilevante, anche qui l’invenzione linguistica, il lessico a volte raro, l’accostamento audace. Tuttavia si ha come un’impressione di timida apertura, o un ricollocarsi in un solco ancora fortemente icastico ma di più confidente leggibilità del disagio, della realtà che addirittura si storicizza […] Versi molto belli come “Ne morirò con il tragitto in gola: / chiamami nei nomi delle preghiere / nel flusso delle stoppie / le quadrerie dei cimiteri / nel peristilio di un bacio di sguincio” […] non dismettono la loro potenza di scavo e di scarto linguistico/semantico, ma non abdicano anzi mi sembra riacquistino una trasparenza comunicativa, che è una mano tesa nei confronti del lettore, come se Marina dicesse: “Io sento, io sono, capiscimi”.

 

Atto III

Torno ancora su Marina Pizzi, che non e’ certo una mia scoperta dato che ha un curriculum di tutto rispetto, ma a cui con molto piacere ho dedicato alcune righe […] in due occasioni, quando ho pubblicato estratti dai suoi lavori “La giostra della lingua il suolo d’algebra” e “L’acciuga della sera i fuochi della tara“. Proprio quest’ultima raccolta ha trovato ora la sua stesura definitiva e la pubblicazione presso Luca Pensa Editore. Sul libro e’ intervenuto Marco Giovenale sul Manifesto del 1 dicembre con una breve recensione. Per quanto mi riguarda in questa occasione non posso che ribadire quanto ho scritto […], aggiungendo semmai, sulla scorta di quanto ho già letto, alcune mie ulteriori impressioni. La poesia di Marina Pizzi non fa nessuna concessione al lettore, la sua scrittura e’ ego-centrata e in quanto tale e’ pura rappresentazione del mondo (o della sua non riproducibilita’) cosi’ come lo vede l’autrice. Sul dramma del mondo si innesta e ne e’ specchio la scrittura, la rappresentazione verbale di esso, il suo disfacimento e la sua ricostruzione in un diverso significato, una diversa realta’. Ne consegue un differente canone comunicativo e una diversa capacita’ di comprendere, come in un linguaggio oracolare. Da questo punto di vista la poesia di Pizzi pretende uno sforzo supplementare da parte del lettore, una specie di immersione nei propri riferimenti culturali, nel proprio bagaglio semantico, perfino nella propria psiche. E’ una specie di viaggio esoterico, di riconquista di codici. Ci si domanda, ad esempio, che cosa significhi “triciclo di cielo / da non pregare”. E’ il tre la chiave, e’ per caso una surreale trinita’ celeste quella che non dobbiamo piu’ pregare? A cosa rimandano le assonanze, le consonanze, gli anagrammi, le paronomasie? Forse a un livello inconscio della lingua, a un sogno, a un gioco linguistico infantile? E l’ambiguita’ semantica di parole reiterate (privata = propria; privata = mancante) o collegate da isotopie (“Le santita’ delle nuvole cosi’ di buona condotta”, ove “condotta” puo’ avere valore di movimento o di comportamento, se collegato o meno a “santita’”)?. Sono solo esempi, naturalmente. Il fatto vero e’ che la lettura (o la plurilettura, come dicevo) dei testi di Marina, dopo aver preso atto di una sorta di prevaricazione, che gia’ segnalavo, nei confronti del lettore a cui e’ lasciata “l’onesta’ del libro esploso e speso e disseminato in allegorie, immagini inattese, eco fra verbi” (Giovenale), e’ una eccellente esperienza, a volte conflittuale forse, ma densa, suscettibile di riscoperte continue, e come tale di straordinaria persistenza.

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