In coro e fuori dal coro: Mariella Bettarini si racconta

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“Non scriverti
tra i mondi, al margine della traccia di lacrime impara a vivere”
Paul Celan
“Imbrogliare le carte, far perdere la partita. È il compito del poeta?
Lo scopo della sua vita?”
Giorgio Caproni

di Mariella Bettarini

L’inizio della mia esperienza di scrittura (scrittura prevalentemente poetica, ma anche molta prosa, creativa e soprattutto critica, oltre ad alcune traduzioni, cura di riviste e di una piccola Editrice, Gazebo) risale a più di quattro decenni fa, ossia ai primissimi anni Sessanta. Da allora, da quei “fluviali” inizi (ricordo migliaia di simil-testi poetici, una sorta di disperato-mistico-necessitante “diario in versi” in pochi mesi) non ho più smesso, anche se da circa 10-15 anni – a dire il vero – sono soprattutto una scrittrice di “epistole”.
La poesia, la scrittura sono dunque state (e sono tuttora) grandissima parte della mia vita, forse la più importante, anche se dire “la più importante” fa torto alla vita: senza vita non può esserci scrittura, ma nella mia esperienza personale una vita senza scrittura non potrei concepirla. La scrittura è stata un grande “dono”, legato però a seri problemi affettivo-familiari, a carenze ed assenze. Una scrittura che, poi, mi ha dato tutto: amicizie, amori, dunque ancora vita. Una scrittura alla quale – a mia volta – ho “consegnato” tutta me stessa.
In questo quasi mezzo secolo di vita e di lavoro, oltre a scrivere, ho letto qualche migliaio di libri (non solo poesia, ma narrativa, filosofia, teologia, saggistica letteraria e socio-politica, arte, botanica, zoologia, ecc.). Ho lavorato (e gioito di questo); ho scritto e riscritto stesure su stesure, alla ricerca della massima possibile prossimità (impossibi­le) a quello che era il mio sentire e pensare, non riuscendo però mai a raggiungere una vera identità tra ciò che sentivo e pensavo e quello che scrivevo.
Pensare, sentire:
pròdromi e insieme fòmiti della scrittura. Più che parlare di “poesia”, infatti, preferisco parlare di “scrittura” tout court. La quale comprende anche la prosa, essendo io pervenuta alla totale consapevolezza di una indistinzione tra i due cosiddetti “generi”. Entrambi scrittura, ossia ricerca, rovello, passione, sperimentazione (non fine a se stessa) e così via…
Una vita, dunque, a questo dedicata (senza contare il venti­cinquennale, appassionante, faticatissimo impegno con la scuola ele­mentare). Una vita, anche – contraddittoriamente, all’apparenza – di quasi-solitudine e tuttavia di grande empatia con gli altri, di immense sintonie con amici, “compagni di strada”, amori. Tra vita e scrittura. E con essenziali, riconosciuti Maestre e Maestri (di cui l’elenco che segue è assai parziale): Socrate, i tragici greci, Shakespeare, Kierke­gaard, Dickinson, Thoreau, Weil, Lee Masters, Kafka, Cvetaeva, Gan­dhi, Celan, Handke, Dante, Leopardi, Collodi, Montessori, Palazze­schi, Gadda, Pasolini, Landolfi, don Milani, padre Balducci, Rosselli, Zanzotto…
Ma come si fa, poi, a dire, a dirsi in poche pagine? Presuntuoso pensare di riassumere il “succo” di un lavoro, di una vita, che cono­scono in pochissimi, che a pochissimi, forse, interessano. A questo punto mi “corre l’obbligo” – come si dice – di un chiarimento: quell’in coro cui fa riferimento il titolo di questo mio intervento è il mondo di coloro che – per motivi economici, razziali, sessuali, politici – non possono esprimere se stessi, che non hanno accesso agli strumenti per farlo, che non possiedono il nostro indubbio privilegio di scrittori (e scriventi), di “lavoratori dell’intelletto” (e non solo della mano). “Es­sere in coro” rappresenta, dunque, il senso forte, ineludibile dell’essere – e sentirsi – parte di un’umanità che soffre ingiustizia, fame, discriminazione, illibertà, paura. Coro è anche la forte comunanza d’intenti, il senso di un impegno comune, di un essenziale col-laborare con chi in modo affine intende e pratica la scrittura.
Il fuori dal coro rappresenta – per contrasto – tutto ciò che, immeritatamente, ci “individua”, ci privilegia. Se questo, però, dovesse renderci malati di protagonismo, di vanagloria, di qualche risibile “potere”, tale prerogativa sarebbe da rifiutare. Se la poesia, la scrittura, l’arte non riescono a misurarsi (anche se, purtroppo, non certo ad alle­viare) con i drammi del mondo, divengono dis-valori, realtà negative, da assimilare, purtroppo, a ciò che reca male e dolore agli (per la stragrande maggioranza infelici) abitanti della Terra.
Personalmente, non posso dimenticare tutto questo quando prendo in mano la penna, quando uso il computer. La poesia, la scrittura hanno necessità tanto di rigore estetico quanto di rigore etico: non l’uno senza l’altro. In questa “linea” di pensiero (e di condotta), sento la necessità di dichiarare che, per la mia scrittura, non ho cercato privilegi, facilita­zioni, favori. La scrittura è un Più-in-là. È infinita ricerca, non-potere, passione. È un seguire dettami intimi e culturali (il sentire e il pensare) per aderire il più possibile a se stessi prima, e alla concretezza e astrattezza insieme dello stile (della ricerca di un proprio possìbile stile) poi. Solo tale conquistata “naturalezza”, semplicità fanno di chi scrive un essere forse contiguo, fraterno alle creature della Terra.
E con questa medesima severa passione che Gabriella Maleti ed io ci accostiamo ai testi che da circa vent’anni ci arrivano in proposta alle piccole Edizioni Gazebo. L’ “ardire” (e l’onere) che talvolta ci prendiamo nel proporre a taluni un serio lavoro di “lima”, di revisione derivano soprattutto da questo.
Un “antico”, attualissimo, indimenticabile Gramsci scriveva, nei Quaderni dal carcere: “Tutti i più ridicoli fantasticatoli che nei loro nascondigli di geni incompresi fanno scoperte strabilianti e definitive si precipitano su ogni movimento nuovo persuasi di poter spacciare le loro fanfaluche (…) Bisogna creare uomini sobri, pazienti, che non disperino dinanzi ai peggiori orrori e non si esaltino ad ogni sciocchez­za. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”. Quale -ancora e più che mai oggi – migliore “viatico” di questo, oltre che per la nostra miseranda, in-civile società nazionale ed internazionale, an­che per la cosiddetta “società letteraria”?

Firenze, gennaio 2004

Redazione
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1 Comment

  • La scrittura è la pazienza e la sobrietà che occorre alla vita di chi sta fuori dal coro. Lavoro liminare sarà il gesto di un voluto passaggio oltre il recinto. Seguente poi l’attesa del solista prossimo al canto.
    Viviamo così.

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