Intervista a Milo De Angelis

GF. — Nel saggio La chiarezza di ogni tragedia, nel volume La parola ritrovata, affer­mi: «Sant’Agostino diceva che tutti noi ci troviamo in un fiume di notte, su una barca; non sappiamo dov’è la riva e neppure in quale punto del fiume ci tro­viamo. Alcuni odono una voce che dice di saltare in ogni caso. Altri continua­no ad aggiungere decimali a 0,99 nella speranza di arrivare all’unità, alla riva della salvezza. Sì, credo che in un poeta questi due poli possano in modo lacerante dividere la sua anima, la cronistoria della sua opera.». Potresti spiegarci meglio questa affermazione?

M.D.A. – E la ripresa di una nozione non dialettica della conoscenza, nel senso del poter conciliare ipotesi e tesi in una sintesi che le comprenda e le superi. Credo invece che solo con un salto, per illuminazione e senza deduzione, in modo indeducibile, si possa arrivare alla conoscenza di se stessi ignota e di qualcosa del mondo che ci è sconosciuta.


GF. –  Ma la razionalità c’entra?

M.D.A. – C’entra la razionalità, deve esserci stata e potente. Tanto più c’è stata, tanto più deve scomparire nel momento della scrittura dentro una parola arcaica, arcana: radicale. La razionalità è come una “pressione verso”, come una spinta d’avvicinamento. Non condivido l’idea di una poesia per libere associazioni, senza regola. La libertà dal conosciuto implica comunque che il conosciuto ci sia stato. È proprio nella frattura, nello spaccare il conosciuto che sta il fare poetico. C’è qualcosa di fortemente impositivo nel momento in cui s’inizia a scri­vere: quasi una dettatura. Una volta dicevo che quando scrivo è come se ten­dessi l’orecchio, se dovessi essere capace d’ascoltare. C’è anche sempre un telos, una spinta verso una meta lontanissima e che porta lo sguardo in avanti a pèrdita d’occhio. È comunque un richiamo e tu lo ascolti, ti avvicini. Forse ti domandi cosa dice, forse no… Questa voce parla per accenni, brandelli soltan­to, come la Sibilla…è una voce che spinge, sospinge avanti verso una meta di verità, un telos di esattezza, di potente chiarezza. A questo la poesia dovrebbe aderire. Da sempre mi accorgo dell’impatto, dello scontro quasi tra telos e con­tingenza, tra la contingenza che porta da tutte le parti, disperde e confonde la meta d’esattezza, di precisione e giustezza che la poesia cerca di raggiungere.


GF. –  C’è una sorta di visione socratica in te per cui Bene-Bello-Giusto coincidono…

M.D.A. – C’è come un intimo comandamento di coincidenza tra il primo, forte richia­mo e la meta ultima, lontanissima. In questo senso direi che c’è un’etica socra­tica di coincidenza tra Giusto e Bello.


A.M. — Nella realtà questi valori assoluti non esistono: qual è per te il rapporto tra poe­sia e realtà?

M.D.A. – Bene e Bello sono due valori assoluti, ma sono da trovare qui, nella realtà che viviamo. Sono assoluti e incarnati anche nel più piccolo, nel più minimo dei fatti e delle cose reali. Il Bello, allora, è l’affiorare espressivo dell’evento, il suo venire alla luce, il suo farsi verità. E diventa destino non appena è stato detto. Dire non tanto per esprimere. È il rimbalzo della parola che rivela se stessi e il fine che si va perseguendo.


GF. – Spesso la realtà incide sul nostro corpo, ci spinge, urge. La poesia come fa i conti con tutto ciò?

M.D.A. – È una coesistenza e un conflitto: ciascuno di noi è immerso nella realtà e qualcosa influisce su di noi e noi su altro. Ma la poesia esprime una prova, una tensione più forte. Accanto ad ogni uomo disperato c’è un retore raffinato, accanto ad un individuo gesticolante c’è l’uomo di freddezza, lucidità e preci­sione. Esistono diverse e differenti spinte in ognuno: la poesia è il tentativo d’e­quilibrio tra loro…


A.M. – Molte volte nei tuoi stessi testi compaiono termini opposti: il dolore e l’amore; la tragedia e la gioia. Come si può spiegare questa coesistenza d’opposti?

M.D.A. – Per me la poesia vive del tragico, mai del chiaroscuro, della coscienza infe­lice romantica. Intendo tragedia come quella punta acuminata, il momento estremo e… poi c’è la metamorfosi.


GF. – Ma in che senso rispetto alla poesia?

M.D.A. – La tragedia è sempre il momento in cui c’è la possibilità di una scelta, in cui viene vissuta e avvertita una necessità, in cui una voce impone; «Ecco, devi farlo!» È il ghenos – la voce della stirpe – che spinge e impone ad Oreste: «Va e uccidi!» E è una spinta più forte della sua stessa coscienza, è la voce dell’e­strema giustizia. Nella voce del ghenos si esprime una giustizia che, allo stesso tempo, ricostituisce un’armonia che va al di là del tempo storico, al di là della stessa Grecia. E Oreste fa vedere proprio questa grandezza: il sacrificio del san­gue della madre diventa nascita di un’altra grandezza, di un altro senso.


GF. – Dentro la tragedia e nella poesia si esprime la voce della vita che chiama e muove ad andare avanti, penso a molti tuoi versi: «nella quiete miracolosa “la­scia che decidano / le stelle” // guardale, fa’ ogni cosa, entra, vivi pure / loro // loro perdoneranno», tra cui questi da Somiglianze. La Vita per te è una forza superiore al singolo?

M.D.A. – Sì, credo di sì! C’è per esempio un guizzo di luce, sulla lamiera, proprio in mezzo alla nebbia e mentre c’è stato un incidente mortale d’auto. È in questa “pressione”, in questo premere forte di due opposte esistenze, inconciliabili, che si esprime la direzione della vita. Una direzione che, comunque, non è mai quella che noi crediamo e che vorremmo che fosse, che pensiamo sia. C’è un richiamo della vita presso di sé, incomprensibile prima e imprevedibile.


GF. –  L’amore, al di là della tua esperienza diretta e personale, è una sorta di richiamo all’interezza? E si può forse dire che c’è una vicinanza tra “tensione etica”, e “tensione amorosa”, nel senso che comunque c’è l’esigenza di ricomporre Giustezza e Bellezza?

M.D.A. – II mio primo libro, Somiglianze, era pieno di scene d’amore, persone amate che perdi e poi magari ritrovi, in parte uguali e in parte no, nel tempo. Oggi, quelle stesse esperienze sono espresse nella poesia con più pacatezza, con mag­giore tranquillità, con una visione più saggia, comunque e meno adolescenziale dell’amore e della vita. C’è nella mia ricerca poetica un tentare di ricomporre i frammenti, un dar loro senso verso qualcosa, anche nel loro più disordinato brancolamento. Scrivere è essere orientali verso qualcosa che ti chiama e devi andare: «Eccomi!» e poi: «Eccoti!» Come dire che, se questo richiamo c’è, deve essere rispettato, senza alcun interesse per le varianti, ma solo ed esclusi­vamente per la forza della parola che risponde al richiamo.


GF. – C’è una tua frase che mi sembra molto importante: «La poesia si colloca tra la realtà definita, materiale e la realtà trascesa» e, appena oltre, «la poesia sta in bilico tra tempo cronologico e tempo esemplare». È come dire che la poesia sta nella “terra di mezzo”, dove tutto si trasforma in altro e sta in equilibrio preca­rio?

M.D.A. – Sì, è come se avessi una sorta di dovere – quasi in senso militare – per cui quando scrivo mi devo accordare all’orologio che mi tiene sveglio… La poesia è un po’ stoica, in senso paradossale, perché si serve degli stessi elementi del giorno del calendario, ma va sempre oltre. L’opera deve servirsi della cronaca, anche della più banale, più minuziosa e infame, ma deve saper andare oltre, superarla, aspirando a qualcosa di assoluto, alto, altrimenti si diventa un poeta neoclassico, formale.


A.M. – Tu dici che la poesia passa attraverso il quotidiano. In che senso?

M.D.A. – La parola è frutto del corpo che si muove e vive, del nostro andare, e vive però

dell’esemplarità, della durata, dell’assoluto. Vive “del tempo che c’è” e “del tempo che sta per venire”.


GF. – Queste tue parole mi fanno tornare in mente la poetica di Montale. C’entra – e se sì, sino a che punto – Montale nel tuo percorso poetico?

M.D.A. – Montale è stato molto importante per me, soprattutto quella sua estrema pre­cisione del dire ciò che non è preciso: è sua la capacità di dire la confusione del vivere. Montale è preciso, assolutamente esatto per farci capire ciò che non torna. E, come diceva Fortini, credo non basti una descrizione confusa per esprimere la confusione! Oltre a Montale, ci sono Campana, Luzi e Fortini, in parte anche certo Rebora, ma molto meno.


G.F. – Ma com’è il tuo rapporto con certa poesia definita “orfica” e con l’Orfìsmo in generale?.

M.D.A. – Nel momento stesso in cui si parla della nascita della poesia si parla di ricer­ca orfica. L’Orfìsmo invece, come puro stilema mi sembra una scelta persona­le molto rassicurante e cesellata. Una sorta di mestiere del poeta. Mentre la poe­sia vive di qualcosa che è più lacerante, frutto di uno scontro, di una necessità intima. In Italia ci sono alcuni poeti che stimo – penso a Conte, Mussapi, Carifi e la Copioli – che si dicono orfici, ma penso che l’orfismo sia una sorta di cate­goria della vita che fa un po’ perdere… la potenza dello scontro/incontro con il calendario, con quel minimo terribile da cui però parte lo slancio, la tensione verso l’assoluto passa attraverso il rigar mortis, lo spasmo e l’urlo della vita: l’intelligibile non è mai dato, ma è proprio perché è qui che è terri­bile! Se lo si pone “altro” o “altrove”… si perde la forza del dire.


GF. – E come ti collochi rispetto alla Linea Lombarda di anceschiana memoria? Sei solo vicino in parte o per nulla alla loro ricerca?

M.D.A. – Niella mia poesia ci sono scene di vita, strade e ambienti di una.certa Milano, quella di Rebora, Franco Loi, anche quella di Cucchi, ma mai quella certa Lombardia lacustre, inerte. La mia Milano è una città difficile, enorme: è la sola città che mi ha permesso di viverla, senza essere milanese.


GF. – Biografia sommaria: è una biografia – come dire – per sommi capi, senza pre­tesa di totalità e definitezza, una scelta di momenti salienti ma non assoluti. Ho l’impressione che ci sia qui lo stesso sguardo delle altre tue raccolte, ma meno frammentario e spezzato…

M.D.A. – Sì, è vero. In passato, per anni, non riuscivo a star fermo: tutto attorno a me accadeva come… contemporaneamente e io giravo e giravo, sveglio, di notte. Sveglio per un anno, andavo per Milano. Ero magro, scavato, allucinato: tutto si muoveva come in un caleidoscopio, poi pian piano c’è stato un rallentamento. Adesso lascio che le cose si depositino, si fermino…


GF. – In Biografia sommaria ci sono scene e personaggi dentro storie di vita: c’è una voglia nuova di raccontare, sbaglio? Penso a poesie come Donatella, Paoletta o anche Cartina muta. Testi legati di più alla cronaca e al diario della tua vita. Pensi che ciò fosse dovuta ad un momento preciso della tua scrittura e pensi che si ripeterà?

M.D.A. – Cartina muta è una poesia che ha segnato la svolta del mio scrivere e con alcune altre contiene scene del mio passato in cui sono costretto al ricordo: non per recuperare – perché, comunque, il passato è un tempo in perdita – ma per fissare, per rivedere il passato dentro il presente. E ci sono quei personaggi di quando facevo atletica: Donatella è una ragazza della “Pro Sesto” della “Forza e Coraggio”… La sezione “Capitoli del romanzo”è davvero irripetibile: nasce da un’idea narrativa che poi non si è realizzata re che ha depositato queste scene e quei personaggi. È irripetibile, ma non perché sia più personale delle altre. Lo è per sua natura ritmica, per quell’andatura distesa e orizzontale che lì ho fati­cosamente trovato, ma che non fa parte istintiva del mio verso…


GF. – Ci sono diverse figure femminili e compagni di scuola o di allenamento, ma ci sono anche diversi testi dove Giovanna viene detta colei con cui ci si può con­frontare “alla pari”, una guerriera: una “parità” legata al gesto del corpo, alla tenacia e alla resistenza di Giovanna. Non si legge invece di una vostra “pari­tà” nel dialogo legato allo scambio poetico, mentre invece tu hai appena detto che era fondamentale la parità del dialogo rispetto alla poesia. Come mai?

M.D.A. – L’amore per Giovanna è stato l’amore per la sua poesia, inseparabili. Ho sem­pre avvertito In lei un’ispirazione antica, da Sibilla, che superava la sua stessa consapevolezza. Giovanna scriveva da posseduta: in lei si formavano parole provenienti da zone remote dell’essere e poi sgorgavano all’istante nella scrittura. Giovanna era lì, solo lì, nella necessità violenta della poesia. E io ho sem­pre amato gli esseri umani per i quali non c’è che una forma espressiva, che sentono la poesia come via obbligata. Su tutto questo il dialogo era continuo e natu­rale, era fecondo per entrambi, era splendido…


GF. – C’è la sezione intitolata “L’oceano intorno a Milano”. Perché evochi l’acqua? È un’acqua non tanto di fiume o dei Navigli, ma un’acqua del mare e dell’o­ceano: ha forse significato metaforico di “acqua di rinascita”?

M.D.A. – Penso a un oceano scuro e drammatico, come l’Atlantico, che la circonda e la rende ancora più sola. Milano è l’antitesi della città eterna: è la città delle macerie e delle rinascite, appartiene alla razza delle città distrutte, delle città in cui le cose avvengono per l’ultima volta: l’ultima cena, l’ultima donna, l’ulti­mo metrò. È una città .di naufragi e di naufraghi e mi piace immaginarla cir­condata da un oceano minaccioso.


GF. – D’altra parte più volte è presente all’interno di questo libro la ricerca di un «luogo intero». In che senso, come dimora trovata, come punto d’approdo?

M.D.A. – II luogo intero è quando all’improvviso ritorna ciò che abbiamo amato, quan­do i vivi e le ombre si parlano con sapienza, quando le notti, gli amori, le par­tite, i singhiozzi, i respiri della nostra giovinezza emergono intatti e compiuti. Il luogo intero, forse, è la morte…


GF. – Ripenso a una tua poesia dedicata alla morte di Fortini e motivata da una gran­de visione, dove compariva il tema del destino…

M.D.A. — Sì, li ricordo bene, quei versi, che mi sono cari, tra i miei pochi che salverei. «Morire è l’infinito presente / di ciò che non si coniuga», dove il finale dice del­l’unione mancata, ma anche del verbo che rimane fermo su stesso, non trova svolgimento. E ricordo bene anche quella cerimonia, all’obitorio dell’Ospedale Sacco, con pochi amici nel freddo invernale, con il corpo di Fortini che sem­brava piccolo, sembrava piccolo perché era stato privato della voce, quella voce calda e scandita che ne costituiva l’essenza…


GF. – II rapporto con la gente e con il mondo in questi testi di Biografia sommaria è molto forte. Da cosa è nata questa tua scrittura immersa nel quotidiano?

M.D.A. – La visione della realtà attorno è stata una conquista per me. Non sono parti­to dal fatto dato per certo che ci siano le persone, gli oggetti distinti attorno a me: tutto era come un impasto, tiravo fuori da me, da dentro le parole come per vederle, per avere chiarezza. Adesso, c’è una distensione tra me e l’altro da me, il mondo e le persone. Questo rapporto c’era stato in Somiglianze, poi c’è stata un’interruzione, un intervallo…


GF. – Somiglianze, nonostante sia stato scritto più di vent’anni fa, resta un libro fon­damentale per me. E’ meno spezzato nel dire, rispetto a Distante un padre… che pure amo molto…

M.D.A. – Distante un padre è stato il libro della svolta, soprattutto per l’ultima parte, quella dialettaIe che ha avuto per me un effetto terapeutico. È stato come se lo scrivere in dialetto mi avesse permesso di scrivere di un mondo di persone ferme, fermate dalla poesia. Questo mi ha dato la possibilità di trovare un nuovo modo di fare poesia.


A.M. – È stato importante il dialetto perché ti lega a tua madre?

M.D.A. – È stato così, ma forse anche perché quel dialetto monferrino non ha alcuna presenza letteraria, per questo mi è sembrato capace di esprimere la natura… quei campi immobili…


GF. – E importante l’uso che fai del dialetto in poesia: quasi un viatico, un’apertura al mondo degli affetti e al mondo attorno, in generale… Forse è proprio per que­sto il dialetto ti è servito come “strumento” per guardare il mondo in modo nuovo?

M.D.A. – Sì, credo di sì. Quando si è più a contatto con il “dentro”, si è anche più a contatto con il “fuori”… ma è un’esperienza che non si ripeterà…


GF. – In questi ultimi anni sono usciti due libri di tue traduzioni. Il primo è la tradu­zione di 36 epigrammi dall’Antologia Palatina, libro uscito con il titolo L’amore il vino e la morte, con le edizioni Satiros. Poi, a breve distanza, c’è stata anche la tua traduzione di Lucrezio, una scelta di 36 frammenti da De rerum natura, intitolato Sotto la scure silenziosa, prima edito da Satiros e ora ristampato per ES. Che senso ha avuto riaccostarti a questi testi della classicità, ad autori che hai amato e, forse, anche tradotto in passato? A proposito dell’Antologia Palatina: perché hai voluto dare attenzione a tre temi in partico­lare: l’amore, la morte – due temi che sono ricorrenti nella tua scrittura – e poi anche il vino?

M.D.A. – Accostarmi all’Antologia Palatina è stato scoprire un’altra Grecia. Non più la Grecia del trocaico, il verso ossessivo dei tragici. Ma quella dell’incontro, del bacio e del vino, appunto, dell’ebbrezza che precede la lunga notte e che ci spinge ad alzare i calici, a entrare nella gioia, nel suo unico istante.


GF. – In questo senso, nella sezione delle poesie sull’amore, si vede come sia presen­te la scelta di testi dove emerge la gioia del possesso, anche inteso come un afferrarsi carnalmente, darsi e prendere piacere, nell’attimo presente.

M.D.A. — Mentre la tragedia vive su due piani ed è sospesa tra individuo e stirpe, qui c’è un fascio di luce che investe i corpi e le anime, li restituisce alla loro pie­nezza, al loro unico tempo, che è il battito del cuore. Certo, può esserci anche il senso malinconico di ciò che trascorre. Ma è una sfumatura elegiaca, un chia­roscuro, è privo degli spigoli che irrompono tempestosi nel mondo tragico.


GF. – In queste traduzioni, comunque, sembra che si sia aperto un vero e proprio dia­logo tra la tua poesia che quella dei lirici greci, proprio perché le tue versioni riescono a rendere presente il sentire di quei tempi. Per quanto riguarda invece la tua traduzione di Lucrezio, mi sembra meno prevedibile il tuo legame con questo autore. Perché proprio Lucrezio?

M.D.A. — Lucrezio mi ha accompagnato per tutta la vita: la tesina di maturità al liceo l’ho scritta proprio su Lucrezio, dopo avere conosciuto un eccellente critico che si chiamava Luciano Perelli e che insisteva testardamente sugli elementi del sentire tragico di Lucrezio, gli stessi che mi hanno conquistato e spinto a tradurlo. Nelle stupende scene erotiche del quarto libro, i corpi non si raggiungono, le essenze non si sfiorano, fallisce ogni tentativo di trovare una comunione, anche provvisoria. Ci sono solo questi corpi che si protendono ansimanti e smarriti, brancolando nel vuoto, stringendo l’altro con rabbia, raschiandogli gli atomi dal viso, tentando di risucchiarlo dentro di sé. Nequiquam, dice Lucrezio, innumerevoli volte: invano. Questo avverbio, “invano”, attraversa tutta la sua opera, tutta la sua epopea del fallimento amoroso, dell’angoscia che separa gli amanti, del gelo che li afferra dopo la frenesia, dell’inferno in cui precipitano. L’essere amato diventa anch’esso un inferno. L’inferno sono gli altri: sembra di entrare nei meandri più tenebrosi dell’esistenzialismo, in una dimensione improvvisamente novecentesca, con quella cupa insistenza di Lucrezio sul nostro essere scaraventati in un mondo che non ci appartiene e che ci getta in faccia la nostra solitudine.


G.F. –   Cosa cambieresti in questa traduzione?

M.D.A. – Approfondirei le sezioni dove emerge il tema della solitudine insanabile e dell’esilio: esilio non come lontananza dal luogo amato, ma come percezione che il luogo amato non è più abitabile, non è più tuo, non è mai stato tuo. Questo Lucrezio lo ripete più volte, con splendide immagini di estraneità, in tutto il terzo libro. E poi toglierei alcuni frammenti troppo descrittivi, troppo vicini a quell’aspetto erudito che pure esiste in Lucrezio, ma che è la sua parte più ste­rile. E infine, se posso citare un dettaglio, non tradurrei più «vulnere caeco» con «misteriosa ferita», ma lascerei la fisicità letterale della ferita «cieca».


G.F. – La natura non è presente nelle tue traduzioni di Lucrezio, eppure Lucrezio è noto proprio per la sua visione della natura. Perché questa tua scelta? Nella tua scrittura la tradizione italiana che mette in rapporto uomo e natura – penso Leopardi e la «Natura matrigna» – è assente, forse perché per te la sofferenza umana non è dovuta alla natura?

M.D.A. – Proprio così: non è dovuta alla natura e nemmeno a Dio e nernrneno a noi stessi; si presenta tragica e potente nel suo essere indeducibile. Io poi non sono in nessun modo un poeta della natura. Sui fiori non ho avuto visioni. Non so cosa è il mare, la montagna, un albero, un campo: gli unici campi che m’inte­ressano sono quelli sportivi.


G.F. Sia nella traduzione dell’Antologia Palatina sia in Lucrezio è molto forte il tema della morte, un tema che comunque era presente anche in Biografia som­maria, e che nel tuo ultimo libro, Tema dell’addio, diventa centrale.

M.D.A. – La morte attraversa tutti i miei libri, da Somiglianze a quest’ultimo, li impre­gna di sé, ne costruisce il respiro; si annida in ogni pagina ed esige che ogni pagina lo riconosca, perché è lei ad averla creata. Ma la morte non è il lutto o la depressione; è una presenza pulsante, irresistibile, incapace di rimanere nel­l’ombra e anche di rimanere in se stessa: trabocca, è esorbitante ed è impreve­dibile, può assumere forme gelide e minerali, annientatrici, ma anche forme vivìssime e ardenti. Certo, la morte di una persona amata, la morte di Giovanna, è un terremoto. È qualcosa che scuote il sistema percettivo. Cose mille volte viste e commentate insieme appaiono ora nel loro isolamento, in un nuovo rap­porto, in una strada diretta, una specie di a “tu per tu” silenzioso e frontale. Luoghi amati e percorsi mille volte con lei appaiono adesso nella loro nudità. Tema dell’addio è il libro di questa nudità. Ed è il libro di questo sguardo rima­sto solo, in bilico tra ciò che vede e ciò che ha visto, tra un filo teso e un con­certo a più voci. Non leggetelo come un lamento funebre o un fatto privato. Qui “tema dell’addio” significa tema di ogni addio. E poi, devo dirti che il tragico ha percorso altri miei libri ancora più di questo. La morte di una moglie è un dolore pubblico e raccontabile. Se ne può parlare e si può condividere. È stra­ziante, certo, ma fa parte della realtà. E orribile, lo so, ma è reale. E invece ho trascorso anni in cui la parola, per giungere a una forma qualunque della realtà, se mai ci giungeva, doveva percorrere vie lunghissime, uscire dalle sabbie mobili, perforare un silenzio che si era fatto grumoso come l’asfalto, che sem­brava rinchiudermi in una cella come un provvedimento carcerario. Molte poesie di Millimetri o di Distante un padre ne portano il segno. Allora pareva impossibile una traccia minima di contatto con il mondo, con il lavoro, i libri, gli amici, con il mio stesso nome. Non sapevo più pronunciarlo e se lo dicevo risuonava vuoto, senza storia e senza appoggio…


G.F. – Nella sezione “Hotel Artaud” compare il testo che termina così: «ogni porta, / ogni lampadina, ogni spruzzo della doccia dicono / che si è rotta l’alleanza.». Ti riferisci ad un periodo della vita in cui c’era una distanza tra te e Giovanna, legata a una situazione particolare? Penso ad Artaud, attore di una vita estrema, senza vicinanza con gli altri…

M.D.A. – Artaud è stato un importante compagno di viaggio. E stata l’incarnazione drammatica di ciò che palpita e non giunge all’opera, non può giungere. Mi sono sempre sentito attratto da questi destini inattuati e tuttavia pullulanti di vita, capaci di far sentire tutta la forza di ciò che non si compie, che rimane al di qua della forma, perché la possibilità stessa di una forma è sbarrata, perché qualche comandamento l’ha allontanata per sempre. C’è un romanzo di Drieu La Rochelle, Fuoco fatuo, che parla di questo. E un magnifico film dì Louis Malle ad esso ispirato. L’ho visto a dodici anni, nel 1963, al Cinema Rivoli, e ha segnato la mia vita.


GF. –   C’è un tuo verso: «Ognuno chiede dov’è / la vena, presto, la vena», dove il verso assume quasi il tono di un’invocazione, di una ricerca di una via di salvezza nella medicina, invocata dalla malata con lo stesso atteggiamento di colui che è dipendente dagli psicofarmaci, con ossessione. Poi c’è anche la sezione intera con il titolo: “Trovare la vena” …

M.D.A/- “Trovare la vena” è una frase che collega diversi mondi: quello dei tossici, quello dei malati, quello dei poeti, che a loro volta sono cercatori d’oro. Ho sempre sentito di dipendere dalla poesia come si dipende da una flebo o da una sostanza… si contano i milligrammi, si invoca la dose e si è disposti a tutto per procurarsela… si inganna la moglie, si vendono i mobili di casa, si rubano dei soldi o dei versi. Mi è capitato anche questo.


GF. – Ho avuto la sensazione che la prima sezione, “Vedremo domenica”, abbia un ritmo, un respiro e un tono diverso dalle altre sezioni. È come se il tragico si fosse consumato in quella sezione, come per esempio in questo testo: «Non è più dato. Il pianto che si trasformava / in un ridere impazzito, le notti passate / correndo in Via Crescenzago, inseguendo il neon / di un’edicola: non è più dato.».

M.D.A. — Proprio così, Gabriela, “Vedremo domenica” non è stata scritta per prima, ma è la sezione a me più cara e ho voluto metterla in apertura di libro. Ha un verso lungo e spezzato, una musica percussiva: segmenti che si succedono uno dopo l’altro, visioni giustapposte che cercano di abitare insieme. I ricordi si staccano come fogli del calendario, insistono, vogliono ribadire che quella scena è avve­nuta, quel sorriso, quel colpo di tosse, quel bar di Roserio erano davvero quel­li, che è stato proprio così…


GF. – In questa sezione è molto presente la costruzione anaforica: c’è la presenza ossessiva di termini, come la negazione “non”, ripetuti in molti testi con la maiuscola, e in versi parattatici, che frangono il ritmo. Per esempio: «Non c’era più tempo. La camera era entrata in una fiala. / Non era più dato spartire l’es­senza. Non avevi / più la collana. Non avevi più tempo».

M.D.A. – La ripetizione attraversa queste pagine iniziali del libro. Penso alle mille forme della ripetizione, a quella musicale di Campana, a quella euforica di D’Annunzio, a quella spezzata di Celan. Qui è ancora un’altra cosa. È un bilan­cio di ciò che rimane e di ciò che è scomparso per sempre. È una sorta di reso­conto giuridico della vita e della morte: da una parte, quello che ha diritto di esi­stere e, dall’altra, quello che invece non può ritornare. È un furore matematico: questo è passato, questo c’è ancora. È come se, nel nubifragio della perdita, fosse l’unico modo di fare chiarezza, di salvare il salvabile, di aggrapparsi a una certezza. E tutto è controllato, come quando si ha davvero paura, tutto è troppo urgente per lasciare posto alla commozione, tutto è inciso in bianco e nero, come una cartina geografica dei luoghi superstiti, indicati con il loro nome e pronunciati due volte per renderli ancora più certi. Qui tutto è duro, appuntito, sottoposto all’incisione, alla voce inquirente che cerca il suo luogo, lo cerca con ostinazione, ne ripete ogni lettera. Nel resto del libro questa litania è meno scheggiata, acquista diverse sfumature e alternanze, cedimenti, abbandoni e coscienza, asprezze e scioglimenti, fino all’ultima sezione, “Visite serali”, dove ci sono momenti di elegia.


G.F. – In questa sezione c’è l’elegiaco, ma è comunque non cantabile, e penso alla poesia «Camminava con la coscienza del sangue / e l’attimo strappato al suo giorno, / mia arciera, mia trafitta / che ogni notte ti accendi nel cielo / ora che il corpo si è fatto musica / delle sere, voce consacrata, silenzio.». Giovanna è«arciera» e «trafitta», il che sottolinea il suo coraggio, ma fa anche venire in mente la crocifissione: il sacrificio del Cristo. Il tema del sacrificio, dunque, legato alla poesia. La morte di Giovanna ha forse mutato una tua percezione del femminile, rispetto ai testi del passato, dove tendevi ad attribuire alle donne una sorta di “troppo umano”, un eccesso del sentire?

M.D.A C’è in me una zona scura e petrosa, dove nessuno sguardo umano può entrare, se non in brevi momenti e con ustioni. Una donna interamente femminile, una donna che vuole la fusione, se ne trova respinta. In questi momenti di buio, devo stare da solo, devo scendere. E al ritorno non ho niente, non ho niente da raccontare. Nessuno deve aspettarmi. Per questo parlavo, anche a te, di donne in corsa, di figlie di Atalanta o di Artemide, esseri che hanno il loro traguardo al di fuori di me e di noi. Le figlie di Venere, quelle nate soltanto da Venere, sono invece creature statiche, professioniste dell’intimo, laureate nell'”a tu per tu”, creature orientali, confinate nel perimetro del cuscino. Creature senza poe­sia, vento, luce, agonismo, adolescenza.


G.F. — Ci sono nel libro almeno due poesie che sono di invocazione alle ombre: il testo finale è diverso da quello che compare nel centro del libro. E leggiamo: « […] tu, arciera / bambina, tu puntaspilli, tu che parli / al sangue, tu furtiva / e asse­tata / tu, filo di voce». Comunque in entrambi Giovanna è presente con la sua complessità umana: elementi di rotondità e dolcezza, ma anche con la spigolosità del suo carattere…

M.D.A. – Ben vengano l’ombra e gli spigoli, poiché testimoniano un percorso solitario, appartengono alle persone che hanno una meta al di là del duetto, non vivono unicamente per l’essere amato. Ci sono donne invece – pensa a certe creature femminili di Dostoevskij o ad Adele H. o all’Agnese di Van der Meersch – che si danno interamente all’altro, possono respirare solo nel suo respiro. Sono donne pericolose, a volte letali. O meglio: lo sono quando l’altro non è maturo e non è in grado di accogliere un amore incondizionato, di muoversi con equi­librio in mezzo all’enorme potere che gli viene concesso. Ho conosciuto una donna, una ragazza, con l’anima di Agnese e non ero pronto. Avevo sedici anni, cercavo ancora me stesso, me stesso. Era troppo presto. Ed è stato un purgato­rio di dedizione e crudeltà, di momenti sublimi e di momenti distrutti. Ma un purgatorio insegna qualcosa, e da allora mi sono allontanato da questo filo diretto, da quest’assoluta empatia. Me ne sono allontanato perché ne avvertivo il pericolo, ma anche il tratto infantile e illusorio: chi non si salva da sé, non lo salva nessuno, diceva giustamente Pavese. In questo senso l’amore per Giovanna – con tutti i suoi spigoli – è stato maturo. C’era un luogo – la poesia in cui ciascuno dei due si recava senza la compagnia di nessuno. E quando ritornava, poteva portare all’altro i suoi frutti. Lì potevamo stare da soli, nella solitudine feconda dell’opera. Ma per essere soli occorre essere almeno in tre. Il che significa: ci sei tu, c’è l’altro e c’è l’Altro, dove la maiuscola indica un luogo terzo rispetto a voi due. E proprio lì ciascuno trova i doni per l’amato. «Lì posso darti ciò che non ho». Se non ci fosse l’Altro, rimarrebbe il filo diretto, il dare soltanto ciò che si ha, l’esclusiva che presto esaurisce i suoi frutti, il corpo a corpo di ogni legame privato.


G.F. – D’altra parte nel tuo testo di critica Poesia e destino c’è un riferimento a Marina Cvetaeva, una lettera in cui lei parla a Rilke della morte, lettera che mi pare abbia esattamente il tono di queste ultime tue poesie. Si nota come il percepire la presenza di Giovanna che è invisibile, ma non sta in un “altrove” bensì è pre­sente nella tua vita quotidiana.

M.D.A. – Sono stupende le lettere di Marina Cvetaeva a Rilke! I poeti morti ci parla­no, con voce intatta e insieme spezzata. Ci parlano. Ma a volte tacciono. E quan­do tacciono, non si limitano al silenzio. Piuttosto: non cessano di non parlare. Questa doppia negazione esprime la ferita del loro essere scomparsi, ma anche la nostra attesa, il nostro essere assetati della loro parola, il nostro continuo scrutarli e convocarli, come nell’ultima poesia di “Vedremo domenica” L’invisibile si apre nel pieno della visione, l’ombra si profila là dove il dialogo sembrava evidente: l’altro è lì, a portata di sguardo e a perdita d’occhio, così vicino da essere imprendibile, così remoto da essere qui, così perduto da esse­re imminente. Noi siamo ciò di cui un altro detiene il segreto.


G.F. –   Si parla, in questo testo finale del libro, di speranza in una rinascita. Come mai?

M.D.A. – Una voce fuori campo, una sorta di coro da tragedia antica, pronuncia la pro­pria sapienza dall’alto di una prospettiva che sfugge all’individuo, dall’alto di una visione d’insieme che lo include nella varietà dei suoi tempi, intreccia le età della sua vita e della sua morte. Ma lui non lo sa ancora, non ne vuole sapere e scuote la testa impietrito di fronte a quel silenzio di ospedali…


G.F. – Credo che potrebbe esserti fatta anche una critica a proposito di questo libro. Hai sempre teso a trasfigurare la tua vita privata, a parte in Biografia somma­ria dove in alcuni testi citi anche alcuni tuoi incontri. Come mai hai deciso di parlare della malattia e della morte di Giovanna? Non senti di correre il rischio di un’eccessiva vicinanza al tuo privato?

M.D.A. – Al contrario: questo è mio libro meno privato. Non mi era mai successo di congiungermi così naturalmente a una storia universale. In altre opere c’è stata una grande fatica per uscire dall’io e dal suo grido, per fonderlo con la natura stessa del soffrire. È un libro, questo, sul tema musicale dell’addio: a una donna, a una città, a una camera d’albergo, a una stagione della vita e persino alla morte, se ha osato troppo, se ha fatto incursioni troppo violente. E d’altra parte, lo ripeto, nella morte di una persona amata si radunano tutte le morti, pas­sate e imminenti. No, nessuna forma di diario, credimi, nessuna cronaca fami­liare…


G.F. – Sì, questo è assolutamente vero, e penso ad un testo: «Sotto i cavi sospesi / chie­demmo una costanza, / tra gli allucinogeni chiedemmo / di sapere il codice ter­restre; / il canto sotterraneo che bussava / alle vertebre.». O in un altro dove, nel momento in cui quasi stai per entrare in una dimensione privata che forse potrebbe essere vicino al diario o alla cronaca, scrivi: «Vattene nulla morente dei minuti che tornano qui.». Questo esprime il tuo netto rifiuto della possibili­tà di far diventare diario la poesia, e persino il rifiuto di essere travolto nel gorgo della nostalgia o del rimpianto. Tema dell ‘addio è un libro di privazione, non di nostalgia…

M.D.A. – Proprio così, privazione: qualcosa che c’era, che sicuramente c’era ed era nostro, ci viene tolto: ne rimangono segni allucinati, dettagli mai visti prima, una luce del ginocchio, una vocale aperta, una vena del polso, teofanie e bara­tri, tutte le voci dell’alterazione. Alterazione: ecco un’altra parola che si addice a questo libro…


(da Il luogo preciso della voce. Intervista a Milo De Angelis (di Gabriela Fantato e Annalisa Manstretta) in Luigi Cannillo, Gabriela Fantato (a cura di), La biblioteca delle voci. Interviste a 25 poeti italiani, Edizioni Joker 2006, pp.47-56)

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2 Comments

  • Non so se ci sei riuscita, e, se no, ne hai ancora voglia, ma potresti provare a contattare la signora Viviana Nicodemo (presente e gentile), su facebook e chiederle questa cosa.

  • Salve, ho letto con grande interesse l’intervista e l’ho trovata davvero coinvolgente. Complienti! Io sono una giovane giornalista che vorrebbe mettersi in contatto con Milo, voi potete per caso farmi avere qualche suo contatto? Ho cercato su internet ma non ho davvero trovato nulla..
    Vi sarei davvero grata se poteste aiutarmi..

    Ancora grazie e buona serata, Michela Di Stefano

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