Intervista a Umberto Fiori

Un poeta, un musicista: rimasto nella memoria di molti come autore dei testi dello “storico” gruppo degli Stormy Six, che oggi sta vivendo una seconda giovinezza, e che si è, negli ultimi anni, affermato anche come poeta e come scrittore.


Quali sono i primi libri che ricordi di aver letto nell’infanzia?

Mi ricordo – avrò avuto sei o sette anni- una serie di fascicoletti del formato di un libretto di assegni: erano delle “strisce” illustrate (non proprio dei fumetti, però: vignette con didascalie) che facevano pubblicità alla Magnesia San Pellegrino. Me li dava una mia zia che lavorava in farmacia. In quella forma ho scoperto per la prima volta Don Chisciotte e altri classici della letteratura. Ma uno dei primi veri libri che ricordo di aver letto è I cavalieri di Re Artù, scritto e illustrato (con bellissime incisioni in bianco e nero) da Howard Pyle, e pubblicato dalla Società Editrice “Unitas” di Milano nel 1931 (IX dell’Era Fascista, si precisa in copertina). Prezzo: lire 20. Mio padre lo aveva ricevuto in regalo per la prima comunione, io lo avevo ereditato, e ancora oggi lo leggo a mia figlia Cecilia (cinque anni). Ho in mente anche una serie di biografie di poeti, pittori e scultori pubblicate, mi pare, dai Fratelli Fabbri negli anni ’50. Leggevo e rileggevo la vita di Dante, di Leonardo, di Donatello, di Petrarca, di Cellini… Mi davano anche Salgari, ma mi annoiava. Invece le trascrizioni di miti greci presentate da Laura Orvieto nelle “Storie della storia del mondo” mi appassionavano moltissimo. Infine, ricordo un volumetto con alcuni estratti in versi dall’Inferno, integrati da versioni in prosa, e con le celebri illustrazioni di Doré. Me l’hanno regalato quando ho compiuto dieci anni: mi sono sentito subito più grande. Oltre a piacermi, leggere mi faceva sentire in contatto con cose serie, misteriose, importanti.


Quali le letture di formazione?

Qui l’elenco rischia di essere lunghissimo. Cercherò di limitarmi a quelle che hanno rappresentato per me, per un verso o per l’altro, delle svolte. Sono quasi tutti testi filosofici: innanzitutto Marx, poi Kierkegaard, Adorno, Nietzsche, Bataille,Wittgenstein, Heidegger. Ma la lettura più decisiva è stata forse Kafka.


Oggi, preferisci affrontare la lettura di romanzi o di saggi?

Leggo soprattutto saggi e poesie. Narrativa, poca.


Nella produzione dei testi per canzoni vi erano riferimenti ad autori o a libri letti?

In Un biglietto del tram degli Stormy Six (1975) c’è qualcosa di più di un riferimento: lì, con la faccia tosta dei vent’anni, ho riscritto uno dei più celebri capitoli della “Waste Land” di Eliot, La sepoltura dei morti, riadattandolo al tema del disco (la memoria della Resistenza). Nell’album L’apprendista (1977) la canzone che si intitola Cuore (musica di Tommaso Leddi) riprende i personaggi del libro di De Amicis: Franti, Enrico, il muratorino, il tamburino sardo… In un altro disco degli Stormy Six, Macchina maccheronica (1979), il testo del pezzo che si chiama Le lucciole (musica di Franco Fabbri) l’ho scritto prendendo spunto da un famoso articolo di Pasolini, pubblicato in quegli anni sul Corriere e poi raccolto negli Scritti corsari; il titolo stesso del disco, Macchina maccheronica, è un riferimento a Teofilo Folengo, alla sua ibridazione tra latino e dialetto, tra cultura “alta” e cultura popolare. Altro adesso non mi viene in mente.


Circa la scrittura poetica invece, ci sono autori che consideri modelli o che ti hanno dato delle suggestioni particolari?

Innanzitutto direi Montale, che ho letto a dodici anni. Specialmente gli Ossi di seppia. È il libro in cui ho sentito per la prima volta la poesia come perfetta fusione di suoni e immagini, di cose e parole; una scrittura senza sbavature, essenziale, austera, eppure estremamente sensuale. È stato come ascoltare per la prima volta la lingua italiana. Lo stesso direi di Sandro Penna, scoperto negli stessi anni nell’antologia di Spagnoletti.

Un altro poeta che -per ragioni diverse- ha avuto un forte impatto sulla mia formazione è Stéphane Mallarmé. L’ho letto al ginnasio, ma l’ho scoperto davvero più tardi, a vent’anni: solo allora ho capito che lì c’erano le radici più profonde e più amare della poesia del Novecento, e mi sono messo a studiarlo. La sua bravura tecnica, la sua raffinatezza, il suo rigore, le sue idee sul linguaggio poetico, mi affascinavano e insieme mi sgomentavano. Baudelaire, invece, è stato per me il modello di un’energia poetica che ha il suo centro saldissimo in un’immagine, in una figura indimenticabile: i ciechi, la passante, i sette vecchi, il cigno, l’albatros…

Dovrei poi nominare i classici di ogni tempo: da Dante a Eliot , da Goethe a Rilke, da Leopardi a Hölderlin a Benn; ma per limitare il discorso al Novecento italiano, gli autori che forse mi hanno dato più da pensare – oltre a quelli già ricordati – sono Andrea Zanzotto e Camillo Sbarbaro. Due poeti molto lontani tra loro, come si vede. Dal fascino di Zanzotto, dal suo scavo forsennato nelle profondità del linguaggio, mi sono dovuto a un certo punto liberare, per non restarne schiacciato; Sbarbaro (lo Sbarbaro di Pianissimo) mi ha fornito invece il modello di una scrittura poetica senza astuzie letterarie, umile fino alla mortificazione, esposta, aspramente etica.


Qual è l’ultimo libro letto?

Mimesis, di Erich Auerbach: un famosissimo saggio sul realismo nella letteratura occidentale, da Omero a Virginia Woolf. È uno di quei libri talmente citati e lodati che alla fine uno si convince di averli letti. Invece io l’ho letto soltanto ora, nella nuova edizione Einaudi, e sono felicissimo di essermi deciso a farlo: è un libro davvero importante, senza inutili pesantezze accademiche, svelto, brillante, vitale. Vedere una grande intelligenza all’opera ricarica, restituisce un po’ di fiducia nel genere umano. Ne avevo proprio bisogno.


Che cosa consiglieresti ai più giovani per invogliarli a leggere?

È difficile dare dei consigli generali, che non tengano conto della personalità, delle curiosità, degli interessi, delle inclinazioni di ogni singolo. I consigli, poi, rischiano di suonare come delle prediche, e le prediche sono proprio quello che guasta il rapporto dei giovani con la letteratura. Comunque, io direi: partite dall’idea che nei libri – in tutti i libri – si parla di voi. Se volete sapere chi siete veramente, leggete.


(di Grazia Casagrande su Wuz.it)

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