Non è vero che viviamo in un mondo vuoto. Oppure è vero, ma dicendo così non si è fatta abbastanza chiarezza sulla vera natura del nostro malessere: il nostro mondo è fatto male non perché sia privo di significati, ma perché di significati ce n’è troppi. Siamo bombardati dai significati, tutti i giorni, tutte le ore della nostra vita. Passiamo il tempo a interpretare i segni che il mondo ci scaraventa contro, interpretiamo tutto, psicologizziamo tutto e tutti, tutto si trasforma in sapere, tutto ciò che non è riducibile a uno qualunque dei saperi codificati tende a non esistere, perde ogni diritto di cittadinanza. Importa solo ciò che è dicibile, classificabile, scambiabile. E non ha molta importanza la qualità dei significati in questione: che siano effimeri oppure no, il meccanismo è lo stesso.Da questo punto di vista non c’è nessuna differenza tra un varietà televisivo, un libro di Habermas o di Cacciari e, al limite, una funzione religiosa o una musica new age: tutto è dominato dai significati.
Io credo che si possa guardare alla storia della società occidentale (non conosco bene le altre) come alla storia della progressiva invadenza dei significati sulle altre modalità di percezione del mondo (modalità anti-ermeneutiche). Credo che l’angoscia di Leopardi di fronte al dominio del commercio “spiritualista” del suo tempo, o, a ritroso, la polemica di Petrarca contro l’aristotelismo, appartengano al medesimo ordine di discorso: siano due tappe della presa di coscienza, da parte di alcuni, dell’enorme posta in gioco nella battaglia secolare tra le istanze mentalistiche (e utilitaristiche) connesse all’uso dei saperi e le istanze, sempre perdenti perché costitutivamente anti-autoritarie, che puntavano allo sviluppo sociale delle facoltà percettive legate ai corpi.
Questa è anche la storia mefitica del declino sociale della poesia, che dopo Dante si è dovuta arroccare in difesa dei sensi, della percezione soggettiva (psicologia), oppure svendere in qualità di ancella di qualche sapere o potere.
La cosiddetta poesia civile, quella più implicata con il mondo dei significati, ha poco senso perché nel migliore dei casi ci dice ciò che già sappiamo, e questo mi pare un compito ben povero per una poesia. Soltanto chi non ha niente da dire si preoccupa di quello che scriverà. La poesia vera non può che nascere da un mondo soggettivo talmente saldo nei suoi presupposti psichici che non ha bisogno di pensare o badare a se stesso, come non ha bisogno di dire “io sto qui e non lì”, oppure “io penso questo e non quello”, ecc. Soltanto chi ha già tutto può permettersi il lusso (necessario) di essere generoso. I poeti assillati dal bisogno di dire qualcosa sono quelli cui manca qualcosa di fondamentale: soggetti non risolti che non sono in grado di provocare una crescita della realtà ma subiscono le proprie idiosincrasie e i propri squilibri. Questi vanno in cerca di qualcosa di troppo effimero e di troppo soggettivo per esserci utili veramente: non escono da se stessi.
Pensiamo invece al mondo di Dante, ma anche di Petrarca di Ariosto di Leopardi: tutto nei loro testi indica la provenienza da una soggettività salda, monolitica e sana, sicura di sé malgrado le apparenze. È soltanto da un mondo di questo genere che noi possiamo imparare e toccare la vera mancanza, ciò che è in grado di toccarci tutti perché appartiene non alla psicologia di questo o quest’altro individuo ma al significato antropologico dello stare al mondo, alla natura delle cose. Potremmo cercare di definire questa mancanza come l’essenza della mortalità, o della temporalità.
Questa mancanza giace al fondo di ogni lingua naturale: è ciò che viene rimosso nel secolare uso comunicativo della lingua. È così che il linguaggio della comunicazione in realtà non comunica granché: la possibilità di una vera comunicazione, di una vera condivisione si è persa per strada; ci si vieta a priori, per sordità verso la lingua, la possibilità di un contatto umano non fittizio. Non c’è contatto infatti se non in presenza della mortalità. È il nostro essere per la morte che ci unisce, ed è la consapevolezza dello scorrere del tempo che conferisce verità ai nostri rapporti, nella dimensione dell’incontro in un comune destino.
Scovare questo fondo mancante nei meccanismi della lingua è il compito dei poeti. I poeti sono coloro che sono abbastanza forti per non farsi distogliere dalle rispettive manchevolezze personali, individuali, e che riescono a concentrarsi, magari solo per qualche frazione di secondo, sull’essenza della temporalità. (È per questo che nelle poesie è così importante il tema della memoria: Mnemosyne è la madre delle muse, come ama ricordare Antonio Prete).
Riesco a distinguere abbastanza chiaramente almeno due ambiti di indagine in questo campo, anche se la distinzione è puramente strumentale, e penso che due siano altresì i modi dell’indagine, gli atteggiamenti percettivi fondanti (questi realmente complementari). Primo ambito di indagine: l’essenza della temporalità si può cogliere fermandosi. Il rallentamento elocutivo che si ottiene all’incrocio di un particolare ordine delle parole con una configurazione ritmica e un particolare assetto intonativo del verso (o della frase), magari in coincidenza con una sia pur lieve ambiguità semantica, procura una sosta, una leggera implicazione autoriflessiva nella catena fonosintattica, una difficoltà di pronuncia che di solito ha a che fare con un prolungamento ‘artificiale’ della quantità o durata delle vocali.
Non me la sento di esagerare in auto-analisi, ma ciò che ho tentato di descrivere nel paragrafetto che precede è ciò che ho tentato di fare abbastanza inconsciamente fin dalla Bella mano e poi forse un po’ troppo consapevolmente nelle Stanze del gusto cattivo da cui estrapolo un paio di esempi senza commento:
Io sono nascosto dalle piante, ogni giardino
copre altre persone, e io conosco male
chi cammina con il vento sulla strada.
Di notte la casa è scoperchiata
e con il buio entra la polvere
e io sento precisa la mia vita.
*
Conoscimi quando si ferma l’estate
o si rallenta in un sogno del pensiero.
Mentre io fingo il mio consenso
conosci dove più alta è la città
più profonda la pelle dell’anca.
Là metti le mani nude.
La dose di violenza che la lingua subisce in questo processo dipende dalla poetica dell’autore, dall’ampiezza dello scarto rispetto a un presunto grado zero della lingua.
Nelle poesie che scrivevo lo scarto era decisamente contenuto, ma nel corso degli anni ho imparato a odiare alcuni di questi miei “effetti personali”. C’era, secondo me, un filtro formale ancora troppo evidente tra me e il mio lettore ideale: con chi stavo parlando? Chi volevo impressionare? Ne risultava un tono ieratico che contro le mie intenzioni poteva essere preso come intimidatorio e dunque allontanante.
Mi è divenuto sempre più chiaro che questo genere di esperienza, ai nostri giorni, è tanto più difficile, interessante e meritoria quanto meno le caratteristiche della lingua adottata si distanziano dal registro quotidiano di lessico e sintassi. Quanto minore appare la violenza sulla lingua, quanto maggiore è l’illusione sulla sua naturalezza, tanto più aumenta la possibilità, non solo di rivolgersi a tutti – cioè di rifondare una dimensione comunitaria per la poesia – ma anche di svolgere una funzione socialmente utile insinuando la
dimensione del silenzio direttamente nel corpo della lingua di comunicazione e promuovendone la riscossa all’insaputa dello stesso lettore.
Sono nate così le poesie di Ritorno a Planaval , come una sorta di imperativo a circostanziare e a calare in una dimensione di ‘racconto’ quegli stessi snodi ed eventi di natura sintattica, ritmica e intonativa che qui sono forse meno facili da identificare poiché meno evidente è la strategia del rallentamento lirico in atto:
Platano
Sono uscito a camminare verso il mare, ma devo negarlo
perché ero uscito e in realtà quasi subito
ho incontrato un platano e mi tocca di scriverlo,
anche se scrivere è di più che raccontare,
anche se raccontare è già difficile,
anche se il difficile è rientrare
a scrivere del platano,
a raccontare il platano
senza averlo davanti,
cercando di ricordare,
tradendo nel ricordo come se lui non esistesse, veramente
platano di rami e foglie nella luce.
Come dimenticarlo
Descriverlo, accettare le metafore, perfettamente sufficienti, indifferenti in apparenza ma vive del suo sguardo, morte del suo splendore, del male che le fa differenti e lucide di sé. E complimenti al platano e addio alla passeggiata, di chi per un momento ha creduto di vederlo e l’ha dimenticato.
Ricostruirlo come nuovo
Ritornare sul prato come in cerca di qualcosa che non è più albero,
non più albero di me e di te che mi leggi e non stai sul prato,
e senza amore immagini quest’albero, senza riserve di realtà.
Chiederti di venire senza fissare appuntamenti,
chiedere insieme distrattamente
con la sola energia che ci è concessa
un posto libero nel prato, di fronte al mare,
non lontano dalla stanza dove tutto è raccontato.
Credo che questa rivalutazione silenziosa (che non è una nobilitazione) del luogo comune per il tramite dei meccanismi formali sia un passaggio obbligato per gli scrittori impegnati del nostro tempo e che qui, non altrove, si giochi l’istanza di realismo e la valenza “civile” delle nostre opere.
Secondo ambito di indagine: ci si può soffermare sul rapporto tra parole e cose. Il mondo è fatto soprattutto di cose. Le cose non parlano, ma hanno un linguaggio e una loro ragione d’essere. Sono lì a ricordarci che si può stare nel silenzio. Mi accorgo che chi usa con disinvoltura il linguaggio della comunicazione scritta (giornalisti, letterati, filosofi) o orale (chiacchieroni), insomma chi, come si dice, ha “facilità di parola” non solo è generalmente negato all’ascolto della lingua – cioè vive in una dimensione di totale sudditanza nei confronti dell’istituzione linguistica e dei suoi cliché – ma ha, di solito, un pessimo rapporto con gli oggetti d’uso quotidiano: li spacca, li ignora, li tratta male; vede in essi esclusivamente la loro funzione d’uso e spesso, proprio per questo, vive male la loro presenza, ha bisogno di qualcuno al suo fianco che sia in grado di risolvere le questioni pratiche. È il motivo per cui bisogna diffidare della categoria dei poeti inetti, quelli che non sarebbero in grado di attaccare un chiodo al muro o di farsi un uovo all’occhio: sono persone che non amano la lingua. Chi ama la lingua ama le cose, chi sa ascoltare la lingua sa ascoltare il silenzio delle cose. Non c’è amore senza fisicità e non c’è poesia senza un rapporto fisico con le cose e con la lingua, che ne è l’allegoria razionale. Per il tramite delle cose la temporalità entra nella lingua: bisognerebbe toccare le parole come se fossero cose. Ecco un paio di maldestri tentativi:
Il vetrino
Una sera, ero in ritardo, con un asciugamano, inavvertitamente, ho urtato una preziosa bottiglietta di profumo, che è caduta. I pezzi sono stati raccolti, quasi tutti in un primo momento, altri nel corso del tempo, a mano a mano diminuendo le proporzioni dei reperti. Dopo un mese in un anfratto del pavimento è comparso un vetrino trasparente, ma nessuno l’ha raccolto.
È passato altro tempo, ogni volta che entravo nel bagno
lo vedevo e mi ripromettevo: «Prima di uscire
lo raccolgo e lo butto»,
e nelle mie faccende lo tenevo d’occhio
perché non se ne andasse o scomparisse
tra le frange del tappeto o altro.
Ma il bagno libera i pensieri e al momento
di uscire dalla stanza un’altra
memoria ne prendeva il posto,
e il vetrino è rimasto e negli ultimi giorni
è diventato un’ossessione, un’ossessione
all’ultimo secondo regolarmente rimossa.
E oggi mi sono impuntato,
mi sono concentrato più di ieri
e più dell’altro ieri e ce l’ho fatta:
è stata una vittoria graduale
di unamemoria su altre memorie.
Ho allungato la mano e con sorpresa
il vetro non ha opposto resistenza:
è stato docile, si è fatto raccogliere
come se per tutto questo tempo
avesse atteso me, il mio intervento.
Adesso non so se per pietà, per un senso del dovere
per rispetto o per amore l’ho posato
sul nero della scrivania, davanti a me,
e scrivendo lo contemplo e raccolgo
la sua storia di cosa legata alla mia,
e uno stesso appartamento ci contiene.
Sono orgoglioso di averlo salvato
e lui risponde alla luce e manda timidi bagliori.
Ma io ci vedo dentro il firmamento e questa notte
lo metto all’aperto e me lo guardo
perché c’è la luna, perché ritorni,
nella chiara altezza di cobalto, il cielo.
Lenzuola
Ho due lenzuola vecchie di vent’anni
e una federa a fiori
che tengo in casa per gli amici intimi,
usandole sempre ma ogni volta pensando
e pregando, temendo lo strappo
che potrebbe seguire al lavaggio,
ogni volta congetturando
un utilizzo diversificato dei ritagli
come tendina, fazzoletto, come involucro antipolvere,
come sacca per le pantofole.
I miei amici non lo sanno che ogni volta un poco tremo
a vederli dormire beati
nel sudario di un passato solo mio
che ogni volta per loro si assottiglia e ogni volta,
grazie a loro, mi tortura.
E vengo ai due atteggiamenti percettivi che il poeta forte può assumere nei confronti delle cose. È difficile descrivere ciò che avviene esattamente nel cortocircuito tra percezione e scrittura. Credo però che uno dei modi per ascoltare la temporalità insita nelle cose consista in un massimo di concentrazione: l’attenzione si concentra talmente su un oggetto (non importa se fisico o metafisico) da estrarne alcune proprietà inedite. La poesia è dunque il frutto di uno scandaglio in profondità; ma ciò che si acquista in intensità rischia di perdersi nella vastità di un orizzonte poco definito.
L’altro modo o temperamento percettivo, a me più consentaneo, consiste invece nell’acutizzarsi momentaneo di una disposizione ‘distratta’ verso le cose:
Il rumore
Come quando si è concentrati su qualcosa
– per esempio la lettura di un romanzo –
e un rumore sordo e secco si produce
in un altro appartamento
che attraverso la finestra aperta più robusto e più preciso
e più imprevisto di un qualsiasi altro rumore
dall’esterno giunge al timpano,
il lettore ha un mancamento e tanto più trasale
quanto più forte è l’altro mondo scritto
e più denso il sogno che conduce;
così non preparato alle figure e ai fatti della sua giornata
è colto uno che conosce
e non ascolta la sua vita.
La distrazione non si oppone all’attenzione quanto alla concentrazione, è insomma attenzione massima e contemporanea verso tutte le cose del mondo. Ciò che si perde in intensità di sensazione si acquista in vastità di orizzonte, in consapevolezza relazionale. In questa disposizione, gli incontri che si fanno con persone, oggetti, animali e sentimenti sono sempre occasionali, casuali, disturbati come nella vita:
Il sogno
Ho appena fatto un sogno velocissimo,
di un attimo,
che non ricordo cosa fosse esattamente,
o più che un sogno era un’immagine…
So soltanto che mi sono svegliato
subito con l’intenzione di fissarlo,
catturarlo nella carta
e adesso sono qui con la penna
e il sogno se n’è andato col sonno
forse da Laura che mi dorme accanto
o da qualcuno, attraversando le pareti,
al piano sopra o sotto:
segno che non era un sogno
rigorosamente mio, era,
probabilmente, un sogno vero
(di Stefano Dal Bianco su Trame di letteratura comparata, volume 7, 2004)
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