La moralità del quotidiano nei versi di Patrizia Cavalli

Patrizia Cavalli è ormai poeta-cult. Ruggero Guarini coglie nei suoi versi una “mistura di erotismo e purezza, tenerezza e audacia, intelligenza e candore, futilità e saggezza, profondità e leggerezza, allegria e mestizia, passione e strafottenza, concretezza e grazia, accortezza e negligenza, serietà e buffoneria, sfacciataggine e delicatezza, gentilezza e brutalità, maturità e innocenza, fugacità ed eternità, esattezza e sprezzatura”. Dopo queste iridescenti endiadi (non tutte però, come reclama il loro autore, “ossimori”) cos’altro dire di meglio, di più? Nel dubbio, ci associamo alla briosa formula critica. Poi però, man mano che avanziamo nella lettura dell’ultima raccolta della Cavalli (Pigre divinità e prigra sorte, ed. Einaudi), ci accorgiamo che molte delle qualità celebrate dallo scrittore si sono un po’ affievolite, o forse hanno acquisito un diverso spessore: il candore o l’innocenza, per tutte. Quell’io prorompente – “l’io singolare, proprio mio” – che nutriva i suoi primi lavori si distende e si scioglie ora a tratti – per maturità, per abbandono? – in un colloquiale monologare intessuto di incontri, di visioni, di attraversamenti interiori (certo, dentro il “mio” paesaggio, dice ancora) lenti e avvolgenti, perfino tortuosi, nell’attesa che si rivelino le “pigre divinità e pigra sorte” da cui la Cavalli si aspetta un destino, una “fortuna” di cui lei non vuole essere “fabbrica”. Molte poesie iniziano con un punto interrogativo, una intera sequenza (“Sempre voler capire”) è il doloroso interrogarsi – si sa, i veri poeti sono moralisti – sul “male” e il “bene”. Il male è “dismisura che si rovescia in varietà di forme” non difficili a scovare, “basta muoversi un po’, intraprendere, volere”; il “bene” è invece “assenza di sostanza”. “Non si svela”. Quando lo si cerca, “diventa il suo fantasma”. Dunque il “sempre voler capire” è necessario. Come Proserpina, la Cavalli si addentra nel cunicolo buio: l’interrogarsi è un inseguire i meandri della coscienza. A volte “bisogna cedere…”, a volte si incontrerà la morte: “Sto per morire… Lo fanno tutti, dovrò farlo anch’io…”. Anzi: “guarda, sono già morta. / Guardami! Risorgimi!”.

La sua prima raccolta (Poesie 1974 -1992) ruggiva di erotismo, affocato come quello di Sandro Penna, ed era ricca di gemme, quasi frammenti di un lirico greco classico fortunosamente dissepolti tra le sabbie d’Egitto: “Prendimi adesso tra le tue braccia / adesso sciolta da me raccoglimi / non per ridarmi forza / ma perché possa arrendermi”. Questa, sì, è poesia – non certo in forma riduttiva – al femminile, per cui Cavalli è poetessa oltreché poeta. Anche nel volume di cui stiamo parlando c’è poesia al femminile, ma ilare e vaga: “Butta la pasta, arrivo!” Il momento della scolatura della pasta è frenetico in Italia, dove la pasta la si vuole non scotta. Per Patrizia,”quel momento quasi santo della scolatura”, è addirittura “isterico” ma “felice”, e “prima o poi, anche ai più disgraziati, a tutti tocca”. Non è bella, la moralità del quotidiano che sgorga leggera, come il succo di un frutto spaccato, da questi versi? E la moralità del quotidiano torna a dettarle dentro, quando la Cavalli vaga attraverso i suoi amati paesaggi romani, Via del Biscione, Ponte Sisto, Piazza Navona. Piazza Navona ci si apre davanti nell’ossessivo, ripetuto rombo di una parola, “vuoto”, il vuoto destinato a riempirsi degli oggetti di un consumo distruttivo, inaccettabile: “chiasso, puzze, concerti, promozioni”.

La versificazione della Cavalli ha sovente il profumo dell’epigramma: di epigrammi era piena la prima, già ricordata, raccolta. Oppure del madrigale, della canzonetta in settenari, della canzone a ballo; a volte si scioglie in una rottura prosastica e discorsiva che viene giù come una frana, appena ripresa – per i capelli – da un sapiente ritorno alla costruzione esatta, calcolata su schemi tradizionali e anche facili, in un gioco ritmico calcolato, in rime un po’ balorde ma simpatiche: “parte/disparte”, “oro/tesoro”. A tratti, poi, echeggia Pasolini (ma forse esageriamo), il Pasolini de Le ceneri di Gramsci, quel modulare di zampogna o di basso, alla fine quasi afasica, inespressiva, pura modulazione di suoni. Confessa ora (“La Guardiana”) che la sua poesia è trucco, scasso con destrezza appreso nell’infanzia con l’esercizio dell’apertura di riottose serrature. Rispondendo a una intervistatrice, aveva detto che scrivere versi le serve “per essere immortale. Non nel senso dei posteri, per carità. Ma a essere immortale lì per lì, mentre scrivo. Mi salva dal tempo, mi restituisce l’interezza, scorre la mia ansia. E poi, questo infine l’ho capito, è l’unica cosa che riesco a fare senza sofferenza”. Forse oggi, ahilei, la sofferenza è arrivata.

(di Angiolo Bandinelli su Poeti e Poetastri)

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