“Duro intelligere e morbido sentire” la poesia di Patrizia Cavalli

“Non viaggerei mai senza il mio diario. Si dovrebbe avere sempre qualcosa di eccezionale da leggere in treno”(O. Wilde)

Riderei compiaciuta e divertita se sapessi che Patrizia Cavalli l’ha detto proprio del taccuino delle sue poesie, preparando la valigia; rientrerebbe poi, in una sorta di mitologia stravagante e non molto aderente alla realtà, nata attorno a lei.

Da  Poesie (Einaudi 1992) a Sempre aperto teatro (Einaudi 1999) a Pigre divinità e Pigra sorte (Einaudi 2006), con  accenti e urgenze diverse, siamo di fronte ad una scrittura vera, avvincente, pensante, una scrittura che ha trovato la sua misura nel confronto con la vita e con il mondo dell’immagine, in una forma stilistica che si risolve in una raffinata e articolata struttura tecnica.

“L’unità dell’insieme (…) è data in Cavalli dall’inesauribile  ricerca di un bene perduto, che dal gioco infantile l’ha portata per gradi, ma senza mai perdere l’innocenza originaria, al gioco poetico”.

Così Alberto Asor Rosa in un articolo apparso su La Repubblica del 22 luglio 2006, descrive il percorso di questa scrittura, azzardando e riducendo il processo poetico a mero riempimento di un vuoto, perdendo di vista, a mio avviso, la manifestazione di una densità di senso e di forma, la lucentezza di una poesia di sincronismo che congiunge volitivamente, creando un’armonia ritmica tanto particolare e difficile da dimenticare. A “quella vocina un po’ infantile e coraggiosa” (continua Asor Rosa) rintracciata non so dove, risponderei semplicemente con i versi della Cavalli  “Duro intelligere e morbido sentire,/il peggio che ci possa capitare”. Condizione a ben pensare che distingue, o dovrebbe, il poeta, dal resto della comunità umana, dove l’inversione in  morbido intelligere e duro sentire, sembra costituire la norma.

Il poeta, ben conosce  quella sovraesposizione  di troppa anima, “molto ambiziosa anima che sale/perché si vuole mescolare stoltamente al cielo (…)”.Movimento e attesa dominano, un movimento costituito da effetti labirintici delle parole e di senso (Amore non mio e neanche tuo), capovolgimenti che ridefiniscono il sentire e poi l’attesa, quella cui non sfugge alcun rumore e l’essere – dolorosamente sensibile – si espande attendendo ogni suono emesso dall’esistenza.

I versi ci colgono spesso di sorpresa, ci è ignota la destinazione di ogni pagina, sembrano essere composti  in quel momento, per noi, estemporanei, illusione d’improvvisazione e la forma si dipana a volte discorsiva, a volte asciutta.

Sonore ed energiche, le parole creano istantanee, che ci costringono a inusuali collegamenti, spiazzanti; la Cavalli rompe l’ovvio, l’ordinario pensare, categoria ignota alla geografia dei suoi versi.  A volte invece ci getta con elegante noncuranza, anticipi spiati ad un divenire, lì, a portata di mano, incita a guardare gli ipotetici esiti di un incontro. E’ anche pronta a congelarci con la comicità, attraverso un precipitarsi dentro la cosa di cui parla, in una sorta di eccesso che finisce per produrre questo effetto così singolare, tanto lontana da quell’ironia , ovvero da quella distanza, che si è soliti attribuirle. A volte ci pietrifica, fermando qualsiasi cedimento ad ansie o ad eccessi verbali o sentimentali, tanto decisa ad afferrarci l’anima e lo sguardo e a tenerli fissi allo spettacolo della vita, senza concessione alcuna né a noi, né a lei.

Spesso si è parlato della sua poesia come poesia della quotidianità. I versi e il ritmo serrato propongono un’idea forte della parola, pur misurandosi con la fragilità ontologica della condizione umana, dell’essere ‘deietti’, abbandonati sulla terra. Il suo frammento  si apre verso il tutto, frutto di una profonda analisi che attraverso la parola “essenziale” è in grado di ricomporre il tutto in una sintesi. I componimenti brevi sono squarci da cui guardare, da cui il poeta ci guarda. Allora a che serve indicare una  poesia come quotidiana, esiste una poesia dei massimi sistemi da contrapporre?

Pigra divinità e pigra sorte ha tratti profondamente tristi, il tema della morte ritorna con tutto lo sgomento che le appartiene: morte invadente, nascosta e aggirata, irrimediabilmente ineluttabile, indecente ed è proprio lei a modificare lo scenario che ci circonda. La Cavalli, contro la morte, ingaggia un discorso complesso e doloroso, il tempo, cui essa è inevitabilmente collegato, è continuamente interrogato ed eluso, lo si sfugge, lo si sospende attraverso i versi, lo si riconduce ad una circolarità che garantisce dalla dissoluzione; a volte invece si cristallizza a consolidare la memoria, ad immagazzinare il benessere in un lampo, ”Non essere felici dentro quell’aria/pareva un sacrilegio (…)”.

Nella sua poesia non trovo depositi di nostalgia, la vita rinasce in continue piccole e grandi occasioni, la storia è fragile, opinabile, mutevole e per questo, per viverla c’è bisogno di spazi ampi, anche dentro di sé, “O amori – veri o falsi/siate amori, muovetevi felici/nel vuoto che vi offro”.  La mutevolezza chiede aria, spazio per ricongiungimenti, per ritorni improvvisi in noi di un segmento di tempo apparentemente passato e che proprio per la sua circolarità, si ripresenta improvviso quando meno te l’aspetti, una sera “mettendo dentro il suo sacchetto il pane”.

C’è un mondo che è inquinato e inquina, che invade con i suoi “impiegati solerti del rumore”, privi di “umano stupore”; si riempiono luoghi, piazze deputate al “dolce agio”, per poi improvvisamente svuotare e abbandonare, senza capitalizzare nulla, senza storia. E’ l’epoca dell’assenza e dell’incuria, il male esteriore si fa anche interiore e gli amori si trasformano in “storie”, condannati al presente.

In quest’esistenza ci si urta “dandosi calci tiepidi e sbadati forse/sperando che nel muoversi si accenda/qualche segreto dimentico ardore. (…)”. In mezzo a questo mondo fatto di rumore e di tentata comunicazione, la Cavalli ci ricorda che i sensi restano pur sempre i custodi e i garanti del nostro essere nel mondo; e prima di interpretare, di dire, è necessario percepire meravigliati “E’ come quando d’estate alzando gli occhi/al cielo sperando di vedere una stella/che cade, o che/potrebbe cadere, (…)/(…) si compia ciò che voglio si avveri il desiderio. Anche se non lo so/non lo conosco, la stella lei lo sa,/perché è lontana.”.

Il poeta interroga le ragioni, le condizioni del piacere o del dolore, i piccoli infiniti micromutamenti del nostro essere e sentire, misura la propria inettitudine e la propria dismisura.

Invita tra le righe, consapevole o no, a sviluppare i sensi pigri e appiattiti e lo fa con la discrezione del silenzio, dove si delinea quel pieno di energia, di “rincorsa” che consente di toccare taglienti verità…e la pagina si richiude nel silenzio.

 

E’tutto così semplice, si, era così semplice,

è tale l’evidenza che quasi non ci credo.

A questo serve il corpo: mi tocchi o non mi tocchi,

mi abbracci o mi allontani. Il resto è per i pazzi

(Pigre divinità e pigra sorte, Einaudi 2006)

 

(di Gabriella Schina  su Il porticciolo cultura)

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