Gorgheggia in silenzio la poesia più autentica – Intervista ad Antonella Anedda

Intervistata da Pietro Pancamo, la professoressa Antonella Anedda – che con le sue traduzioni e liriche è riuscita a conquistare la critica attuale – rivela come i versi più belli sian quelli che risuonano di semplici parole e spoglia dignità. Pietro Pancamo

 

Che cos’è per lei la poesia? Come la descriverebbe, o presenterebbe, ad una classe di studenti in ascolto?

È la mia realtà, fitta nella mia vita: una radice, a volte una lama. È il modo che ho di aprirmi al mondo, con il verso, con il ritmo che ho in testa e sulla cui partitura lavoro quando lo metto sulla pagina. Non amo parlare di poesia, ma di poesie. Sono molte, diverse, mutevoli. Sono varchi, spazi dove il tempo è diverso e quindi può contemplare la morte.?A un gruppo di studenti (o di adulti) direi (e dico) semplicemente: ascoltate. Se la poesia è vera, si fa silenzio. La gente capisce, anzi capisce più la poesia della prosa. Solo che vuole serietà, vuole sentire il testo e non chiacchiere su di esso. Un giorno ho letto in classe una poesia di Puškin. Sono alunni di una scuola professionale, spesso difficili, a volte caratteriali. Ho detto: niente parafrasi. Vi riassumo di cosa parla questa poesia: di una persona amata e perduta, di lunghi anni di grigiore in cui tutto sembra spento. Poi la persona riappare e il mondo sembra parlare di nuovo: la poesia, prima muta, ritrova le parole. Bene: lentamente, mentre leggevo, i ragazzi hanno lasciato i banchi e si sono seduti silenziosamente intorno alla cattedra.

 

In un articolo a firma di Elena Petrassi, apparso sulla rivista letteraria «La Mosca di Milano», si commentano i versi contenuti nella sua raccolta d’esordio «Residenze invernali», a proposito della quale si nota e sottolinea: “L’io poetico osserva il mondo […] ma ne resta separato come se tutto fosse visto sempre da dietro un vetro e detto […] con grande fatica e un’estrema ritrosia”. Vorrebbe spiegarmi le ragioni di questo particolare atteggiamento e quindi aggiungere se esso, nelle sillogi seguenti, sia poi rimasto inalterato e costante o se invece sia andato mutando per evolversi gradualmente in forme nuove?

Le ragioni credo che risiedano nel mio carattere. Non amo l’invadenza. Non mi piacciono i testi in cui l’io è troppo presente, in cui si “confessa” (per questo, ci sono i diari).?Quanto all’essere dietro un vetro, non so. Non nel senso di una distanza voluta. Ma nella fatica, sì, mi riconosco. Perché quello che vediamo (la povertà, l’emarginazione di alcuni che aumenta sempre di più mentre la solidarietà diminuisce) è molto duro da vivere, da sopportare: in me genera fatica e un senso di irrealtà come se fossimo tutti, però, dietro dei vetri.?Negli ultimi testi che ho scritto, c’è il tentativo di rendere tangibili – per chiedere ragione del dolore e dell’ingiustizia – l’indigenza e l’egoismo cui accennavo prima.

 

Che cosa la affascina maggiormente nella lingua e l’opera di Philippe Jaccottet, autore del quale lei ha tradotto per la Fondazione Piazzolla una serie di prose e poesie?

Di Jaccottet mi affascina l’assenza di arroganza che non gonfia mai il linguaggio, la sua sete di verità, il suo agnosticismo che però non smette di ascoltare, aspettare. La povertà di una poesia che, senza peraltro mai cadere nel vezzo dell’ingenuità, non vuole stupire. Sono valori morali che Jaccottet traduce naturalmente, con un suo particolare silenzio nei suoi versi. È davvero un maestro di silenzio. È un silenzio che respira nei suoi spazi. Insegna a diffidare della tentazione retorica, dell’inutilità di tante parole. Mi piace che sia una poesia senza effetti, senza furbizie. Amo i poeti che ama: Osip Mandel’štam, fra tutti, che ha meravigliosamente tradotto. Amo il modo in cui parla della Russia. Anzi «La parola Russia» è uno dei più bei libri sulla letteratura russa che abbia letto, e mi rallegra molto averlo tradotto [nel 2004 per Donzelli editore, ndr].

 

Essere autori in proprio (di liriche e prose) aiuta anche a meglio tradurre i testi altrui? E come?

No, non credo che occorra necessariamente essere poeti. Ci sono ottimi traduttori non poeti e poeti troppo innamorati di sé per tradurre altri poeti. Detto questo, per chi scrive tradurre è fondamentale. Se si evitano il narcisismo, l’assimilazione, la volontà di costringere tutto (persino ogni virgola) entro il proprio mondo… e si accoglie lo straniero, l’estraneo nella propria lingua, allora tradurre diventa un esercizio etico. Prestare orecchio alla voce dell’altro fa crescere la propria poesia. Ancora una volta c’è la lezione di Jaccottet, traduttore che non ha mai teorizzato sulla traduzione, ma ha posto l’accento sulla necessità di una “justesse” lontana da un’eccessiva libertà. È una “trasparenza” che ha avuto la fortuna di trovare in un poeta che ha tradotto gran parte della sua opera, cioè Fabio Pusterla.?Comunque ho iniziato ad amare la poesia a partire da una traduzione, dopo l’ascolto di una lirica in russo di Aleksandr Blok. Non so se fosse ben tradotta, ma quel suono, quel ritmo – e poi la loro traccia in italiano – mi hanno spinta verso uno spazio che da allora coincide per me con la poesia.

 

La televisione, secondo lei, come e quanto ha inciso sul linguaggio comune, sull’italiano che siamo abituati quotidianamente a parlare?

Incide, ha inciso. Ha ucciso i dialetti, nel bene e nel male. Credo che in passato abbia avuto un ruolo importante. Un mio amico ha imparato da piccolissimo, prima di andare a scuola, a leggere e scrivere seguendo la trasmissione «Non è mai troppo tardi». Io mi ricordo gli sceneggiati tratti da romanzi. C’erano «I fratelli Karamazov», «Anna Karenina». Ora la televisione non a pagamento mi sembra, salvo rare eccezioni (una per tutte: «L’Infedele» di Lerner), inascoltabile e anche inguardabile. A volte spengo l’audio e sono stupita di tanto affanno, tante smorfie. Uno strano chiasso anche nel mutismo. Lo stesso succede se si oscura lo schermo: un lessico povero, un tono esagitato.?Invece con il satellite si vedono cose meravigliose, programmi sull’arte raffinatissimi.

 

Lei ritiene possibile (e come, eventualmente?) educare il grande pubblico alla poesia? Oppure pensa che nei confronti di quest’ultima l’attenzione e l’interesse siano già vivi a sufficienza in Italia?

Credo che l’attenzione e l’interesse siano sufficientemente vivi. Vivi a sufficienza perché la poesia continui. Ci saranno sempre poeti e lettori di poesia e sopravvivranno come i lombrichi. “Educare il grande pubblico” è un’espressione che mi fa un po’ rabbrividire. Forse è meglio lasciare che il piccolo pubblico legga in pace le poesie, fare in modo che le trovi e le possa comprare senza troppe difficoltà.?C’è una diffidenza nei confronti della poesia, ma spesso deriva da come è stata insegnata a scuola, da quel micidiale intreccio di sentimentalismo, enfasi, astrazione. C’è anche un fraintendimento tra poesia e “poetico”. Una volta una persona si è stupita perché le avevo consigliato di vedere «La sposa turca». Mi ha detto, in buona fede: «Ma è un film duro, io pensavo che i poeti fossero delicati… ».

 

Il direttore di una rivista culturale piuttosto conosciuta, ha dichiarato recentemente: «L’unico vero problema della nostra letteratura oggi è il vittimismo! Si legge sempre – e costantemente – di ritardo, di crisi, di provincialismo, di problemi… Ma non c’è niente di tanto provinciale quanto lamentarsi della propria situazione provinciale». Lei è d’accordo con queste affermazioni?

Sì, assolutamente d’accordo. E poi è un falso problema porsi di tali questioni, perché il ritardo, il provincialismo – che, come nella Russia di Cechov, non hanno mai impedito che ci fossero grandi autori – non riguardano chi scrive ed il suo dovere (scrivere meglio e più seriamente che si può).?Anche lamentarsi continuamente del fatto che la poesia non si venda è un falso problema. Prima di tutto – se pensiamo che gli editori non investono affatto su di essa – in proporzione vende tantissimo. Certo è un po’ comico che uno scelga di scrivere poesia e poi voglia anche diventare ricco. Questo non significa cadere nell’eccesso opposto: trovo giusto che le letture vengano pagate perché è molto duro (a meno che non piaccia esibirsi) salire su un palco, consegnarsi. È un lavoro.

 

Qualche mese fa Umberto Piersanti, nel rispondere a una mia domanda, si è così espresso: “Perché si scrive? Chi è il poeta? Una piccola prosa di Baudelaire ce lo dice meglio di ogni saggio antropologico. Il poeta, come tutti gli uomini, è un naufrago in un’isola deserta: aspetta l’alta marea, dunque (come tutti gli uomini) la vecchiaia e la morte. A differenza degli altri prende un biglietto, ci scrive sopra: “Io sono, io esisto”. Mette il biglietto dentro una bottiglia e butta quest’ultima nel mare”. Anche lei crede che il poeta sia l’unico e solo – sulla Terra – a sforzarsi d’attestare la propria esistenza e di lasciare, magari, un “promemoria” all’eternità?

Che la poesia sia un messaggio in bottiglia affidato al mare e destinato a un interlocutore vicino o sconosciuto è anche un’immagine ripresa da Paul Celan (e da Mandel’štam). Scherzando direi che non sono sicura che il poeta scriva sul biglietto: “Io esisto”; forse scrive: “Tu, mondo, esisti”; o forse: “Siamo tutti in questo naufragio, su questa isola”. E se torna a scrivere “Io sono”, ci mette un punto interrogativo.?Non penso che il poeta sia il solo e unico che si sforzi di attestare la propria esistenza; anzi, probabilmente scrive perché non è certo di esistere, perché sa che siamo, in realtà, spettri. Conosce, come Virgilio, come Kafka, la vanità delle opere, sa che in fondo sono nulla. A proposito di Kafka, c’è una frase che spiega, presumo, quello che intendo: “Tra te e il mondo, vedi di scegliere il mondo”. Dire, scrivere “Io esisto” è tipico della gioventù. Se poi nella bottiglia si infila un canto che riguarda l’isola, e quella parte di io che la contempla e la pensa, allora va bene metterla in mare.

 

Chiunque sia afflitto dalla vita può sul serio trovare conforto, come alcuni ripetono, nelle parole di un poeta? E se sì, in che modo?

Dipende dall’afflizione: se ci sono dolori inconsolabili (la poesia non è necessariamente taumaturgica), si hanno – di contro – situazioni in cui si sta sufficientemente bene da poter leggere, capire, ammirare. Non serve a nulla nel dolore fisico… lo so per esperienza. Sempre per esperienza so che può recare conforto nella paura, nello smarrimento, nella solitudine. Talvolta può rincuorare nella prigionia: si dice che Mandel’štam (ma chissà in che termini è arrivata la storia fino a noi) abbia declamato Petrarca nel gulag dove è morto. In «Se questo è un uomo» di Primo Levi c’è poi la celebre pagina in cui – complice una citazione da Dante – si riscopre che esiste una dignità, che gli esseri umani possono essere davvero umani. C’è l’«Iliade», come giustamente è stata letta da Simone Weil: la poesia come compassione, capacità di vedere il dolore dei vinti. C’è una forza nei versi altrui che si percepisce, che è un esempio. Un po’ come le vite degli uomini illustri, o dei santi.

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