Che fine ha fatto il futuro?

di Alessandro Assiri

Titolo dell’ultimo lavoro di Augè per i tipi di Eléuthera racchiude anche poeticamente delle considerazioni interessanti proprio verso quella poesia degli anni zero che ha esautorato la metafora come figura retorica, che fa uso di similitudini per esprimere un concetto a discapito di una metaforizzazione del presente per renderlo sopportabile o alla meno peggio cercare di comprenderlo.

Assistiamo spesso nella poesia di questo primo decennio del XXI secolo a una ridondanza metaforica tipica di culture dell’eccesso e dell’opulenza, ma anche figurazione di un panorama desolante che sembra relegare la poesia a un immaginario degli insoddisfatti. Nulla di male, ci mancherebbe, i tempi son questi e le soddisfazioni son quel che sono, ma mi piacerebbe che da quella parte di poesia che sente di appartenere alle letterature ‘mimetiche‘ sapesse ancora coccolarsi di utopie perché sarebbe riprendere in mano il linguaggio dei sogni, gli stessi sogni necessari a ripensare al futuro. Resta in molti versi questo attacco minimale all’immediato, tipico di un’emotività debole, che ritiene servirsi di metafore forti per autocelebarsi nelle proprie allegorie.

Il tempo poetico ha come smesso di suggerire senso perché è diventato, fenomicamente, prevedibile e ripetitivo, un tempo corroso non dall’incertezza che all’universo poetico appartiene ma da una quotidianità precaria e cannibale che ha nel ‘write the future‘ dell’ultima campagna pubblicitaria Nike la sua epigrafe. “L’irraggiungibile non è mai alto diceva la Čvetaeva in una lettera a Rilke: probabile, ma se le metafore dell’oggi sono queste, il futuro mi manca.

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